lavoro spezzato cittadini smarriti



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LE MONDE diplomatique - Giugno 2002  
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 Il nuovo taylorismo e la crisi della politica 
Lavoro spezzato, cittadini smarriti 


Come rapportarci a un mondo che non smette di parlarci di «cittadinanza»,
ma che contemporaneamente ci toglie quel poco di potere di cui ancora
disponiamo nel lavoro e nella vita? Questa domanda riguarda in particolare
i lavoratori dipendenti meno qualificati. I tecnici del management
impongono loro in continuazione, in nome delle «competenze», una situazione
di guerra di tutti contro tutti. Non bisogna poi dimenticare la frattura
generazionale, che produce giovani ai quali le prospettive di povertà e la
cultura dominante fanno provare vergogna della propria classe di origine. 

di Danièle Linhart* 
Il lavoro ci prepara ad assumere il ruolo di cittadini che ci compete nella
società? È lecito dubitarne, tanto più che il comportamento di una parte
dell'elettorato in occasione delle presidenziali francesi ha rivelato un
malessere le cui radici vanno ricercate anche nelle trasformazioni del
mondo del lavoro.
Alcuni servizi televisivi, per esempio, hanno mostrato lo smarrimento e il
sentimento di rivolta delle operaie della Moulinex, che hanno dovuto subire
la chiusura della fabbrica e i successivi piani di ristrutturazione.
Lasciando intendere che non avrebbero votato né per la sinistra né per la
destra di governo, queste operaie rappresentano una parte crescente dei
lavoratori dipendenti improvvisamente squalificati.
E d'altronde, perché mai dovrebbero rispettare le regole del gioco della
democrazia politica, mentre quelle del loro universo lavorativo vengono
disprezzate?
Dal 2000 i lavoratori hanno ricordato incessantemente ai manager e ai
politici che non intendono essere loro i soli a pagare, al punto di mettere
in pericolo in varie occasioni l'ordine pubblico. Ricordiamoci dei
lavoratori della Celatex (fabbrica di produzione di viscosa a Givet, nelle
Ardenne) e di quelli della fabbrica di birra Adelshoffen a Schiltigheim
(gruppo Heineken), che hanno fatto tremare l'opinione pubblica,
minacciando, gli uni, di provocare una catastrofe ecologica riversando
5mila litri di acido solforico nella Mosa e, gli altri, di far esplodere
barili di gas. E di quelli di Forgéval a Valenciennes (Nord), che avevano
minacciato di dar fuoco alla propria fabbrica.
O ancora di quelli della Bernard Faure, che hanno spaccato le macchine del
reparto all'annuncio della chiusura, dopo una serie di piani di cassa
integrazione.
In tal modo hanno fatto sapere al mondo, che si era dimenticato di loro, di
essere ancora vivi. Il fatto è che questi lavoratori sono presi in
considerazione solo dal punto di vista degli aspetti tecnici delle misure
di riconversione, o degli aspetti contabili delle indennità.
Chiusure o licenziamenti non sono solo fatti quantificabili - tot posti
persi, tot persone riciclate, tot prepensionamenti, tot indennità
finanziarie, formazioni proposte, eventuali traslochi - , ma rappresentano
altrettante prove, rotture, traumi, perdite, per le persone coinvolte,
cancellate dagli imperativi economici e finanziari, i diktat della
modernizzazione, le nuove regole del gioco della globalizzazione del capitale.
La «società del vuoto» Questi uomini e queste donne non perdono solo il
posto, non vedono solo naufragare progetti, punti di riferimento, la
sicurezza nell'affrontare i rischi della vita: si vedono anche privati
della dignità di lavoratori, della stima di sé, del sentimento di sentirsi
utili e al loro posto nella società. Il loro vissuto degli avvenimenti, il
trauma che incarnano, vengono trasferiti, trasfigurati in clausole
giuridiche e convenzionali: vengono fatti a pezzi e poi tagliati a fette
attraverso il bilancino delle competenze e le riassunzioni delle società
incaricate delle riconversioni, e poi annullati dalle indennità finanziarie
destinate a prosciugare i debiti e a permettere di ripartire da zero.
Chi si occupa di ciò che vivono queste persone, della violenza dello
strappo subìto? Chi ha idea dell'enormità del dramma che le colpisce?
Pochi, tanto è diffusa l'idea che si tratti di qualcosa di ineluttabile;
che in un modo o nell'altro bisogna arrivare alla «modernizzazione»,
qualunque sia il prezzo soggettivo da pagare. Quel che rende specifico
l'essere umano rispetto alle altre risorse economiche deve scomparire ed
essere sacrificato sull'altare della logica economica.
La società dovrebbe però riconsiderare la propria gerarchia dei valori.
Accettare l'idea che prima dell'economia e delle sue leggi c'è l'essere
sociale - proprio come scopre, poco per volta, che le leggi della natura
impongono preoccupazioni di ordine ecologico, sia pur contrastanti con
l'economia. In caso contrario, coloro che subiscono questa decimazione
sceglieranno atteggiamenti di sfida ai fondamenti democratici della nostra
società - e le recenti elezioni ci hanno mostrato la realtà di questo rischio.
Bisogna quindi tornare a riflettere sui nessi tra gli avvenimenti di ordine
economico, industriale, professionale e le conseguenze di ordine
individuale, personale. Per esempio, nei piani di ristrutturazione, che in
realtà destrutturano le comunità, ciascuno si trova improvvisamente
strappato via dal proprio mondo e posto di fronte, da solo, a un avvenire
da ricostruire. Le interviste che vengono condotte in queste occasioni (1)
ci fanno scoprire l'ampiezza del dramma che corrisponde al crollo di un
mondo operaio che aveva propri valori produttivi di identità collettive e
solidali, in un gioco di specchi dove ognuno trovava la propria
collocazione. Valori che fondavano la dignità di ciascuno e che producevano
senso, malgrado un universo devalorizzante e un lavoro poco gratificante.
Improvvisamente, si viene immersi in un mondo di aperta concorrenza, che
comporta strategie e stili di vita irriducibilmente individuali. La
sequenza dei piani di ristrutturazione corrisponde a un vero e proprio
attacco contro il mondo operaio: lo strappo subìto dall'identità si
esplicita in altrettanti drammi personali, dove ognuno si scontra con se
stesso.
Contrariamente a un'idea preconcetta, i lavoratori dipendenti non temono il
cambiamento. Anzi, lo considerano una cosa naturale: hanno conosciuto
importanti evoluzioni tecnologiche e organizzative, e alcuni di loro vivono
tra due culture. Ciò che li spaventa è l'imposizione di un mondo che
rinnega tutto ciò che rinvia alle forme collettive del lavoro, alle culture
di mestiere e alle solidarietà. Un mondo che distrugge tutte quelle forme
di protezione capaci di produrre un senso collettivo, di creare
sedimentazione e spessore sociale; tutto ciò che è nell'ordine
dell'esperienza collettiva e che contribuisce a formare comportamenti da
cittadino. Temono questo mondo della mobilità eretta a sistema e
dell'individualismo spinto, che crea un sentimento insormontabile di
insicurezza...
Ci troviamo in quella che Yves Barel chiama «la società del vuoto» (2), una
società in cui la base non riesce più a capire le decisioni né a sapere
dove queste vengono prese: «il vuoto sociale è prima di tutto questa
distanza quasi insormontabile tra la base e il vertice, la dimensione
locale e quella globale, distanza creata dalla scomparsa e dall'usura di
numerosi canali, mediatori, codici di comunicazione.
La base non sa più dove stia il "potere", come cercarlo e come rivolgersi
ad esso, per farsi ascoltare e influenzarlo». L'esperienza sia di piani di
ristrutturazione che di chiusure di fabbriche non favorisce lo sviluppo di
comportamenti civici. Anzi, lo rende molto più complesso.
Lavorare non avvicina più necessariamente, poiché il management modernista,
che nega la soggettività dei lavoratori definiti «arcaici» quando li
licenzia, persegue una strategia di individualizzazione e quindi fa appello
alla soggettività dei lavoratori ritenuti «capaci di adattamento» nelle
imprese riconvertite.
Il mondo del lavoro sta diventando un luogo di atomizzazione dei
lavoratori, in cui essi sono tenuti a competere. Sono sottoposti a una
pressione crescente, e sempre meno adatti a portare a termine missioni
complesse di cui sono stati definiti responsabili, qualunque sia il loro
livello gerarchico. Siamo ben lontani dai nuovi stereotipi che descrivono
unilateralmente il lavoro moderno come più autonomo, più arricchente,
socialmente più soddisfacente. Vediamo, al contrario, svilupparsi forme
monche di socializzazione, al punto che c'è da chiedersi se il lavoro possa
ancora contribuire alla coesione della nostra società. Se è vero che
l'applicazione della dimensione tecnica del taylorismo (cioè la
predeterminazione delle modalità di esecuzione del lavoro) pone sempre più
problemi, le scelte manageriali sfociano in situazioni paradossali, dove i
lavoratori sono messi di fronte a contraddizioni insostenibili: viene
chiesto loro di essere autonomi e al contempo li si sottopone a imperativi
di produttività difficilmente conciliabili con le esigenze di qualità che
vengono loro imposte.
In effetti, una definizione precisa e minuziosa dei modi operativi e della
durata degli interventi non si adatta più alla struttura di un lavoro che,
nel settore industriale, corrisponde in misura crescente a compiti di
sorveglianza, di guida all'installazione; nel settore terziario, a
un'interazione con il cliente e, in tutti i casi, a una parte importante di
gestione delle informazioni, di dati e di imprevisti. È ora di uscire dalle
logiche tayloriste. Ma, per i manager, il controllo della soggettività dei
lavoratori rappresenta un imperativo che diventa altrettanto importante del
lavoro in sé.
Bisogna anche accertare che il lavoratore compia in ogni occasione la
scelta più conveniente, quella che permette la più grande efficienza, la
performance maggiore. E così si è imposta l'individualizzazione, una vera e
propria rivoluzione silenziosa voluta dai datori di lavoro, che volevano
contrapporsi alla capacità di contestazione massiccia espressa dai
lavoratori nel '68. Con tutte le conseguenze del caso: esplosione e
diversificazione delle forme di impiego, dei tempi di lavoro, degli orari,
individualizzazione delle paghe che va di pari passo con i colloqui
individuali con il cosiddetto «N + 1», il superiore gerarchico immediato,
per «negoziare» gli obiettivi che il dipendente si impegna a raggiungere e
valutare il loro raggiungimento nell'anno successivo. Le formazioni e le
carriere vengono delineate a partire da bilanci sulle competenze
individuali, con valutazione delle potenzialità personali.
Il principale fattore di molestie Sul posto di lavoro, per quanto riguarda
la qualità e i tempi, viene impegnata la responsabilità di ciascuno, anche
ai livelli più subalterni.
La parola chiave è «competenza», una parola che rinvia non soltanto a
conoscenze e a saperi, ma anche a capacità legate alla personalità.
Le direzioni a volte utilizzano sistemi esperti per definire i tratti
salienti della personalità del lavoratore e delinearne così la carriera.
Queste innovazioni nella gestione delle risorse umane vengono consolidate
da trasformazioni tecnologiche, che instaurano un isolamento fisico: i
posti di lavoro diventano sempre più lontani gli uni dagli altri a causa
dei nuovi impianti.
L'individualizzazione, pur rispondendo a determinate aspettative dei
lavoratori, si basa sull'interiorizzazione da parte di tutti dei vincoli,
degli obiettivi e degli interessi dell'impresa, sull'adesione ai suoi
valori e persino alla sua etica. Vi contribuiscono molteplici fattori:
dispositivi di partecipazione, formazioni idonee, comunicazioni mirate.
Insomma, il lavoratore deve mettere se stesso nei panni della propria
gerarchia e dei responsabili dei metodi adottati, come se fosse lui stesso
a gestirsi. Deve inventarsi in permanenza ciò che i sociologi britannici
chiamano «una catena di montaggio nella testa».
Ma a questa camicia di forza mentale, che rischia di cancellare ogni
distacco critico nei confronti dell'ordine stabilito nell'impresa, si
aggiunge paradossalmente quella imposta da alcuni principi tayloristi
ancora operativi, anche se inadeguati: per esempio, nella maggior parte
delle situazioni, le norme di produttività e i vincoli temporali sono molto
precisi.
L'esempio più caricaturale viene dai call-center: si trova qui lo strano
ibrido tra le esigenze molto forti sul fronte della personalità, delle
competenze relazionali da un lato, e l'imposizione di copioni molto
dettagliati e di tempi di chiamata molto ristretti (3). Le assunzioni
d'altronde vengono effettuate con una forte sovraqualificazione dei
lavoratori, che devono cavarsela con comandi difficilmente conciliabili,
senza avere però l'autonomia necessaria per introdurre maggiore coerenza
nelle loro funzioni. I call-center illustrano le contraddizioni del lavoro
moderno, così come le catene di montaggio dell'auto cristallizzavano gli
aspetti più caratteristici del taylorismo classico.
Questa coesistenza tra le cadenze imposte (che servono da riparo) e una
mobilitazione della soggettività rimodellata dei lavoratori viene vissuta
con difficoltà. È facile immaginare la fonte delle tensioni per il
lavoratore. In questo settore, le organizzazioni del lavoro sono carenti e
le direzioni non cercano di rendere conciliabili queste esigenze, ma
subappaltano queste difficoltà agli stessi lavoratori.
Trovare soluzioni non significa altro, per un lavoratore, che provare di
avere le competenze richieste, di avere capacità di adattamento e quindi
infine di dimostrare la propria utilizzabilità.
Si delinea così un nuovo tipo di rapporto di lavoro, più ossessivo, più
doloroso, dove ognuno si trova individualmente, personalmente messo di
fronte a una prova permanente, alla sfida di risolvere dei problemi per i
quali l'organizzazione non fornisce risorse ma piuttosto vincoli che
aumentano gli svantaggi.
La paura di non riuscire, di vedersi squalificati e alla fine di vivere sul
lavoro quello che vivono i lavoratori colpiti da chiusure o
ristrutturazioni, è onnipresente. Lo smarrimento, la paura degli altri, il
sentimento di impotenza mettono sotto tensione in modo ossessivo un mondo
del lavoro atomizzato. Questa evoluzione non è senza conseguenze sul piano
della socializzazione. Il lavoro è capace di requisire, ma non prepara i
cittadini a prendere il proprio posto nella società.
Colpisce l'assenza di discussioni, tanto all'interno che al di fuori
dell'impresa. Il tema delle molestie sul lavoro, presente nel dibattito
pubblico al punto da aver dato luogo a una legge specifica in Francia,
trascura un aspetto predominante: il fattore principale di molestia è
l'organizzazione del lavoro, nel quale tutti scaricano sul più debole i
problemi che non riescono a risolvere. Certo, questa situazione si
inserisce nel quadro di un contratto di lavoro, un contratto giuridico di
subordinazione del dipendente al suo datore di lavoro. Ma il contratto non
resiste all'importanza di una posta in gioco che investe direttamente la
qualità del legame sociale. La modernizzazione sociale implica un vero e
proprio diritto di controllo della società sulle condizioni nelle quali si
svolge l'attività dei lavoratori dipendenti. Ne dipende l'avvenire
democratico del paese.



note:

* Sociologa, ricercatrice al Cnrs, autrice, tra l'altro, di Monde du
travail, con Jacques Kergoat, Josiane Boutet, Henri Jacot (a cura di), La
Découverte, 1998, e di Déchirures du travail, con Barbara Rist e Estelle
Durand, Erès, Parigi, la cui uscita è prevista per l'ottobre 2002.

(1) Si legga Emmanuel Defouloy, «Les ouvrières sacrifiées de Levi Strauss»
e Noëlle Burgi, «Licenciées et engluées», Le Monde diplomatique, ottobre 2001.

(2) La Société du vide, collana «Empreintes», Seuil, Parigi, 1984.

(3) Si legga Gilles Balbastre, «I nuovi schiavi del marketing telefonico»,
Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2000.