esselunga a corto di diritti



     
    
il manifesto - 03 Luglio 2002 
 
Esselunga, a corto di diritti 
LUCA FAZIO
MILANO 
 
 
 
Esselunga, a corto di diritti 
Nei supermercati anche il permesso per fare pipì diventa uno strumento di
potere. I dipendenti della catena più rampante del Nord Italia si
organizzano contro l'autoritarismo dei nuovi «capetti»
LUCA FAZIO
MILANO 
La pipì è un piccolo dramma per le cassiere dell'Esselunga. In quel momento
il dispositivo che risponde alla logica del «qui comando io» si manifesta
in tutta la sua perfidia: perché il «superiore» allora può decidere di
umiliare o graziare la «sua» dipendente. Non va in bagno, aspettando anche
un'ora, chi non rispetta i tempi, chi non fa gruppo, chi sciopera, chi
avvicina il sindacato, chi non teme le punizioni, chi non è disponibile a
lavorare la domenica. E' successo anche a donne incinte di cinque mesi,
ogni lavoratrice ha una storia sulla pipì: quella che ha pianto, quella che
è svenuta, quando è arrivata l'ambulanza... Sarebbe interessante chiedere
ai «capetti» quali sono gli inconfessabili motivi che li spingono a far
eseguire certi ordini, come far pesare le banane faccia al muro, «ma
parlare di quello che succede è vietato, impongono il silenzio a tutti». Se
potessero, forse direbbero che è la paura, perché anche i capi «in
carriera» possono cadere in disgrazia, e magari finire nel turno che
termina alle 23 e riattacca alle 3 e mezzo del mattino. Ma tutti i
dipendenti (o quasi) obbediscono alla consegna del silenzio. Ma è davvero
l'inferno Esselunga? Chi ha voglia di raccontare prima esita perchè non
trova le parole, poi fruga tra i ricordi e si lancia in una narrazione
difficile da interrompere. Massimo Brunetti è stato licenziato (con altri
due colleghi) per aver rilasciato una intervista collettiva al sito
Internet della Casa della Cultura di Milano. Esselunga ha querelato i tre
lavoratori per una frase ritenuta diffamante chiedendo a ognuno 700 mila
euro di risarcimento, altrettanti ne ha chiesti alla Casa della Cultura. Le
interviste sono sparite dal sito e l'istituzione culturale milanese sembra
molto intimorita dagli avvocati della famiglia Caprotti, padrona di un
impero economico a conduzione familiare da 3,5 miliardi di euro l'anno.

La vicenda di Brunetti è esemplare perché mette a nudo alcuni meccanismi
che spiegano «la sofferenza» di chi lavora in Esselunga, azienda leader
della grande distribuzione anche nel perseguire un duplice obiettivo:
rendere impossibile l'attività sindacale e annientare con ogni mezzo la
personalità dei dipendenti. Brunetti ha esordito ai magazzini di Limito di
Pioltello come socio lavoratore della cooperativa Sgi, lavorava 7 giorni su
7 dalle 21 alle 6 del mattino, «l'orario è questo, altrimenti la porta è
quella». Fa causa e riesce a farsi assumere dimostrando che i soci
lavoratori della sua cooperativa in realtà dipendono da Esselunga. Il
clamore di quella vertenza scuote anche una trentina di lavoratori
filippini della Comincoop. Ma per loro finisce male. Esselunga caccia
Comincoop, la quale riapre con altro nome cacciando gli infedeli che hanno
osato alzare la testa contro il colosso. Brunetti paga la sua
insubordinazione e finisce in cassa. «Luogo di tortura», dicono tutti: «ti
sfinisce e ti isola psicologicamente».

Qualche lavoratore ha provato a farsi rispettare. Nel supermercato di
piazza Ovidio hanno fatto causa per «violazione della privacy» perché
l'azienda obbliga a portare il cartellino con il cognome. In realtà, il
problema, confermano diverse cassiere, è il cliente maschio: «Molte volte
sono stata importunata perché attraverso il cartellino i clienti risalivano
al telefono e all'indirizzo». All'Esselunga di viale Piave, zona centro,
dove ogni tanto Caprotti senior scende a fare la spesa, un lavoratore
studente ha fatto lo sciopero della fame: «Quando andava a sostenere
un'esame, l'azienda tratteneva i soldi sulla busta paga per assenza
ingiustificata» (tre assenze, un licenziamento). Un'altra volta, quando
l'orario di chiusura serale è slittato dalle 21 alle 22, un cassiere ha
inventato «l'ultima ora di sciopero del lunedì», raccogliendo l'adesione
delle donne. Casi isolati (e qualcuno l'ha pagata cara) che il sindacato
non è mai riuscito a sfruttare per fare breccia in una delle aziende più
ostili. «Una marea di gente è assunta con contratti precari e l'azienda
organizza il lavoro in modo tale da rendere difficile il contatto stesso
tra lavoratori, in più mette in atto un sistema di sorveglianza che rende
impossibile l'azione sindacale», spiega Giovanni Gazzo, segretario generale
UilTucs di Milano, che sta lavorando - da pochi giorni «unitariamente» -
per affrontare Esselunga.

Rosaria Cirincione, dopo 19 anni di cassa in viale Piave, ci ha provato, ma
è rimasta sola. I colleghi la evitano, alcuni sono stati ripresi per aver
parlato con lei, quella che vuole introdurre il sindacato: uno dei tanti
soldatini filoaziendali, per farle capire che non è cosa gradita, le ha
chiesto se lei sarebbe contenta di avere delle prostitute sotto casa...Da
dove cominciare per descrivere un «incubo»? Da una vicenda personale: «La
capo cassa mi ha negato il permesso per andare a trovare all'ospedale mia
nonna che era stata coinvolta in un serio incidente stradale, dopo qualche
tempo ho anche ricevuto una lettera di richiamo perché quel giorno ho
dimenticato di passare la fìdaty card». Cirincione è un fiume in piena,
blocchiamola alla voce «cassa automatica». La tortura. «C'è gente che
piange quando viene assegnata alla cassa automatica», un marchingegno
inventato perché il cliente non deve sforzarsi (a fine nastro ci sono due
buche con i sacchetti dentro cui le cassiere devono anche riporre la
spesa). «E' un'operazione in più che affatica la schiena e richiede una
concentrazione che non si può sostenere per diverse ore, in più bisogna
stare attente a mettere la spesa come piace al cliente: spesso si lamenta
perché non lo facciamo come lo farebbe lui, senza contare il fatto che con
questo sistema aumentano la code e le lamentele» (una lamentela, una
lettera di richiamo). Inutile dire che rimangono lettera morta gli inviti
dei medici che prescrivono «limitazioni di cassa». La tortura spesso si
risolve con l'autolicenziamento (il turn over è altissimo).

Sandra Azzari se n'è andata, «mi rivolgevo spesso al sindacato, ho ricevuto
diverse lettere disciplinari... a un certo punto ho chiesto la buonauscita
e me l'hanno data volentieri». Lavorava all'Esselunga di Quaregna (Biella).
Era angosciata dal controllo dei tempi: «Erano in grado di rilevare i tempi
di attesa tra un'operazione e l'altra, il fatto è che il cliente a volte
perde tempo e io venivo giudicata anche per il ritardo provocato dal
cliente, piuttosto male, mi davano dell'handicappata». Gianna B. è ancora
in cassa all'Esselunga di Bergamo, dopo due anni di Cgil ha deciso di
lasciar perdere, era il 1991: «Eravamo poco seguite e i colleghi erano
ostili». Adesso sorride ricordando gli scioperi con punizione: «Chi
scioperava per il contratto finiva in cucina a lavare pentole e pulire
prezzemolo». Due settimane fa, hanno proiettato un video per coinvolgere i
dipendenti nell'operazione devi coccolare il cliente. Trùccati poco poi
guardalo negli occhi e sorridi, «lo coccolerei pure se non dovessi lavorare
10 ore al giorno...». Gianna B. non sopporta le nuove leve: «La direzione
vorrebbe trasformare Esselunga in una boutique e sta addestrando molti
giovani capetti esaltati, ti trattano male e non sanno nemmeno da dove
cominciare». Lei invece ha superato anche la prova dell'amore. «La regola è
che tra colleghi non ci si può innamorare. Se si accorgono di una relazione
tra scaffalisti o cassieri, li cambiano di reparto o di negozio. Ma è
peggio se è un capo a innamorarsi di una cassiera, allora spostano solo lui
e cercano di insabbiare la faccenda». Il marito di Gianna? Se n'è andato da
solo...