la new economy era un mito?



da boiler it 1 - 7 - 2002

 



La New Economy era un mito, giusto? No, sbagliato.

di James Surowiecki  


 «LA NEW ECONOMY della fine degli anni Novanta è stata un’invenzione dei
media e di Wall Street»: così scrive Jeff Madrick in un saggio recentemente
pubblicato dalla Harvard’s Kennedy School of Government. Secondo Madrick la
new economy è solo un concetto astratto usato per giustificare gli imbrogli
del mercato azionario. I suoi sostenitori hanno pronosticato rivoluzioni
esagerate nell’economia americana, hanno sopravvalutato i vantaggi
tecnologici e hanno abbandonato l’analisi attenta in favore di un illusorio
utopismo. Nel corso dell’ultimo decennio, secondo lui, la religione della
new economy è degenerata in un «delirio di mezze verità, ricostruzioni
storiche sbagliate, e pensiero positivo».

È stato solo un sogno? Sicuramente Madrick non è l’unico a pensarla così.
Con il crollo del Nasdaq nel 2000 e l’inizio della recessione nel 2001, le
critiche alla new economy hanno raggiunto il loro apice. Non solo era
tornato il male del passato – la disoccupazione crescente, il calo dei
profitti – ma i bei vecchi tempi non erano nemmeno stati poi così positivi.
Non era colpa solo del mercato azionario; l’intera economia di fine anni
Novanta è stata un’enorme frode, in virtù degli investimenti eccessivi nel
business, delle spese incaute dei consumatori, degli scarsi finanziamenti
da parte del governo federale. Sebbene la nostra economia sia riemersa
dalla recessione molto più velocemente di quanto ci si aspettasse, gli
scoperti rimangono gravi. Stephen Roach, uno dei maggiori economisti del
Morgan Stanley, insiste sul fatto che gli Stati Uniti possono aspirare solo
a una “crescita molto controllata” finché non si spegneranno “gli eccessi
dell’imbroglio di fine anni Novanta”.


Un cambiamento considerevole

Ma non c’è da contarci. La sostanziale superficialità della recessione e la
grande crescita produttiva verificatasi durante il ribasso dimostrano che
gli scettici si sbagliano. Chiamiamolo pure il “mito del mito della new
economy”. I bastian contrari ignorano le basi economiche che hanno portato
al boom, mettendo piuttosto l’accento sui vezzi retorici – e sui prezzi
eccessivi – che l’hanno accompagnato. Siccome in passato degli inguaribili
ottimisti hanno sostenuto che la tecnologia avrebbe rivoluzionato tutto,
per forza di cose dev’essere invece il contrario, non dev’essere cambiato
nulla. Ma se nel 2002 si continua a dire che tutto è praticamente uguale a
dieci anni fa, vuol dire che si sta vivendo in un mondo immaginario
altrettanto illusorio di qualsiasi cosa possa inventare un fanatico della
new economy.

In realtà, il 1995 ha segnato l’inizio di una trasformazione a lungo
termine dell’economia americana. La crescita produttiva ha subito
un’accelerazione dovuta a fattori che gli economisti definiscono secolari,
piuttosto che ciclici. In altre parole, il suo ritmo non ha iniziato a
salire nel 1995 perché il giro affaristico era aumentato. Ha cominciato ad
aumentare perché erano cambiati alcuni aspetti fondamentali dell’economia.
Il risultato è che oggi l’economia può espandersi molto più velocemente di
quanto non ci si aspettasse. Tra il 1972 e il 1995, la produttività è
aumentata di un irrisorio 1,4 per cento all’anno. Tra il 1995 e il 2000,
invece, è cresciuta del 2,5 per cento all’anno, con un incremento del 79
per cento. «C’è stato un cambiamento considerevole nella percentuale
secolare di crescita sia della produttività lavorativa che di quella
totale», sostiene l’economista di Harvard Dale Jorgenson. Molti dei
postulati del boom sono risultati veri.


Più qualità, meno spesa

Senza dubbio, alcuni fautori della new economy hanno esagerato nel
pubblicizzarne l’impatto rivoluzionario. Il ciclo affaristico è ancora con
noi. Inoltre, bisogna considerare la credenza che gli anni Novanta fossero
il primo periodo storico in cui a un aumento della qualità dei prodotti
corrispondesse una loro maggiore economicità. In effetti, lo sviluppo di
una maggiore qualità accompagnata da prezzi più bassi è il percorso
abituale della maggior parte delle rivoluzioni tecnologiche. Il prezzo
delle tinture industriali è calato più del 90 per cento in pochi anni alla
fine del secolo scorso, trasformando profondamente l’industria chimica e
dell’abbigliamento. Le automobili erano molto più economiche e sofisticate
nel 1920 rispetto al 1905. La televisione, divenuta un diffuso
elettrodomestico fin dal 1970, era un lusso carissimo alla sua comparsa.

Il clima di esagerazione e sensazionalismo ha aiutato i critici più
moderati a liquidare la new economy. Ma proprio in virtù di tutti questi
eccessi, i profeti del nuovo ordine hanno capito quello che stava accadendo
meglio dei brontoloni che li circondavano. Se, nel 1995, si fosse cercato
di prevedere il futuro, si sarebbe fatto meglio a dare un’occhiata a
BusinessWeek – che già proclamava l’avvento dell’”era della produttività” –
piuttosto che prestare ascolto a chi, come Jeff Madrick, aveva pubblicato
quell’anno un libro intitolato The End of Affluence. Se, come la metterebbe
Virginia Woolf, «intorno all’ottobre del 1995 l’economia statunitense è
cambiata», perché questo è successo? Com’è possibile che un’economia che
sembrava ferma e neutrale abbia improvvisamente subito un tale cambio di
marcia? Una prima risposta, come ha sostenuto Jorgenson di Harvard in una
serie di abbozzi di saggi, è che il 1995 è stato l’anno in cui il ciclo del
prodotto dei semiconduttori si è velocizzato, passando da tre a due anni.
La concorrenza dell’Advanced Micro Devices ha spinto Intel ad aumentare il
ritmo dello sviluppo, determinando un precipitare dei prezzi e un
incremento vertiginoso della potenza degli elaboratori. L’information
technology divenne più economica, producendo profitti più elevati.
Naturalmente, le aziende reagirono riversandovi denaro.


La stagione della semina…

Ma la storia è più complicata e interessante. D’altra parte, l’information
technology da sola non garantiva una produttività più elevata. Se le
aziende americane fossero restate i giganti oligopolistici che erano state
negli anni Settanta, un calo nei prezzi del materiale semiconduttore non
avrebbe avuto un forte impatto. Ma nel 1995, le compagnie americane avevano
appena attraversato vent’anni di forti cambiamenti, emergendone più forti
che in passato. Il mutamento più significativo era stato prodotto
dall’ingresso delle aziende giapponesi nel gruppo dei soggetti più forti
dell’economia mondiale. All’inizio degli anni Settanta le aziende
statunitensi avevano ben poca concorrenza straniera in patria. Ma alla fine
del decennio, la manifattura americana di televisori era sostanzialmente
estinta, la siderurgia era scomparsa e tutti volevano sapere come
funzionasse il sistema produttivo della Toyota. La concorrenza ebbe il
prevedibile effetto di eliminare i più deboli e di rendere i sopravvissuti
più agili ed efficienti.



Gli affari americani subirono una seconda drammatica ristrutturazione
all’epoca di Reagan. Alcune compagnie prestigiose, ma diventate ormai pigre
e ingombranti, furono facili prede di speculatori, che si affrettarono
subito a ristabilire la profittabilità (e spesso a saldare i debiti). Nel
frattempo, le aziende a rischio avevano la sola possibilità di svilupparsi
velocemente. La necessità di elevare al massimo il proprio valore azionario
costrinse queste compagnie a eliminare alcuni gradi burocratici, a
cancellare le aree di business che non fruttavano, a ridurre la forza
lavoro. Dieci anni più tardi, l’intera economia del paese avrebbe raccolto
i frutti di tutto ciò. Queste tendenze ebbero inizio alla fine degli anni
Settanta, ma fino alla fine degli anni Novanta non fecero pienamente
sentire i propri effetti. Esse prepararono l’esplosione delle It, mettendo
il business in grado di cogliere i benefici delle innovazioni tecnologiche.


Due casi esemplari

Prendiamo la storia di due compagnie. La Wal Mart è attualmente una delle
aziende più efficaci al mondo: uno studio del boom effettuato dal McKinsey
Global Institute alla fine del 2001 ha stabilito che «la Wal-Mart ha
causato direttamente e indirettamente il volume dell’accelerazione
produttiva» nel suo settore. Come? Attraverso l’information technology,
soprattutto. La Wal-Mart l’ha utilizzata per rendere più efficiente il
proprio sistema di immagazzinamento e smistamento della merce (non si trova
mai uno scaffale mezzo vuoto alla Wal-Mart). Il sistema sfrutta degli
strumenti di previsione elettronici per fare in modo che non ci siano mai
troppi o troppo pochi dipendenti all’azione. L’azienda sollecita i
fornitori ad approvvigionare essi stessi i punti vendita, attraverso un
elaborato sistema di interscambio di dati che li informa quando le scorte
stanno calando. Inoltre, essa sfrutta l’economia di scala distribuendo i
negozi a raggiera intorno ai grandi centri di distribuzione.



Così facendo, la Wal-Mart è diventata una delle maggiori aziende mondiali,
riscuotendo ritorni di capitale che fanno l’invidia dei suoi pari. Al
contrario, il rivale Kmart continua a tormentarsi con gli esaurimenti delle
scorte ed è vincolato ai saldi e alle svalutazioni. Sia la Wal-Mart che la
Kmart hanno accesso alla stessa tecnologia. Il software non è difficile da
ottenere. Già quasi dieci anni fa la Procter & Gamble aveva lanciato la sua
tecnologia di “risposta efficace al consumatore”, che trasmetteva le
informazioni di vendita direttamente dallo scanner del dettagliante al
produttore, consentendo a quest’ultimo di sapere quando il negozio andava
rifornito. Ma la Kmart non è riuscita a sfruttare la tecnologia in modo
significativo per migliorare i suoi affari.


Determinismo tecnologico

Un dogma fondamentale delle prime riflessioni sulla new economy era il
cosiddetto determinismo tecnologico, l’idea che fosse sufficiente
introdurre una nuova tecnologia perché tutto cambiasse dall’oggi al domani.
L’esempio della Wal-Mart indica invece che il valore di una tecnologia è
inseparabile dalle sue modalità di sviluppo. Il microprocessore è utile a
tutti, ma diventa una forza rivoluzionaria solo quando viene utilizzato nel
modo giusto. Ecco perché l’impatto delle It varia non solo da un’industria
all’altra, ma anche all’interno di ogni azienda. Le compagnie che riescono
a reinventarsi traendo vantaggi dalle nuove tecnologie – per esempio
snellendo la catena di rifornimento – hanno più successo delle altre. Come
affermano l’economista del Mit Erik Brynjolfsson e il suo collega Lorin
Hitt nel loro saggio Beyond Computation, «Le aziende che adottano strutture
organizzative e operative decentralizzate sembrano godere di un maggiore
contributo dell’information technology alla produttività». Un esempio
significativo è quello della Dell, la cui struttura aziendale è organizzata
intorno all’It. In teoria, tutti i rivali della Dell potrebbero fare la
stessa cosa: utilizzare computer per smistare gli ordini, senza bisogno di
scorte, affidandosi ai fornitori per la consegna just-in-time dei prodotti.
Ma nessuno lo fa, anche perché sono tutti inchiodati a strutture
organizzative e modelli di business ormai desueti.


Imparare dalla pratica

I vantaggi dell’information technology crescono nel tempo. Analizzando la
relazione tra investimenti nell’It e produttività nell’arco di un anno, si
rileva che il rapporto costi/benefici relativo all’utilizzo di computer è
paritario. Se si analizza la stessa relazione in un arco di tempo più
lungo, secondo Brynjolfsson e Hitt, «i benefici aumentano dalle due alle
otto volte». Prendiamo il sistema Asap elaborato dalla Baxter, un’azienda
di forniture farmaceutiche, che consente agli ospedali di inoltrare
elettronicamente gli ordini direttamente ai grossisti. All’inizio, l’unico
suo risultato fu quello di risparmiare ai rappresentanti della Baxter la
fatica di trascrivere le ordinazioni. Ma una volta che il sistema fu ben
avviato, la Baxter si rese conto che avrebbe potuto utilizzare quei dati
per svolgere elettronicamente l’intera operazione, dall’immagazzinamento
all’inventario al riapprovvigionamento. L’azienda consentì l’utilizzo
dell’Asap anche ad altri, creando una specie di supermercato elettronico.
Una tale evoluzione non era prevista né necessaria. Le aziende apprendono
dalla pratica. Devono ristrutturare le proprie attività, reindirizzare le
proprie risorse, stracciare grafici, riallocare il personale.
«L’information technology è sicuramente un elemento fondamentale del
processo produttivo», sostiene Kevin Stiroh, economista della Federal
Reserve Bank di New York. «Ma è una questione molto complessa. Senza
parallele innovazioni organizzative, senza una trasformazione dell’utilizzo
del capitale umano, senza dei rivoluzionamenti nella forza lavoro, tutto
sarebbe molto diverso».


Controllo o flessibilità?

Uno dei punti chiave della new economy è stata l’enorme flessibilità del
mercato del lavoro americano. La diminuzione di potere dei sindacati, la
maggiore rigidità dei regolamenti (anche in presenza dei sindacati) e la
diffusione crescente del lavoro temporaneo non sono stati vantaggi
assoluti, e le virtù della libera economia sono state senz’altro esagerate.
Ma se esiste una ragione per cui l’America ha tratto dalle innovazioni
tecnologiche e manageriali dei benefici maggiori rispetto all’Europa, è che
la maggior parte dei paesi europei hanno rigidamente controllato il mercato
del lavoro e i regolamenti interni delle aziende (come esempio di quanta
strada debba ancora fare l’Europa, a marzo in Italia un consulente del
governo è stato assassinato perché aveva proposto di facilitare i
meccanismi di assunzione e licenziamento). «L’information technology non
porta a un reale aumento della produttività in paesi con un mercato del
lavoro troppo rigido», sostiene Jorgenson. «Se si ha un lavoro a tempo
indeterminato, si è ormai condannati. E le cose nel tempo potranno solo
peggiorare. o ci si adatta alla nuova situazione, o si cadrà sempre più in
basso».



La ristrutturazione aziendale, gli investimenti nell’It, la crescita della
concorrenza e la flessibilità del mercato del lavoro sono stati gli
elementi guida della rivoluzione economica alla fine degli anni Novanta. Ma
alla fine di quel decennio, la sfera economica, nell’opinione pubblica era
ormai associata al mercato azionario, e in particolare al Nasdaq. Non c’è
da stupirsi, dunque, se il successivo crollo del Nasdaq ha dato il via alle
critiche. Inoltre, la scoperta che l’Elron, quintessenza del soggetto
privilegiato della new economy, era solo un “castello di carte” ha indotto
alcuni analisti a concludere che l’intera economia statunitense fosse una
gigantesca farsa.


Azionisti e consumatori: chi vince?

Il mercato azionario alla fine degli anni Novanta, fondato su aspettative
illusorie e regolato dalla logica del più furbo, era sicuramente una bolla
di sapone. Anche se gli investitori si rendevano conto che l’economia
americana era in condizioni molto migliori rispetto al passato, non
riuscivano a capire che ciò che vale per l’economia in generale spesso non
vale per i profitti aziendali. Anche se il prestigio complessivo è più
alto, i miglioramenti della produttività possono non raggiungere la soglia
minima. Allo stesso modo, la crescita rapida e l’innovazione ininterrotta
sono una cosa meravigliosa per i consumatori, ma i più alti livelli di
concorrenza impediscono alle aziende di prevalere l’una sulle altre a lunga
scadenza. I vantaggi a breve scadenza del controllo del mercato sono
maggiori che in passato, ma altrettanto maggiore è la possibilità di
vedersi messi in disparte in seguito a un qualsiasi cambiamento tecnologico
od organizzativo. Nel mercato di rialzo, gli investitori guardavano solo al
top. Tutti volevano vincere.

Ma i veri vincitori non erano gli speculatori o gli agenti di Wall Street,
bensì i consumatori e i lavoratori, che godevano i benefici dei prezzi
esenti da inflazione, del calo della disoccupazione, dell’aumento degli
stipendi, del boom del prodotto interno lordo. Lo stipendio di un comune
dipendente del settore privato aumentò di dieci volte tra il 1991 e il 2001
rispetto agli anni Ottanta. E non bisogna dimenticare che questi dati
comprendono il periodo di crescita lenta all’inizio degli anni Novanta. Tra
il 1997 e il 2001, gli stipendi aumentarono più velocemente di quanto non
avessero fatto sin dagli anni Cinquanta.


Quanto durerà?

Ma, anche ammettendo che l’economia statunitense stata a partire dal 1995
sia più sana di quanto non sia mai stata per decenni, non c’è garanzia che
questa contingenza positiva persista. I problemi più urgenti sono: la
produttività continuerà a crescere rapidamente, e se sì, per quanto tempo?
Una prima risposta, almeno per il prossimo futuro, può essere positiva. Il
ritmo della crescita produttiva continua a salire, ed è improbabile che si
ritorni al ristagno precedente al 1995. La prova più evidente della
sostenibilità dei traguardi raggiunti negli anni Novanta è stato il recente
periodo di recessione. Il ritmo della crescita produttiva è diminuito, come
succede sempre quando c’è un rallentamento nell’economia, ma è diminuito
molto meno rispetto alle recessioni precedenti, e questo suggerisce
un’inversione di tendenza. Inoltre, con la ripresa dell’economia, la
produttività sta di nuovo aumentando rapidamente: nel 2001 addirittura
dell’8,6 per cento.

Un recente saggio di Jorgenson, Stiroh e Mun Ho, economista del think tank
Resources for the Future di Washington DC, affronta proprio il problema
della crescita produttiva. Gli autori arrivano alla conclusione che
l’aumento prevedibile nei prossimi cinque o dieci anni sia del 2,2 per
cento annuale. Altri sono ancora più ottimisti. Nel corso di una conferenza
a Jackson Hole in Wyoming, la scorsa estate, gli economisti Brad DeLong e
Lawrence Summers hanno previsto invece un aumento del 3 per cento. Questo
non implica che il progresso economico raggiunga i livelli spettacolari di
fine anni Novanta, ma di certo il periodo di ristagno è alle nostre spalle,
a meno che non si ritenga che la concorrenza, la flessibilità del lavoro e
il potenziamento tecnologico possano rendere le aziende più vulnerabili.
Jorgenson crede che il ridotto ciclo di vita dei materiali semiconduttori
continuerà a rafforzare l’economia almeno fino al 2006.


Con Internet, cresce l’ottimismo

La ricerca del McKinsey Global Institute, che contiene l’analisi forse più
approfondita del boom, fornisce ulteriori ragioni di ottimismo. Sei settori
– vendita al dettaglio, grossisti, servizi di sicurezza, macchinari ed
equipaggiamenti industriali, elettronica e telecomunicazioni – sono
ritenuti responsabili della maggior parte dell’incremento produttivo. Altri
settori – soprattutto quello bancario – sembrano inoltre sempre più maturi
per sfruttare i vantaggi delle innovazioni tecnologiche e organizzative.
L’information technology spesso dimostra il proprio valore in maniera
inaspettata. Prendiamo il sistema dei trasporti. L’opinione comune è che,
per quanti computer possa possedere un trasportatore, non potrà mai usarne
più di uno alla volta. Ma come ha dimostrato l’economista Tom Hubbard in
una ricerca del 2002 per il National Research Of Economic Bureau –
un’interessante analisi di come le compagnie di trasporto utilizzino i
computer di bordo e la comunicazione senza fili – la tecnologia ha
radicalmente incrementato la produttività, diminuendo il tempo impiegato
dai trasportatori a consegnare la merce. Non si tratta di lavorare più ore.
Il fatto è che essi riescono a fare più cose nel lasso di tempo in cui
lavorano, e questa è la vera definizione di produttività. Con l’aumento del
potere di elaborazione e della larghezza di banda, comparirà un modello di
efficienza che oggi neanche immaginiamo.



Poi bisogna considerare Internet. Forse l’aspetto più sorprendente della
new economy, retrospettivamente, è quanto abbia avuto poco a che fare con
la Rete in sé. Le aziende sono riuscite a ricavare enormi benefici dall’It
prima ancora che la Rete venisse largamente usata: quando Internet cominciò
a offrire determinate possibilità, le stesse opportunità erano già state
realizzate attraverso le reti elettroniche dedicate. La Rete è
relativamente giovane; secondo la logica di Brynjolfsson e Hitt, è
probabile che le compagnie comincino solo adesso a chiedersi realmente come
utilizzarla. Ovviamente alcune aziende – Amazon, Dell, Cisco – hanno già
pienamente adottato Internet per le proprie attività. Ma sono eccezioni.
resta da scoprire se la Rete saprà mantenere le sue promesse. Se così è,
essa darà un importante contributo all’ulteriore aumento della
produttività, e il suo impatto sarà dirompente: forse nascerà addirittura
una new new economy. Ecco come finirà.