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la new economy era un mito?
- Subject: la new economy era un mito?
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 07 Jul 2002 18:09:13 +0200
da boiler it 1 - 7 - 2002 La New Economy era un mito, giusto? No, sbagliato. di James Surowiecki «LA NEW ECONOMY della fine degli anni Novanta è stata un’invenzione dei media e di Wall Street»: così scrive Jeff Madrick in un saggio recentemente pubblicato dalla Harvard’s Kennedy School of Government. Secondo Madrick la new economy è solo un concetto astratto usato per giustificare gli imbrogli del mercato azionario. I suoi sostenitori hanno pronosticato rivoluzioni esagerate nell’economia americana, hanno sopravvalutato i vantaggi tecnologici e hanno abbandonato l’analisi attenta in favore di un illusorio utopismo. Nel corso dell’ultimo decennio, secondo lui, la religione della new economy è degenerata in un «delirio di mezze verità, ricostruzioni storiche sbagliate, e pensiero positivo». È stato solo un sogno? Sicuramente Madrick non è l’unico a pensarla così. Con il crollo del Nasdaq nel 2000 e l’inizio della recessione nel 2001, le critiche alla new economy hanno raggiunto il loro apice. Non solo era tornato il male del passato – la disoccupazione crescente, il calo dei profitti – ma i bei vecchi tempi non erano nemmeno stati poi così positivi. Non era colpa solo del mercato azionario; l’intera economia di fine anni Novanta è stata un’enorme frode, in virtù degli investimenti eccessivi nel business, delle spese incaute dei consumatori, degli scarsi finanziamenti da parte del governo federale. Sebbene la nostra economia sia riemersa dalla recessione molto più velocemente di quanto ci si aspettasse, gli scoperti rimangono gravi. Stephen Roach, uno dei maggiori economisti del Morgan Stanley, insiste sul fatto che gli Stati Uniti possono aspirare solo a una “crescita molto controllata” finché non si spegneranno “gli eccessi dell’imbroglio di fine anni Novanta”. Un cambiamento considerevole Ma non c’è da contarci. La sostanziale superficialità della recessione e la grande crescita produttiva verificatasi durante il ribasso dimostrano che gli scettici si sbagliano. Chiamiamolo pure il “mito del mito della new economy”. I bastian contrari ignorano le basi economiche che hanno portato al boom, mettendo piuttosto l’accento sui vezzi retorici – e sui prezzi eccessivi – che l’hanno accompagnato. Siccome in passato degli inguaribili ottimisti hanno sostenuto che la tecnologia avrebbe rivoluzionato tutto, per forza di cose dev’essere invece il contrario, non dev’essere cambiato nulla. Ma se nel 2002 si continua a dire che tutto è praticamente uguale a dieci anni fa, vuol dire che si sta vivendo in un mondo immaginario altrettanto illusorio di qualsiasi cosa possa inventare un fanatico della new economy. In realtà, il 1995 ha segnato l’inizio di una trasformazione a lungo termine dell’economia americana. La crescita produttiva ha subito un’accelerazione dovuta a fattori che gli economisti definiscono secolari, piuttosto che ciclici. In altre parole, il suo ritmo non ha iniziato a salire nel 1995 perché il giro affaristico era aumentato. Ha cominciato ad aumentare perché erano cambiati alcuni aspetti fondamentali dell’economia. Il risultato è che oggi l’economia può espandersi molto più velocemente di quanto non ci si aspettasse. Tra il 1972 e il 1995, la produttività è aumentata di un irrisorio 1,4 per cento all’anno. Tra il 1995 e il 2000, invece, è cresciuta del 2,5 per cento all’anno, con un incremento del 79 per cento. «C’è stato un cambiamento considerevole nella percentuale secolare di crescita sia della produttività lavorativa che di quella totale», sostiene l’economista di Harvard Dale Jorgenson. Molti dei postulati del boom sono risultati veri. Più qualità, meno spesa Senza dubbio, alcuni fautori della new economy hanno esagerato nel pubblicizzarne l’impatto rivoluzionario. Il ciclo affaristico è ancora con noi. Inoltre, bisogna considerare la credenza che gli anni Novanta fossero il primo periodo storico in cui a un aumento della qualità dei prodotti corrispondesse una loro maggiore economicità. In effetti, lo sviluppo di una maggiore qualità accompagnata da prezzi più bassi è il percorso abituale della maggior parte delle rivoluzioni tecnologiche. Il prezzo delle tinture industriali è calato più del 90 per cento in pochi anni alla fine del secolo scorso, trasformando profondamente l’industria chimica e dell’abbigliamento. Le automobili erano molto più economiche e sofisticate nel 1920 rispetto al 1905. La televisione, divenuta un diffuso elettrodomestico fin dal 1970, era un lusso carissimo alla sua comparsa. Il clima di esagerazione e sensazionalismo ha aiutato i critici più moderati a liquidare la new economy. Ma proprio in virtù di tutti questi eccessi, i profeti del nuovo ordine hanno capito quello che stava accadendo meglio dei brontoloni che li circondavano. Se, nel 1995, si fosse cercato di prevedere il futuro, si sarebbe fatto meglio a dare un’occhiata a BusinessWeek – che già proclamava l’avvento dell’”era della produttività” – piuttosto che prestare ascolto a chi, come Jeff Madrick, aveva pubblicato quell’anno un libro intitolato The End of Affluence. Se, come la metterebbe Virginia Woolf, «intorno all’ottobre del 1995 l’economia statunitense è cambiata», perché questo è successo? Com’è possibile che un’economia che sembrava ferma e neutrale abbia improvvisamente subito un tale cambio di marcia? Una prima risposta, come ha sostenuto Jorgenson di Harvard in una serie di abbozzi di saggi, è che il 1995 è stato l’anno in cui il ciclo del prodotto dei semiconduttori si è velocizzato, passando da tre a due anni. La concorrenza dell’Advanced Micro Devices ha spinto Intel ad aumentare il ritmo dello sviluppo, determinando un precipitare dei prezzi e un incremento vertiginoso della potenza degli elaboratori. L’information technology divenne più economica, producendo profitti più elevati. Naturalmente, le aziende reagirono riversandovi denaro. La stagione della semina… Ma la storia è più complicata e interessante. D’altra parte, l’information technology da sola non garantiva una produttività più elevata. Se le aziende americane fossero restate i giganti oligopolistici che erano state negli anni Settanta, un calo nei prezzi del materiale semiconduttore non avrebbe avuto un forte impatto. Ma nel 1995, le compagnie americane avevano appena attraversato vent’anni di forti cambiamenti, emergendone più forti che in passato. Il mutamento più significativo era stato prodotto dall’ingresso delle aziende giapponesi nel gruppo dei soggetti più forti dell’economia mondiale. All’inizio degli anni Settanta le aziende statunitensi avevano ben poca concorrenza straniera in patria. Ma alla fine del decennio, la manifattura americana di televisori era sostanzialmente estinta, la siderurgia era scomparsa e tutti volevano sapere come funzionasse il sistema produttivo della Toyota. La concorrenza ebbe il prevedibile effetto di eliminare i più deboli e di rendere i sopravvissuti più agili ed efficienti. Gli affari americani subirono una seconda drammatica ristrutturazione all’epoca di Reagan. Alcune compagnie prestigiose, ma diventate ormai pigre e ingombranti, furono facili prede di speculatori, che si affrettarono subito a ristabilire la profittabilità (e spesso a saldare i debiti). Nel frattempo, le aziende a rischio avevano la sola possibilità di svilupparsi velocemente. La necessità di elevare al massimo il proprio valore azionario costrinse queste compagnie a eliminare alcuni gradi burocratici, a cancellare le aree di business che non fruttavano, a ridurre la forza lavoro. Dieci anni più tardi, l’intera economia del paese avrebbe raccolto i frutti di tutto ciò. Queste tendenze ebbero inizio alla fine degli anni Settanta, ma fino alla fine degli anni Novanta non fecero pienamente sentire i propri effetti. Esse prepararono l’esplosione delle It, mettendo il business in grado di cogliere i benefici delle innovazioni tecnologiche. Due casi esemplari Prendiamo la storia di due compagnie. La Wal Mart è attualmente una delle aziende più efficaci al mondo: uno studio del boom effettuato dal McKinsey Global Institute alla fine del 2001 ha stabilito che «la Wal-Mart ha causato direttamente e indirettamente il volume dell’accelerazione produttiva» nel suo settore. Come? Attraverso l’information technology, soprattutto. La Wal-Mart l’ha utilizzata per rendere più efficiente il proprio sistema di immagazzinamento e smistamento della merce (non si trova mai uno scaffale mezzo vuoto alla Wal-Mart). Il sistema sfrutta degli strumenti di previsione elettronici per fare in modo che non ci siano mai troppi o troppo pochi dipendenti all’azione. L’azienda sollecita i fornitori ad approvvigionare essi stessi i punti vendita, attraverso un elaborato sistema di interscambio di dati che li informa quando le scorte stanno calando. Inoltre, essa sfrutta l’economia di scala distribuendo i negozi a raggiera intorno ai grandi centri di distribuzione. Così facendo, la Wal-Mart è diventata una delle maggiori aziende mondiali, riscuotendo ritorni di capitale che fanno l’invidia dei suoi pari. Al contrario, il rivale Kmart continua a tormentarsi con gli esaurimenti delle scorte ed è vincolato ai saldi e alle svalutazioni. Sia la Wal-Mart che la Kmart hanno accesso alla stessa tecnologia. Il software non è difficile da ottenere. Già quasi dieci anni fa la Procter & Gamble aveva lanciato la sua tecnologia di “risposta efficace al consumatore”, che trasmetteva le informazioni di vendita direttamente dallo scanner del dettagliante al produttore, consentendo a quest’ultimo di sapere quando il negozio andava rifornito. Ma la Kmart non è riuscita a sfruttare la tecnologia in modo significativo per migliorare i suoi affari. Determinismo tecnologico Un dogma fondamentale delle prime riflessioni sulla new economy era il cosiddetto determinismo tecnologico, l’idea che fosse sufficiente introdurre una nuova tecnologia perché tutto cambiasse dall’oggi al domani. L’esempio della Wal-Mart indica invece che il valore di una tecnologia è inseparabile dalle sue modalità di sviluppo. Il microprocessore è utile a tutti, ma diventa una forza rivoluzionaria solo quando viene utilizzato nel modo giusto. Ecco perché l’impatto delle It varia non solo da un’industria all’altra, ma anche all’interno di ogni azienda. Le compagnie che riescono a reinventarsi traendo vantaggi dalle nuove tecnologie – per esempio snellendo la catena di rifornimento – hanno più successo delle altre. Come affermano l’economista del Mit Erik Brynjolfsson e il suo collega Lorin Hitt nel loro saggio Beyond Computation, «Le aziende che adottano strutture organizzative e operative decentralizzate sembrano godere di un maggiore contributo dell’information technology alla produttività». Un esempio significativo è quello della Dell, la cui struttura aziendale è organizzata intorno all’It. In teoria, tutti i rivali della Dell potrebbero fare la stessa cosa: utilizzare computer per smistare gli ordini, senza bisogno di scorte, affidandosi ai fornitori per la consegna just-in-time dei prodotti. Ma nessuno lo fa, anche perché sono tutti inchiodati a strutture organizzative e modelli di business ormai desueti. Imparare dalla pratica I vantaggi dell’information technology crescono nel tempo. Analizzando la relazione tra investimenti nell’It e produttività nell’arco di un anno, si rileva che il rapporto costi/benefici relativo all’utilizzo di computer è paritario. Se si analizza la stessa relazione in un arco di tempo più lungo, secondo Brynjolfsson e Hitt, «i benefici aumentano dalle due alle otto volte». Prendiamo il sistema Asap elaborato dalla Baxter, un’azienda di forniture farmaceutiche, che consente agli ospedali di inoltrare elettronicamente gli ordini direttamente ai grossisti. All’inizio, l’unico suo risultato fu quello di risparmiare ai rappresentanti della Baxter la fatica di trascrivere le ordinazioni. Ma una volta che il sistema fu ben avviato, la Baxter si rese conto che avrebbe potuto utilizzare quei dati per svolgere elettronicamente l’intera operazione, dall’immagazzinamento all’inventario al riapprovvigionamento. L’azienda consentì l’utilizzo dell’Asap anche ad altri, creando una specie di supermercato elettronico. Una tale evoluzione non era prevista né necessaria. Le aziende apprendono dalla pratica. Devono ristrutturare le proprie attività, reindirizzare le proprie risorse, stracciare grafici, riallocare il personale. «L’information technology è sicuramente un elemento fondamentale del processo produttivo», sostiene Kevin Stiroh, economista della Federal Reserve Bank di New York. «Ma è una questione molto complessa. Senza parallele innovazioni organizzative, senza una trasformazione dell’utilizzo del capitale umano, senza dei rivoluzionamenti nella forza lavoro, tutto sarebbe molto diverso». Controllo o flessibilità? Uno dei punti chiave della new economy è stata l’enorme flessibilità del mercato del lavoro americano. La diminuzione di potere dei sindacati, la maggiore rigidità dei regolamenti (anche in presenza dei sindacati) e la diffusione crescente del lavoro temporaneo non sono stati vantaggi assoluti, e le virtù della libera economia sono state senz’altro esagerate. Ma se esiste una ragione per cui l’America ha tratto dalle innovazioni tecnologiche e manageriali dei benefici maggiori rispetto all’Europa, è che la maggior parte dei paesi europei hanno rigidamente controllato il mercato del lavoro e i regolamenti interni delle aziende (come esempio di quanta strada debba ancora fare l’Europa, a marzo in Italia un consulente del governo è stato assassinato perché aveva proposto di facilitare i meccanismi di assunzione e licenziamento). «L’information technology non porta a un reale aumento della produttività in paesi con un mercato del lavoro troppo rigido», sostiene Jorgenson. «Se si ha un lavoro a tempo indeterminato, si è ormai condannati. E le cose nel tempo potranno solo peggiorare. o ci si adatta alla nuova situazione, o si cadrà sempre più in basso». La ristrutturazione aziendale, gli investimenti nell’It, la crescita della concorrenza e la flessibilità del mercato del lavoro sono stati gli elementi guida della rivoluzione economica alla fine degli anni Novanta. Ma alla fine di quel decennio, la sfera economica, nell’opinione pubblica era ormai associata al mercato azionario, e in particolare al Nasdaq. Non c’è da stupirsi, dunque, se il successivo crollo del Nasdaq ha dato il via alle critiche. Inoltre, la scoperta che l’Elron, quintessenza del soggetto privilegiato della new economy, era solo un “castello di carte” ha indotto alcuni analisti a concludere che l’intera economia statunitense fosse una gigantesca farsa. Azionisti e consumatori: chi vince? Il mercato azionario alla fine degli anni Novanta, fondato su aspettative illusorie e regolato dalla logica del più furbo, era sicuramente una bolla di sapone. Anche se gli investitori si rendevano conto che l’economia americana era in condizioni molto migliori rispetto al passato, non riuscivano a capire che ciò che vale per l’economia in generale spesso non vale per i profitti aziendali. Anche se il prestigio complessivo è più alto, i miglioramenti della produttività possono non raggiungere la soglia minima. Allo stesso modo, la crescita rapida e l’innovazione ininterrotta sono una cosa meravigliosa per i consumatori, ma i più alti livelli di concorrenza impediscono alle aziende di prevalere l’una sulle altre a lunga scadenza. I vantaggi a breve scadenza del controllo del mercato sono maggiori che in passato, ma altrettanto maggiore è la possibilità di vedersi messi in disparte in seguito a un qualsiasi cambiamento tecnologico od organizzativo. Nel mercato di rialzo, gli investitori guardavano solo al top. Tutti volevano vincere. Ma i veri vincitori non erano gli speculatori o gli agenti di Wall Street, bensì i consumatori e i lavoratori, che godevano i benefici dei prezzi esenti da inflazione, del calo della disoccupazione, dell’aumento degli stipendi, del boom del prodotto interno lordo. Lo stipendio di un comune dipendente del settore privato aumentò di dieci volte tra il 1991 e il 2001 rispetto agli anni Ottanta. E non bisogna dimenticare che questi dati comprendono il periodo di crescita lenta all’inizio degli anni Novanta. Tra il 1997 e il 2001, gli stipendi aumentarono più velocemente di quanto non avessero fatto sin dagli anni Cinquanta. Quanto durerà? Ma, anche ammettendo che l’economia statunitense stata a partire dal 1995 sia più sana di quanto non sia mai stata per decenni, non c’è garanzia che questa contingenza positiva persista. I problemi più urgenti sono: la produttività continuerà a crescere rapidamente, e se sì, per quanto tempo? Una prima risposta, almeno per il prossimo futuro, può essere positiva. Il ritmo della crescita produttiva continua a salire, ed è improbabile che si ritorni al ristagno precedente al 1995. La prova più evidente della sostenibilità dei traguardi raggiunti negli anni Novanta è stato il recente periodo di recessione. Il ritmo della crescita produttiva è diminuito, come succede sempre quando c’è un rallentamento nell’economia, ma è diminuito molto meno rispetto alle recessioni precedenti, e questo suggerisce un’inversione di tendenza. Inoltre, con la ripresa dell’economia, la produttività sta di nuovo aumentando rapidamente: nel 2001 addirittura dell’8,6 per cento. Un recente saggio di Jorgenson, Stiroh e Mun Ho, economista del think tank Resources for the Future di Washington DC, affronta proprio il problema della crescita produttiva. Gli autori arrivano alla conclusione che l’aumento prevedibile nei prossimi cinque o dieci anni sia del 2,2 per cento annuale. Altri sono ancora più ottimisti. Nel corso di una conferenza a Jackson Hole in Wyoming, la scorsa estate, gli economisti Brad DeLong e Lawrence Summers hanno previsto invece un aumento del 3 per cento. Questo non implica che il progresso economico raggiunga i livelli spettacolari di fine anni Novanta, ma di certo il periodo di ristagno è alle nostre spalle, a meno che non si ritenga che la concorrenza, la flessibilità del lavoro e il potenziamento tecnologico possano rendere le aziende più vulnerabili. Jorgenson crede che il ridotto ciclo di vita dei materiali semiconduttori continuerà a rafforzare l’economia almeno fino al 2006. Con Internet, cresce l’ottimismo La ricerca del McKinsey Global Institute, che contiene l’analisi forse più approfondita del boom, fornisce ulteriori ragioni di ottimismo. Sei settori – vendita al dettaglio, grossisti, servizi di sicurezza, macchinari ed equipaggiamenti industriali, elettronica e telecomunicazioni – sono ritenuti responsabili della maggior parte dell’incremento produttivo. Altri settori – soprattutto quello bancario – sembrano inoltre sempre più maturi per sfruttare i vantaggi delle innovazioni tecnologiche e organizzative. L’information technology spesso dimostra il proprio valore in maniera inaspettata. Prendiamo il sistema dei trasporti. L’opinione comune è che, per quanti computer possa possedere un trasportatore, non potrà mai usarne più di uno alla volta. Ma come ha dimostrato l’economista Tom Hubbard in una ricerca del 2002 per il National Research Of Economic Bureau – un’interessante analisi di come le compagnie di trasporto utilizzino i computer di bordo e la comunicazione senza fili – la tecnologia ha radicalmente incrementato la produttività, diminuendo il tempo impiegato dai trasportatori a consegnare la merce. Non si tratta di lavorare più ore. Il fatto è che essi riescono a fare più cose nel lasso di tempo in cui lavorano, e questa è la vera definizione di produttività. Con l’aumento del potere di elaborazione e della larghezza di banda, comparirà un modello di efficienza che oggi neanche immaginiamo. Poi bisogna considerare Internet. Forse l’aspetto più sorprendente della new economy, retrospettivamente, è quanto abbia avuto poco a che fare con la Rete in sé. Le aziende sono riuscite a ricavare enormi benefici dall’It prima ancora che la Rete venisse largamente usata: quando Internet cominciò a offrire determinate possibilità, le stesse opportunità erano già state realizzate attraverso le reti elettroniche dedicate. La Rete è relativamente giovane; secondo la logica di Brynjolfsson e Hitt, è probabile che le compagnie comincino solo adesso a chiedersi realmente come utilizzarla. Ovviamente alcune aziende – Amazon, Dell, Cisco – hanno già pienamente adottato Internet per le proprie attività. Ma sono eccezioni. resta da scoprire se la Rete saprà mantenere le sue promesse. Se così è, essa darà un importante contributo all’ulteriore aumento della produttività, e il suo impatto sarà dirompente: forse nascerà addirittura una new new economy. Ecco come finirà.
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