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una societa' da paura globale
- Subject: una societa' da paura globale
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 14 Jun 2002 06:44:04 +0200
il manifesto - 11 Giugno 2002 CULTURA pagina 13 Una società da paura globale BENEDETTO VECCHI Una società da paura globale La mobilità dell'élite globale contrapposta alla sedentarietà della forza-lavoro. Una contraddizione sistemica nell'era della «modernità liquida» in cui uomini e donne non possono pianificare la propria vita e la precarietà è elevata a sistema. Il nuovo libro di Zygmunt Bauman «La società indivualizzata» BENEDETTO VECCHI «Si parla di me, dunque sono». E' questa la frase usata da Zygmunt Bauman per indicare il ruolo persaviso dei mass-media nella società della «modernità liquida». Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da chiosare. Ma sarebbe un errore, perché il sociologo d'origine polacca scrive della «mediocrazia» per analizzare la crisi dell'università nella formazione dell'opinione pubblica e per evidenziare la perdita di legittimazione che la caratterizza in quanto istituzione predisposta, storicamente, nella elaborazione della coscienza critica della società. Per Bauman, infatti, l'accresciuto peso dei mass-media non va visto solo come lo svuotamento dell'agorà, ma come un processo sociale che, in nome del pluralismo, punta a rompere il monopolio dell'università nell'accesso al sapere e alla conoscenza. Un processo sociale tuttavia niente affatto democratico, perché mina alle fondamenta l'autonomia dell'università e a cui i deposti custodi del sapere - i docenti - reagiscono diventando i paladini del libero mercato, in base alla quale è la legge della domanda e dell'offerta a dover indirizzare le politiche dell'educazione. Niente di più errato e suicida, aggiunge Bauman, che subito dopo provocatoriamente si domanda non tanto «che cosa fare», ma «chi potrebbe agire» in questo triste panorama. Una domanda che trova una risposta proprio nei docenti in quanto, si potrebbe dedurre, intermediari tra il sapere accumulato e chi vuole accedervi. Inoltre, è proprio l'autonomia dell'università a garantire quell'«apprendimento di terzo grado», studiato a suo tempo da Gregory Bateson per designare una patologia della personalità derivante dalla dissoluzione dei legami sociali «primari» (il sesso e la classe) e ora indispensabile attitudine a reagire prontamente all'imprevisto e alla mutevolezza della «modernità liquida». Questo sull'«Istruzione nell'era postmoderna» è solo uno dei saggi che compongono l'ultimo libro di Zygmunt Bauman La società individualizzata, pubblicato dalla casa editrice bolognese il Mulino (pp. 318, 16 euro), e che al pari degli altri riprende, riarticolandoli, i temi che hanno caratterizzato la sua riflessione negli ultimi trent'anni. C'è ovviamente il declino degli intellettuali, spodestati dal ruolo di «sacerdoti» della modernità e ridotti a salariati dell'industria culturale; c'è la crisi della democrazia, esplosa in tutta la sua virulenza con la la formazione di un'élite globale che si «disimpegna» dagli affari pubblici dello stato-nazione, ridotti sempre più a merce di scambio dalle rabbiose e rancorose declamazioni di chi sostiene le ragioni di una improbabile comunità. Anche il filo rosso della sua riflessione sullo stato sociale è ripreso in questo libro (il saggio «Sono forse il custode di mio fratello?»), questa volta però l'accento è posto sulla dimensione etica che è alla base del welfare state, arrrivando alle conclusione che lo stato sociale è l'esperienza più alta e nobile che il capitalismo è riuscito a produrre nella sua storia secolare. Inoltre, come ogni sociologo di razza, Bauman è attento anche a quelle manifestazioni dell'agire sociale che trovano poco spazio nelle agende delle «politiche della vita», come l'amore e la sessualità. E così i due saggi «L'amore ha bisogno della ragione?» e «Sugli usi postmoderni del sesso» mettono sotto il microscopio della critica la colonizzazione dello «spazio pubblico da parte del privato» che rappresenta la postmoderna propensione «totalitaria» del capitalismo flessibile. Ma il vero rovello di Bauman in questo, come nel precedente volume Modernità liquida (Laterza), è la globalizzazione economica in quanto rottura irreversibile di assetti sociali, istituzionali, financo culturali che hanno caratterizzato la modernità. Definizioni univoche sulla globalizzazione, come è noto, non ne esistono, ma quella di Bauman si caratterizza per la sinteticità: «la globalizzazione è la svalutazione dell'ordine in quanto tale». Una definizione decisamente ambivalente, cioè un processo sociale, economico e culturale che si apre a differenti sviluppi. E come in ogni processo sociale, verrebbe questa volta da sottolineare, quel che conta sono i rapporti di forza presenti all'interno della società. In ogni caso, la critica permanente all'ordine costituito prefigura sempre una maggiore libertà di uomini e donne, perché l'ordine costituito è sinonimo della subordinanzione di uomini e donne a istituzioni che pongono limiti alla loro autodeterminazione e ai loro progetti di vita. Ma nella realtà attuale la «svalutazione dell'ordine» ha l'effetto di una vera e propria apocalisse culturale, determinando una situazione in cui l'allentamento o la dissoluzione dei legami sociali non favoriscono la crescita della libertà, quanto la diffusione di un sentimento di panico, il quale a sua volta alimenta una «economia politica dell'insicurezza» in cui la mobilità o, all'opposto, la sedentarietà determinano la posizione occupata nella stratificazione sociale. Questa presenza o assenza della libertà di movimento che spiega i diffusi comportamenti opportunistici della moltitudine in una realtà dove il futuro è percepito come una minaccia. In altri termini, l'opportunismo è per Bauman la scelta razionale di chi sente minacciata la personale «politica della vita». (Non è la prima volta che Bauman utilizza l'espressione «politica della vita»: di sicuro è in questo libro che usa, senza mai approfondirlo nelle sue valenze teoriche e politiche, il termine moltitudine). L'unica libertà garantita nella «modernità liquida» è quella del movimento dei capitali e delle élite globali, mentre alla «moltitudine» è riservata la sedentarietà e la dannazione a rimanere ancorati a un luogo. In questa tenaglia tra chi è libero di muoversi e chi è confinato negli spazi circoscritti della nuda vita vige però il paradosso che è l'apologia del potere che gli individui hanno nell'autodeteminare il proprio progetto di vita a costituire la weltanschauung dominante nella «società individualizzata». L'abisso che si apre tra l'individualità come «pratica di autoaffermazione» e la limitata capacità di controllare il contesto sociale in cui l'autodeterminazione del proprio progetto di vita dovrebbe realizzarsi conduce alla condanna a morte della «soluzione biografica delle contraddizioni sistemiche». Di fronte alla libertà di movimento della élite e alla costrizione alla sedentatarietà della moltitudine, la politica è ridotta a pura amministrazione dell'esistente, cioè è preposta a dimostrare al capitale che è libero di andar via quando vuole. Il principio di individuazione operante nel capitalismo flessibile, o nella modernità liquida, è purtuttavia inscritto, cioè è ingabbiato all'interno di contraddizioni sistemiche. Per Bauman, la massima esemplificazione dell'ambivalenza assunta dalla retorica dell'individualità è data dal declino del lavoro, o meglio dall'ascesa della precarietà a sistema della relazioni tra capitale e lavoro, il cui conflitto ha costituito e tutt'ora costituisce la contraddizione sistemica per eccellenza. Vista da questo osservatorio la «società individualizzata» risplende in tutta la sua ambivalenza. La promessa del paradiso in terra diventa l'inferno vissuto quotidianamente da uomini e donne, mentre la precarietà diventa il più sofisticato e perfetto strumento di sottomissione e controllo che la modernità è riuscita a produrre. Non c'è quindi nessun governo coatto del corpo come denunciava Michael Foucault. Semmai c'è la trasformazione delle istituzioni della «riproduzione sociale» in apparati predisposti alla produzione di addomesticate soggettività. Questa passaggio dallo stato sociale al workstate vede impegnata non solo l'università, ma tutto il ciclo della formazione che caratterizzava il welfare state. La scuola è il luogo deputato a formare l'«uomo flessibile»; la sanità, dal canto suo, non punta più alla cura del corpo, ma a renderlo episodicamente efficiente e pronto ad adeguarsi ai ritmi del lavoro e alle mutevolezze del mercato del lavoro, i trasporti diventano un optional gradito solo nel caso servano a ridurre il tempo di circolazione delle merci, compresa quella della forza-lavoro. La trasformazione del welfare state in istituzione e norme per l'avviamento al lavoro - un lavoro, va da sé, precario e i cui diritti sono subordinati alla libertà di movimento del capitale - non è certo indolore. Il saggio dedicato alle «identità» evoca gli studi di Bauman dedicati alla comunità. Seguendo il filo rosso della sua riflessione, si potrebbe dire che il linguaggio politico della moltitudine costretta alla sedentarietà è quello soffocante, populista e reazionario della comunità. Ma anche in questo caso, l'ambivalenza è la regola principale. L'autore infatti parla espressamente di «razionalità» di alcuni comportamenti opportunistici e cinici della moltitudine. Ma è pur sempre una razionalità disperata (e disperante), di chi non vede alternative allo stato di cose presenti o di chi cerca una soluzione biografica a contraddizioni sistemiche. Una soluzione impossibile, ovviamente, ma da cui partire non per indulgenza nei confronti della società individualizzata, ma per rompere scardinare quella retorica dell'individualità che costringe il desiderio di libertà nella camicia di forza del capitalismo flessibile.
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