art.18 l'idea reganiana di societa'



il manifesto - 09 Aprile 2002 
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Art.18 e non solo...
L'idea reaganiana di società
Le deleghe del governo Berlusconi sul lavoro non contengono solo l'ormai
famosa modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: si disegna
una riscrittura complessiva di tutte le norme del diritto del lavoro. Con
la pagina di oggi cominciamo un'analisi dettagliata di tutti i punti
ROSSANA ROSSANDA
Martedì della prossima settimana, 16 aprile, l'Italia si fermerà per otto
ore in tutte le attività pubbliche e private: uno sciopero generale, atto
solenne cui non si ricorreva più dal 1982. Da allora le fermate di lavoro,
anche se spesso importanti, duravano meno tempo, o interessavano una
categoria, o una regione. Lo sciopero generale è un'arma conflittuale
eccezionale, e oggi l'intero mondo del lavoro vi ricorre e per esso tutti i
sindacati, perché rifiuta quel che in tema di lavoro il governo vuole fare
e come lo vuole fare. Quel che vuole fare - dichiara il governo - è
togliere rigidità al lavoro e flessibilizzarlo. Chiama rigidità il fatto
che fino ad oggi comprare forza di lavoro è stato diverso dal comperare una
qualsiasi macchina, perché ci si deve attenere a norme collettive per
quanto riguarda il compenso di categoria, il massimo di orario, le regole
interne all'azienda, le protezioni e assicurazioni garantite in comune e a
un certo punto al regime dei licenziamenti e delle assunzioni. Per
flessibilità del lavoro (che per esattezza è flessibilità del lavoratore)
si intende che il lavoratore deve diventare sempre più pieghevole e
disponibile ai tempi, ai modi e alle mansioni di cui di momento in momento
le aziende hanno bisogno, senza garanzie né di durata né di mansione.
Tendenzialmente quel che governo e Confindustria auspicano mira a far sì
che l'impresa contratti individualmente col singolo dipendente che cosa
vuole e quanto è disposto a pagarlo. Tendenzialmente, dunque,
l'organizzazione collettiva dei lavoratori, il sindacato, perderebbe di ruolo.

Il come è attraverso la legge delega, che significa per il governo passare
alla messa in atto delle sue misure senza un vero confronto parlamentare e
a prescindere dal confronto con e fra le parti sociali. Confronto che è
stato di regola in queste materie, anche quando i governi non erano di
centrodestra ma di centrosinistra; soltanto con la Casa delle libertà è
avvenuta l'identificazione della parte padronale con il governo, dopo il
congresso della Confindustria a Parma e dopo il 13 maggio, e
l'identificazione della democrazia con la maggioranza numerica alle Camere.

La Cgil ha messo da tempo in guardia il governo che non avrebbe accettato
né il che cosa né il come. Dopo una prima esitazione, la Cisl e la Uil, che
avevano sperato di aprire col governo un tavolo separato, hanno capito che
nessun sindacato può dare senza suicidarsi quel che governo e Confindustria
chiedono. Dopo l'enorme manifestazione del 23 marzo a Roma, cui ha
partecipato una folla di cittadini senza precedenti, lo sciopero generale
del 16 dirà che conflitti e accordi fra parti sociali in tema di lavoro è
un punto fondamentale della democrazia che il paese si riprende.

Un simbolo

Di questa democrazia è simbolo l'articolo 18, parola che ormai tutta
l'Italia conosce e del quale la Cgil, la Cisl e la Uil non sono infatti
disposti neppur a discutere. Ne hanno chiesto lo stralcio. E' un articolo
dello statuto dei lavoratori conquistato negli anni Settanta, e stabilisce
che il rapporto di lavoro non può essere rescisso dalla sola azienda, ma
soltanto se ne esista una «giusta causa» riconosciuta da ambedue le parti.
Tanto che il tribunale può obbligare alla reintegrazione al suo posto del
lavoratore licenziato oppure, ma soltanto se questi è d'accordo, a una
certa cifra di risarcimento. E' il dispositivo che esplicitamente ha
vietato ai padroni di licenziare i lavoratori per le idee politiche o per
le loro attività sindacali.

E' dunque un principio di libertà. Che cosa c'è di vero nell'affermazione,
sventolata da governo, Confindustria e la loro stampa, che questa libertà
impedirebbe lo sviluppo dell'economia? Andiamo a vedere. I conflitti
sull'articolo 18 sono stati nello scorso anno meno di cento sull'intero
volume del lavoro italiano, che è fatto di circa 22 milioni di persone,
delle quali un poco più di 15 milioni sono dipendenti. E' dunque, rispetto
al processo produttivo o dei servizi, una cifra irrisoria. Tanto più che
l'articolo 18 riguarda soltanto le imprese di almeno quindici dipendenti
(in un solo comune), mente le centinaia di migliaia di aziende che
pullulano adesso ne hanno mediamente meno di cinque. Ridicolo, anche perché
molte grosse imprese eludono il lavoro dipendente acquistando il prodotto
da terzi piccolissimi invece che effettuarlo nel proprio perimetro.
Ridicolo, perché le imprese più grosse hanno bisogno di manodopera
permanente ed esperta. Ridicolo, infine, perché le concentrazioni o le
frammentazioni della proprietà che intervengono nel ciclo produttivo sono,
ahimé, «giusta causa» dei licenziamenti collettivi; certo apre una vertenza
con il sindacato, ma l'articolo 18 non c'entra.

Non è dunque perché esso intralci lo sviluppo che lo si vuole abolire. Ma
perché esso riflette un'idea del lavoro come diritto che si vuole invece
togliere di mezzo. Il padronato intende riprendersi interamente la
disciplina dell'azienda e non trovarsi più alcun soggetto collettivo davanti.

Non è una tendenza di ieri, è stata iscritta, negli anni Ottanta, da Reagan
negli Stati uniti e da Thatcher in Gran Bretagna ed è stata introiettata da
gran parte della sinistra europea dopo il 1989. La vera svolta è stata,
anche in Italia, la preminente autonomia dell'economia sulla politica, che
gli ex partiti comunisti e gran parte dei sindacati hanno accettato.
Crescita e sviluppo sarebbero, secondo questa ideologia, un mero prodotto
del sistema delle imprese, sul quale la sfera politica nulla avrebbe da
dire: è il mercato a selezionare prodotti, e dunque bisogni che diventano
«oggettivi» in quanto vendibili e acquistabili, merci. E' dunque il mercato
il vero regolatore dei rapporti sociali. A chi non accede al mercato
provvederà una carità pubblica, sotto controllo, e temporanea, finché non
sarà reimmesso forzosamente nel lavoro a prezzo più basso. Lo stato o la Ue
non si propongono più, quindi, un modello di società con le sue priorità di
sviluppo. Tantomeno mettono fra queste il pieno impiego, che nello schema
keynesiano del dopoguerra produceva domanda, quindi offerta. Faceva insomma
andare la macchina.

L'offensiva

.La rigidità è passata interamente ed esclusivamente al meccanismo
dell'impresa, in concorrenza con le altre imprese; perciò tocca ad esse
migliorare la qualità o, se non ci credono o non ci si sforzano come
succede in Italia, ridurre i costi per restare a galla. Il lavoro è uno dei
costi da ridurre, anche minacciando di spostare l'impresa fuori dall'Italia
a cercarlo altrove (la Ue si limita a proibire al proprio interno i casi
dichiarati di dumping). La tecnologia aiutando, il lavoro tenderebbe dunque
a essere volante, intermittente, adattabile volta a volta e tempo a tempo
all'impresa. Al limite un job on call. Come succedeva prima dell'esistenza
del sindacato, più di un secolo fa: la famosa mondializzazione è un grande
ritorno al passato, come suona anche un prezioso libretto di questo nome
pubblicato per la Cgil dalla Ediesse.

L'offensiva del governo si articola nella legge delega del novembre 2001,
nella finanziaria del 2002 che ne dispone i mezzi e sul Libro Bianco, che
una commissione ministeriale era già andata predisponendo nel precedente
governo e che è stato reso pubblico dal ministro Maroni. C'è un'intenzione
politica molto evidente nel chiamarlo libro Biagi, dal nome del professor
Marco Biagi, che vi aveva collaborato ed è stato ucciso da coloro che oggi
si nominano Brigate Rosse, pochi giorni fa sulla porta di casa. Si usa il
suo nome, come dire: chi attacca il Libro Bianco scritto da Biagi è come se
l'uccidesse di nuovo. E si aggiunge che, come negli anni Settanta con
alcuni giornalisti e magistrati, le «Brigate Rosse colpiscono i mediatori
sociali».

Ma il Libro Bianco non è affatto mediatorio: esso costituisce una riforma
radicale in senso neoliberista del regime del lavoro e della legislazione
sul lavoro conquistate in Italia. In gran parte ricalca il Libro Verde del
New Labour, che aveva la stessa valenza rispetto alle conquiste inglesi.
Neanche si occupa, se non assai limitatamente, del lavoro a tempo
indeterminato che dà per scontato in via di estinzione; considera la
precarizzazione come un progresso obbligato della tecnologia e
dell'organizzazione dell'impresa; non si occupa di politiche per
l'occupazione dando per inteso che esse saranno l'esito automatico della
crescita delle imprese (per le quali è prevista qualche agevolazione quando
occupano, ma senza obbligarle ad alcun obiettivo prioritario).
Conseguentemente alle tesi già sviluppate negli anni scorsi da gran parte
del centrosinistra, il welfare va ridimensionato per contrarre la spesa
pubblica e al fine di ricondurre i suoi beneficiari al lavoro a minor
prezzo (welfare to work).

Governo e Libro Bianco mirano a liberare lo sviluppo dell'impresa dai
«lacci e lacciuoli» che gli davano responsabilità e limiti sull'uso della
forza del lavoro. Considerano l'intermittenza lo stato naturale del lavoro.
Si tratta di agevolarla, considerando i periodi, che diventeranno normali,
di non lavoro; ma questo implicherebbero un sistema di ammortizzatori
sociali, cioè un salario garantito e non tanto minimo da permettere di
vivere. Il governo sembra credere che basterebbe, nelle fasi di non
occupazione, ricevere il 40 per cento del salario che si è avuto in epoca
lavorativa. E che dovrebbe servire dunque a coprire non solo i costi della
vita ma parte delle spese di quando non si lavorerà. Si parla al massimo di
due miliardi, mentre la Cgil ha calcolato che ce ne vorrebbero almeno
dieci. Non sembrano esserci, in una fase nella quale i conti pubblici
stanno andando molto male. Il quadro che, se dovesse passare la delega del
governo, si delinea è quello dunque di un impoverimento serio di tutta la
fascia del lavoro dipendente, che non andrebbe senza un processo deflattivo.

Non solo. Ma come viene modificato il regime dei licenziamenti, che
diventano ovvii e naturali, il Libro Bianco propone di modificare il
sistema delle entrate al lavoro, che è già molto eroso ma che ancora si
baserebbe sul principio dell'interesse pubblico, e perciò sarebbe affidato
all'iniziativa pubblica oltreché al contatto diretto. Gli uffici di
collocamento e le iniziative per l'occupazione lascerebbero spazio al
contratto del singolo con l'impresa, facilitato da una intermediazione
privata e dalla stessa privatizzazione della «formazione» o adeguamento al
lavoro che viene richiesto sul mercato. La manodopera sarebbe nelle mani
dell'impresa privata mentre lavora, dell'intermediazione privata prima di
entrare nell'impresa e delle assicurazioni private per il pensionamento.
Anche qui la collettività non avrebbe nulla da dire; se qualche margine di
intervento sarà lasciato alle regioni, sembra che le spinte sarebbero a
ricostruire le gabbie salariali, cioè a permettere fasce più deboli anche
di quel tanto di minimo contrattuale nazionale che resterebbe.

La modernizzazione

E' l'idea di sé che aveva la società che si vuol cambiare. E solo un
«modernizzatore» senza principi può pensare che qualsiasi cambiamento sia
positivo. La storia del secolo scorso e anche recentissima ci insegna che
davvero non è così: i cambiamenti hanno un segno. Questo della delega sul
lavoro penalizza tutti coloro che non sono imprenditori. Chi entrava nel
lavoro negli ultimi cinquant'anni non solo accedeva a un salario, ma al
minimo si faceva un mestiere, al massimo si realizzava in una
professionalità alta, e su questi fondamentali binari programmava la base
materiale della sua vita. Se questa delega passa, non lo farà più; gran
parte del suo tempo sarà impegnato a cercar lavoro, e quando l'avrà
trovato, non solo a lavorare ma a risparmiare sul salario che gli daranno
per mettere da parte il gruzzolo che gli sarà necessario quando sicuramente
lo perderà. Tendenzialmente atomizzato, non avrà più il sindacato a
difenderlo ma, se riuscirà a pagarlo, un avvocato. Il quale a sua volta non
avrà più l'attuale legislazione del lavoro su cui poggiare. E' la vita
intera che viene precarizzata.

Non a caso la Cgil ha legato la sua protesta contro la delega sul lavoro
anche a quelle sul fisco (dalla quale dipederà una accentuazione
dell'ingiustizia sociale e una riduzione della spesa pubblica), ma a anche
quelle sulla scuola e la previdenza. Sono tutte inerenti al farsi concreto
della vita.

Oltre lo sciopero

La domanda non è dunque perché si sciopererà il 16: le ragioni sono chiare
e il paese le ha fatte proprie come non succedeva da tempo. Lo sciopero
sarà un grande successo. La domanda è semmai sul come la battaglia
proseguirà dopo il 16 nelle sedi istituzionali, nei luoghi di lavoro e nei
luoghi di aggregazione dove la società riflette su se stessa. Nelle sedi
istituzionali, cui già la delega è arrivata, i numeri non ci sono. Ma qui
si vedrà se l'opposizione sarà in grado di far valere la minoranza come
amplificatore del messaggio che le manda il paese.