dall'intelligenza alla vita artificiale



dal manifesto

     
    
 
    
 

03 Marzo 2002 
  
 
   
Dall'intelligenza alla vita artificiale 
F. C. 




L'idea di affidare a dei circuiti artificiali di unità discrete il compito
di svolgere dei compiti complessi risale almeno agli anni `80; la
letteratura scientifica in proposito è sterminata e molte applicazioni
pratiche di tali sistemi sono state realizzate. Dal punto di vista
concettuale è una sorta di rovesciamento di prospettiva: non c'è bisogno
infatti di specificare con esattezza tutte le regole, ma ci si affida
invece alla possibilità che il comportamento globale emerga come frutto
spontaneo di una moltitudine di trasformazioni locali. In questo caso
quello che fa la differenza tra una rete neurale e un'altra è la sua
struttura (quali celle sono collegate con quali altre) e l'intensità di
tali connessioni (se la cella A influenzi più vistosamente il comportamento
di B o di C o di Z).
Proprio per questo, sistemi di tal genere vennero fin dagli inizi dotati di
una dote importante: la plasticità, ovvero la possibilità di modificare le
proprie connessioni e il loro peso, a seconda di quanto i programmatori
evidentemente decidessero ovvero - e meglio - per effetto della propria
esperienza. E' lì il fondamento dell'apprendimento. Ma non ci si ferma qua:
gli sviluppi più recenti affidano la sperimentazione a una sorta di
evoluzione darwiniana in laboratorio.
Si parte da molte varianti dello stesso software e le mette alla prova, per
esempio facendole giocare l'una contro l'altra; dopo di che i vincitori
passano al turno successivo, nel corso del quale fanno dei figli: in altre
parole vengono generate altre versioni che contengono lo stesso patrimonio
genetico dei genitori, ma con alcune varianti, prodotte a caso. Anche i
figli vengono messi in competizione e il processo continua, ogni volta
scartando i peggiori e facendo riprodurre i migliori.
Nemmeno questo modo di procedere, a essere sinceri, è una novità: da almeno
una decina d'anni il settore dell'evoluzione del software è tra i più
promettenti, avendo il suo epicentro e santuario concettuale a Santa Fé,
nel New Mexico. La disciplina ha anche un nome suggestivo, Artificial Life,
e si assegna due compiti in qualche modo complementari: da un lato può
fornire un banco di prova artificiale ma controllato per lo studio dei
meccanismi dell'evoluzione naturale. In questo caso ha già offerto delle
applicazioni utili, sotto forma di modelli matematici che cercano di
prevedere l'andamento nel tempo di popolazioni naturali e il cambiamento di
un habitat per effetto di piccole variazioni di uno dei suoi componenti.
Dall'altro è un modo saggiamente modesto di affidare all'evoluzione dei
programmi software quello che non si riesce a risolvere con un'equazione o
un modello generale. In altre parole, in assenza di teorie soddisfacenti,
si lascia che l'evoluzione segu il suo corso e faccia emergere lei,
attraverso milioni di tentativi, il migliore software per una certa
prestazione.
Tutto ciò è particolarmente utile quando in cui il problema è per sua
natura poco definito (per esempio il riconoscimento di forme) o troppo
complesso per consentire una teoria generale (è il caso degli scacchi). Per
dirla in termini provocatori: non essendo l'uomo abbastanza intelligente da
capire tutto, rinuncia almeno temporaneamente a sviluppare teorie e modelli
e si affida a un gigantesco esperimento basato su tentativi, errori e
correzioni.
Il motivo culturale va fatto risalire all'idea della maggioranza degli
studiosi del sistema nervoso che la spiegazione "vera" dei processi
cognitivi elevati possa essere ottenuta solo a partire dalla conoscenza
intima dei "mattoncini" di base. Non per caso questa disciplina prende
talora il nome di Connessionismo.L'applicazione di modelli del genere ai
comportamenti e alle interazioni sociali va fatta con grande cautela e
soprattutto buon senso.
Anche gli Automi Cellulari, come i Frattali o la dimenticata Teoria delle
Catastrofi, rischiano altrimenti di essere solo delle mode matematiche
temporanee, degli apparati concettuali che sembrano spiegare tutto, quasi
fossero una legge generale di natura, e invece finiscono per non spiegare
nulla, se applicati su terreni non adatti. Senza dunque scomodare leggi
universali e grandi narrazioni, balza comunque agli occhi il fascino ma
anche l'ambiguità della metafora di rete.
In termini analitici una rete è un insieme di nodi, variamente collegati
tra di loro da frecce che indicano in che senso avviene l'interazione. Ma
ci sono infinite reti quanto a strutture e regole di funzionamento; e poi
facilmente esse si strutturano in sottoreti gerarchizzate con dei nodi che
assumono funzioni più rilevanti rispetto agli altri; "rete" non è
automaticamente sinonimo di egualitario. La stessa Internet può essere
guardata a diversi livelli: quello dell'infrastruttura fisica di trasporto,
quello dei siti web e dei link che li connettono e infine quello delle
persone che sono in rete e che formano comunità elettive. Tutte queste
mappe possono essere sovrapposte, ma ognuna è diversa e rivela aspetti
diversi del mondo Internet. Ogni livello poi richiede un'analisi specifica
statica (l'architettura) e una dinamica (le interazioni), e si dovranno
usare ogni volta le metodologie più appropriate.
Nello stesso tempo come nessun nodo è solo all'interno di un livello, così
ogni in qualche modo influenza gli altri e ne viene influenzato. Così al
livello che qui più interessa, quello degli umani cooperanti in rete, andrà
notato come le modalità di relazione e di altruismo abbiano assunto, grazie
alla presenza dell'Internet, anche caratteristiche affatto originali: da un
lato la Rete ha ridato spazio a comportamenti atavici di collaborazione, ma
dall'altro ha favorito - da quel mezzo innovativo che è - la creazione di
una cultura e di una prassi prima inesistenti o semplicemente repressi.