centrodestra e fondazioni bancarie



dalla repubblica

MARTEDÌ, 05 FEBBRAIO 
Le mire del centrodestra sul futuro delle Fondazioni  
  
  
  
Non è soltanto una questione di denaro: infatti chi alla fine dominerà
questi enti, domani potrà nominare i vertici dei maggiori gruppi bancari  
È dai tempi dell'impero Dc che non si vedeva un disegno così prepotente di
colonizzazione politica Un obiettivo che vede in prima fila Tremonti e Bossi  
  
MASSIMO RIVA  

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Tutto è cominciato con un colpo di mano legislativo a sorpresa, eseguito
con la stessa tecnica dei raid notturni delle teste di cuoio. Ma il seguito
promette di essere la più grandiosa e sensazionale campagna di occupazione
del potere mai realizzata dopo la caduta dell'impero democristiano. È da
quei tempi, infatti, che nessuno aveva più osato concepire un disegno tanto
prepotente e ambizioso di colonizzazione politica di così vaste ricchezze
dell'economia nazionale, come quelle che fanno capo alle Fondazioni di
origine bancaria.
C'è da giurare che Franco Evangelisti si stia letteralmente rigirando nella
tomba all'idea che un'orda di nuovi barbari, guidati da Attila Bossi e
Genserico Tremonti, stia allungando le proprie mani voraci sull'eredità
dell'immenso patrimonio di quelle Casse di Risparmio il cui nome, secondo
il fedele scudiero di Giulio Andreotti, avrebbe dovuto essere perennemente
inciso niente meno che sullo scudo crociato della vecchia Dc. Ma — «sic
transit gloria mundi» — questo è oggi proprio quel che minaccia di
verificarsi. I più arditi manipoli del polo berlusconiano si preparano a
dare l'assalto finale contro le cittadelle sguarnite delle Fondazioni, dopo
averne abilmente indebolito le difese che una legge con l'altisonante nome
di Carlo Azeglio Ciampi aveva realizzato con il proposito di precludere
ogni ritorno alle sciagurate pratiche della lottizzazione politica.
Il primo sapiente atto di ostilità — ovvero il «blitz» richiamato
all'inizio — è stato un emendamento presentato all'improvviso dal governo
nella baraonda finale dei voti a valanga sulla legge finanziaria.
Profittando del caos tipico di questi passaggi parlamentari, il ministro
Tremonti ha infilato nella tramoggia legislativa di Montecitorio la
richiesta di un mandato a modificare la disciplina delle Fondazioni. Il
tutto — ecco il punto cruciale — secondo criteri che ora rischiano di
rovesciare quanto fin qui realizzato per dare una soluzione civile e
avanzata alle spinose questioni lasciate irrisolte dalla riforma del settore.
Si ricorderà che con l'invenzione delle Fondazioni da parte di Giuliano
Amato si era dato sì un primo taglio al cordone ombelicale fra banche
pubbliche e partiti politici, ma le Fondazioni lasciate a se stesse
minacciavano di trasformarsi in potentati autoreferenziali e fuori di ogni
controllo. Per forzare il passo verso la definitiva fuoriuscita dei nuovi
enti dal sistema creditizio e per inquadrarli in una disciplina organica
era allora intervenuto lo stesso Ciampi, da ministro del Tesoro, che aveva
ridisegnato le Fondazioni in modo da stabilirne il carattere privatistico
di enti aperti soprattutto alla società civile. Un'iniziativa di
ispirazione nettamente liberale, tanto dal punto di vista politico che
economico.
Ma a ribaltare questo processo evolutivo del sistema, ecco ora la mossa dei
sedicenti liberisti del polo berlusconiano, la quale si contraddistingue
per tre novità, che sono in realtà tre clamorosi passi all'indietro. Primo,
si stabilisce che negli organi di gestione delle Fondazioni dovrà essere
prevalente la rappresentanza degli enti territoriali ovvero Comuni,
Province e Regioni: esattamente come ai bei tempi della lottizzazione delle
Casse di Risparmio. Secondo, si dilata il campo delle materie di
investimento da parte delle Fondazioni fino a farvi entrare doveri
sostitutivi di competenze tipiche degli enti locali o addirittura dello
Stato. Terzo, in conseguenza dei primi due punti, si getta alle ortiche
l'impronta privatistica che le riforme AmatoCiampi avevano cercato di dare
alle Fondazioni, nel tentativo di arginare gli appetiti spartitori della
politica.
Non c'è bisogno di essere dei von Clausewitz per capire quali siano gli
scopi che ci si ripromette di raggiungere con questi nuovi strumenti
legislativi. La posta in gioco è l'asservimento delle Fondazioni al
controllo politico del centrodestra, soprattutto nelle regioni del Nord
dove l'indiscussa prevalenza del polo berlusconiano nelle amministrazioni
locali si coniuga felicemente con la presenza degli enti di gran lunga più
ricchi: per esempio, la Fondazione Cariplo, il cui attivo consolidato a
fine 2001 era stimato nella rispettabile cifra di 6.410 milioni di euro.
Ovvero qualcosa come oltre 12mila miliardi di vecchie lire i cui frutti, in
base alla disciplina modificata, potranno essere utilizzati per sovvenire —
com'è intuibile — le spese dei sindaci e dei presidenti di Province o
Regioni politicamente amici. Obiettivo strategico che spiega anche perché
la battaglia in corso vede in prima fila la consolidata accoppiata politica
BossiTremonti.
La «devolution» reclamata dal leader leghista minaccia di avere costi non
agevolmente sostenibili dalle finanze statali: ma se si mettono le mani
sulle casse delle Fondazioni, tutto diventa più facile...
Ritenere, però, che i «conquistadores» berlusconiani abbiano di mira
soltanto i soldi delle Fondazioni sarebbe fare un torto alla loro visione
strategica. È opportuno ricordare che non poche Fondazioni mantengono
tuttora una posizione di rilievo nell'azionariato di alcuni istituti di
credito. Per esempio, è nelle mani di Fondazioni il controllo o quasi dei
maggiori gruppi bancari del paese: San Paolo, IntesaBci, Unicredit, fino
alla preziosa cassaforte di Mediobanca. Morale: chi domani avrà il dominio
delle Fondazioni, potrà dopodomani decidere chi nominare ai vertici delle
banche. E qui siamo al piatto forte di tutta la vicenda. Se il polo
berlusconiano riesce a mettere uomini propri anche nei consigli di
amministrazione dei più importanti gruppi creditizi il cerchio del potere
si chiude e lo spazio vitale del centrodestra potrà consolidarsi fino al
punto da far impallidire la pluridecennale signoria democristiana sul
mercato del credito e, di riflesso, sull'economia nazionale.
Il progetto politico di Silvio Berlusconi raggiungerebbe così il suo
traguardo finale: perché dall'azienda divenuta partito si passerebbe al
partito che diventa Stato.
Di fronte a una simile minaccia per le libertà mercantili e politiche degli
italiani sarebbe di conforto poter registrare un impegno di vigilanza del
Quirinale e qualche sussulto di battaglia da parte dell'opposizione.
Purtroppo il Colle, se non assente, è per ora silente, mentre l'Ulivo
appare attorcigliato su se stesso in uno sterile dibattito sui ruoli da
assegnare a Francesco Rutelli piuttosto che a Massimo D'Alema. Dum Romae
consulitur...