in movimento verso il sud



dal manifesto

     
    
 
    
 

01 Febbraio 2002 
  
 
  
Da Porto Alegre in movimento verso il sud 
L'evoluzione del "movimento dei movimenti" nelle analisi di Cristophe
Aguiton, autore di "Il mondo ci appartiene" e responsabile delle relazioni
internazionali di Attac 
BENEDETTO VECCHI 




L'apertura del Forum sociale mondiale di Porto Alegre vede la città
brasiliana addobbata a festa. Decine di grandi striscioni danno il
benvenuto alle decine di migliaia di uomini e donne che sono giunte qui per
fare il punto sul "mondo diverso in costruzione". I centinaia di workshop
previsti cercheranno di sbrogliare la matassa, portando le proprie
esperienze e cercando di scoprire - nei racconti delle altre esperienze -
gli elementi utili alla loro azione quotidiana. Che nella città del Rio
Grande do Sul si giochi una partita importante è convinto anche Christophe
Aguiton, responsabile delle relazioni internazionali di Attac,
l'associazione francese che si è costituita per imporre una tassa sulle
transazioni finanziarie e che nel tempo è sbarcata - dopo gli Stati uniti -
anche in Italia.
Aguiton - che è da sempre un "militante" - non ha mai disdegnato di
prendere la penna per dare maggior forza alle sue posizioni. Lo ha fatto
anche recentemente con il libro Il mondo ci appartiene (Feltrinelli, pp.
184, euro 11,88), forse uno dei migliori volumi sulla genesi del "movimento
dei movimenti" anche perché propone una periodizzazione della sua
diffusione e della sua crescita che tiene conto delle trasformazioni del
capitalismo. In altri termini, questo "movimento dei movimenti" sarebbe la
risposta adeguata - e all'altezza - del capitalismo neoliberista. Questo
non significa, sostiene Aguiton, che tutto vada bene. Molti i nodi da
sciogliere. Il metodo per farlo, però, lo fornisce proprio l'esperienza del
Forum sociale mondiale. Discutere per convincere. Convincere per allargare
i campi di azione del movimento. Di questo Aguiton è più che sicuro. E di
questo abbiamo parlato nelle ore e nei giorni che hanno preceduto
l'apertura del secondo appuntamento di Porto Alegre.


Recentemente lei ha parlato espressamente della necessità di costituire un
forum sociale del mediterraneo. Può spiegare cosa intende con questa
proposta? Pensa forse a un qualche ruolo che il forum può avere nei paesi
dove il fondamentalismo islamico è in ascesa?

Di fronte a rischi di ripiegamenti identitari, settari e reazionari,
fondamentalisti o sciovinisti, il movimento mondiale rappresenta una
possibilità storica, in quanto permette la difesa delle identità
specifiche, comprese quelle nazionali e religiose, all'interno però della
difesa dei valori universali di democrazia ed emancipazione. Per quel che
riguarda il Sud e il Mediterraneo, il forum di Beirut dello scorso
novembre, proprio prima della conferenza Wto nel Qatar, ha permesso a più
di 1000 militanti del mondo arabo di riunirsi e di incontrare militanti del
movimento provenienti da altri paesi. Il Forum sociale mondiale di Porto
Alegre consente di proseguire questo processo: vi prenderanno parte più di
cento militanti del mondo arabo. Il problema di un forum sociale
mediterraneo è un problema più pratico. L'idea è nell'aria, se non altro,
per dare una risposta ai vertici "euromed" patrocinati dall'Unione Europea,
che spesso sono soltanto un'ulteriore arma per l'introduzione del
neoliberismo. Ma è anche necessario che i militanti del mondo arabo possano
incontrarsi tra loro per definire le proprie rivendicazioni, le proprie
priorità e un calendario di azione. Ne parleremo, tutti insieme, a Porto
Alegre.

Nel libro "Il mondo ci appartiene" la crescita del movimento di critica
alla globalizzazione capitalistica risulta parallelo alle trasformazioni
che hanno caratterizzato il capitalismo negli ultimi venti anni. Può
spiegare in che rapporto stanno questi due fenomeni interdipendenti?

Un legame tra le fasi di sviluppo del capitalismo e i movimenti sociali c'è
sempre stato. Basti pensare alla formazione del movimento operaio e alla
conseguente nascita di partiti e sindacati operai. Questo non esclude
l'influenza esercitata da altri fattori storici, elemento che dovrebbe
mettere in guardia da qualsiasi meccanicismo. Prendiamo ad esempio la
Francia. Nel caso francese si potrebbe delieneare questa questa
periodizzazione: una fase pretaylorista, dalla fine del XIX secolo
all'inizio del XX, in cui il proletariato viene segnato dalla figura
dell'atelier, l'officina dove il padrone appare come un semplice
sfruttatore senza una reale funzione nella produzione. E' questo l'età
d'oro dell'anarcosindacalismo e delle rivendicazioni per l'abolizione della
figura del salatriato. Segue poi una fase taylorista, dalla prima guerra
mondiale agli anni `80, in cui di fronte alla produzione di massa, gli
operai si organizzano in grandi apparati verticali impedendo, sul piano
ideologico, l'espropriazione capitalista, a vantaggio di una pianificazione
industriale fondata sullo stato; quindi la fase attuale, in cui i grandi
apparati, i "movimenti sociali" o il "movimento operaio", vengono
sostituiti dalla reti sociali. Ma se mettiamo al centro dell'analisi
storiografica la Germania, la periodizzazione che valeva per la Francia non
spiega molto della formazione del movimento operaio tedesco. Infatti, la
Germania vede costituirsi, alla fine del XIX secolo, una socialdemocrazia e
un sindacalismo molto centralizzati, agli antipodi dell'anarcosindacalismo
francese. Tutto questo per dire che le condizioni storiche che sono alla
base della formazione del movimento operaio devono contemplare elementi che
sono fuori dai rapporti sociali di produzione. In Francia gioca un ruolo
importante la costituzione della III Repubblica e il peso di una piccola
borghesia, che era stata indispensabile nella lotta contro la Comune di
Parigi: fattori che radicalizzano il movimento operaio. In Germania,
invece, un forte e efficiente stato prussiano consentono a politici come
Bismarck di concedere vantaggi sociali alla classe operaia per stabilizzare
un potere che, come appoggi sociali, aveva soltanto la nobiltà e l'alta
borghesia.

La crescita del potere del capitale finanziario e il decentramento
produttivo a livello planetario costituiscono il leit motiv della sua
riflessione sulla globalizzazione economica. Lei, tuttavia, tratta questo
doppio movimento del capitale come se ci trovassimo di fronte a due momenti
distinti, quasi che il primo non abbia nessun rapporto con il secondo. In
altri termini: il capitale finanziario svolge una funzione parassitaria
rispetto al momento tradizionalmente inteso come produttivo. Le vicende
statunitensi parlano invece di uno stretto rapporto, ad esempio, tra
capitale di rischio e crescita dell'industria high-tech. Può spiegare
meglio il suo punto di vista?

Il capitalismo è un modo di produzione in cui le contraddizioni sono sempre
particolarmente intense e presenti. E' quel che dà tutta la sua vivacità a
un sistema che possiede notevoli capacità di integrazione. Si possono
quindi moltiplicare gli esempi in cui il peso della finanza appare come
pregiudiziale allo sviluppo stesso del sistema. Non credo, tuttavia, che il
ruolo dei mercati finanziari, che innanzitutto sarebbero "parassitari", si
possa separare dall'evoluzione del sistema produttivo. Nella loro ricerca
di un ritorno da un investimento massimale, i mercati finanziari sono un
motore molto potente, tanto per la riorganizzazione delle imprese che per
l'apertura internazionale delle economie.

Negli anni scorsi, in Francia, alcuni intellettuali, penso in particolare
ad Alain Touraine, hanno scritto sui movimenti dei "sans" (cioè i migranti
senza permesso di soggiorno, i senza casa, i senza lavoro) sottolineandone
la novità. Sembra di assistere a una riedizione del vecchio adagio in base
al quale nel capitalismo maturo scompaia il nodo dei rapporti sociali di
produzione. Ma è proprio così?

Una decina di anni fa, in Francia, numerosi intellettuali tra cui Alain
Touraine, insistevano sull'avvento di una "società duale" in cui
coabitassero un settore protetto, di cui faceva parte la classe operaia
internazionale, e un settore di emarginati, da cui provengono i movimenti
dei "sans". Pur puntando a buon diritto il dito sul dramma della povertà,
questa analisi è servita molto a giustificare attacchi contro la classe
operaia e i salariati dei servizi pubblici, in nome della lotta ai
"privilegi". Era un'analisi che passava vicino al fatto essenziale, ovvero
che la riorganizzazione del capitalismo si accompagna ad una esplosione
dell'insieme degli statuti dei diritti e a un aumento generale della
precarietà. Questa "insicurezza sociale" tocca tutti gli strati della
società, ivi compresi i quadri aziendali, e spiega il largo sostegno
dell'opinione pubblica nei confronti sia dei movimenti sociali che delle
lotte contro la globalizzazione liberista.

Nel suo libro, lei parla del rapporto tra questo movimento e i sindacati.
Rapporto contradditorio, che segna una parabola da Seattle a Genova. Nel
1999 il sindacato americano ha partecipato alla rivoltà contro il Wto.
Questa estate solo i sindacati di base e la Fiom hanno manifestato nella
città ligure contro il G8. Eppure, sulla carta ci sono tutti i presupposti
di iniziative specifiche di questo movimento contro la precarietà e la
flessibilità della forza-lavoro. Lei che ne pensa?

I rapporti tra i sindacati e il movimento sono una questione fondamentale,
direi decisiva per la ulteriore crescita e il consolidamento del movimento
contro la globalizzazione neoliberista. E tuttavia sono rapporti tutt'altro
che semplici! Il sindacalismo europeo è molto in ritardo, se si pensa che
l'Afl-Cio americana, dopo il suo congresso del 1995, ha deciso di mettere
al centro dei propri pensieri la lotta contro la globalizzazione e ha
avviato, a tal fine, una politica di ampie alleanze sia a livello nazionale
che internazionale. Poi la cronaca ci ha parlato di una presa di distanza,
se non di uno sganciamento del sindacato statunitense. Questo
"ripensamento" credo vada considerato alla luce di una "volontà di potenza"
del sindacato tradizionale, che spesso si ritiene l'unico soggetto
legittimato a negoziare e discutere. C'è anche un altro motivo della presa
di distanza del sindacato americano, ma anche di gran parte di quello
europeo dal movimento di contestazione del neoliberismo: la paura di questa
nuova ondata di radicalizzazione che sembra loro troppo estrema e contraria
al sistema. L'abbiamo visto a Genova, dove la Fiom e i sindacati di base
erano gli unici ad essere presenti. Il mio ottimismo mi fa comunque pensare
che le cose siano in movimento e che da parte dei sindacati siano possibili
cambi di orientamento. E' necessario, però, da parte loro, che si rimettano
in discussione una serie di cose e si costituiscano alleanze inedite per
lottare contro la precarietà e la flessibilità. In Francia, a Parigi, la
lotta dei dipendenti di McDonald's in questo senso è emblematica: accanto
ai sindacati, la lotta viene animata da movimenti di disoccupati come AC!,
da militanti di Attac e da movimenti di giovani.

Questo movimento è sovranazionale. Registra non la fine della sovranità
nazionale, ma la sua crisi e riconfigurazione in un quadro appunto globale.
E' quindi naturale auspicarne la dimensione europea. Eppure molti, uomini e
donne, al suo interno parlano espressamente della necessità di dare solide
radici locali alla lotta contro il neoliberismo. Lei che ne pensa?

La lotta contro la globalizzazione liberista è sicuramente un movimento
mondiale, tuttavia coinvolge molti aspetti della vita quotidiana. Tutti,
per esempio, sanno che numerose ondate di licenziamenti sono dovute alle
esigenze di remuneratività dei mercati finanziari. La stessa cosa si può
dire della mal bouffe, dalla mucca pazza agli Ogm. Del resto, è proprio
questo legame tra preoccupazioni immediate e grandi questioni
internazionali che rende il tema della globalizzazione così difficile da
spiegare da molti esponenti politici. Possono pensare di rispondervi
parlando dei rapporti tra Nord e Sud o di "necessari strumenti
internazionali di regolazione", ma troveranno sempre uomini e donne che
ribatteranno alle loro posizioni parlando loro di precarietà, licenziamenti
e problemi ambientali!

Genova è stata un punto di svolta drammatico per questo movimento. Poi c'è
stato l'11 settembre, la guerra in Afghanistan, considerata da molti una
guerra costituente di un nuovo ordine mondiale. La guerra sembra essere
diventata guerra permamente, mentre l'ordine mondiale sembra lontano, basti
pensare alla rivolta in Argentina. Sembra che ad essere in crisi sia il
capitalismo neoliberista. Lei che ne pensa?

Non bisogna dimenticare che la cosiddetta "globalizzazione liberista" ha
effettivamente preso l'avvio dopo una guerra: la guerra del Golfo, che
chiuse il breve periodo tra il 1989, la caduta del muro di Berlino e il
1991. La guerra è quindi un suo elemento costitutivo. Tuttavia, non penso
che si stia andando verso uno "scontro tra civiltà". Le forze dominanti
vogliono perseguire la globalizzazione, come hanno dimostrato nell'incontro
del Wto nel Qatar, facendo di tutto per raggiungere un accordo che
cancellasse l'onta di Seattle. E' chiarissimo in Argentina, dove il Fmi ha,
certo, una responsabilità schiacciante, ma dove ugualmente responsabile del
disastro economico e sociale attuale è l'alta borghesia argentina.

Lei ricopre un posto di rilievo in Attac. Recentemente, si è costituita
Attac Italia e sul piatto delle proposte c'è l'ipotesi della campagna sulla
Tobin tax i cui proventi dovrebbero in parte andare a costituire un fondo
per il reddito di cittadinanza. Una proposta che non dovrebbe dispiacerle
dopo l'esperienza dei disoccupati francesi di alcuni anni fa. Lei che ne
pensa?

Il dibattito sull'utilizzo dei fondi che proverranno dalla Tobin Tax è
ancora aperto. Io, a titolo personale, penso che la priorità delle priorità
sia l'aiuto ai paesi del Sud. Il diritto a un salario che permetta a tutti
e a tutte, ma in primo luogo ai disoccupati, di vivere con dignità, è una
questione essenziale, ma credo che per questo le nostre società europee
abbiano da sole sufficienti risorse. L'insieme delle rivendicazioni delle
associazioni dei disoccupati espresse in Francia durante il movimento
dell'inverno 1997/1998 "costavano" soltanto l'1% del Pil.