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italia paese ricco, ma quanto potra' durare?
- Subject: italia paese ricco, ma quanto potra' durare?
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 28 Jan 2002 19:20:02 +0100
da affari e finanza lunedi 28 Gennaio 2002 Italia, paese ricco ma quanto ancora potrà durare? MARCELLO DE CECCO Se apriamo alla pagina 80 l'eccellente rapporto sullo stato dell’economia italiana appena pubblicato dall'Ocse, un eloquente grafico a barre ci comunica la posizione relativa del nostro paese quanto a reddito procapite, misurato tenendo conto delle parità dei poteri d'acquisto. Nel 1999, l'anno per il quale è stato calcolato il grafico, l’Italia risulta al quarto posto tra i grandi paesi sviluppati del mondo. Una incollatura più giù della Germania, un dieci per cento sotto il Giappone, e un cinquanta per cento sotto gli Stati Uniti, che comandano la classifica. Tra noi e loro ci sono numerosi piccoli paesi ricchi, come Svizzera, Norvegia, Irlanda, Islanda. Ma confrontarsi con quelli sarebbe poco significativo, dato che regioni come Lombardia, Veneto, EmiliaRomagna hanno dimensioni simili quanto a popolazione a questi piccoli paesi e reddito vicino a quello statunitense o svizzero, così come è vero delle regioni più prospere di ciascun grande paese sviluppato. Sono i paesi a grande popolazione quelli che ci interessano, anche se è da confronti come quello che abbiamo appena rifiutato che nascono tutte le nostalgie separatiste, in Italia e altrove. Appena sotto di noi, nel 1999, sono i nostri colleghi della UE, Francia e Gran Bretagna. Il wunderkind del Sud, la Spagna, si trova ancora a venti punti percentuali più in basso, ma i wunderkinder del Nord, Finlandia e Irlanda, ci hanno ormai abbondantemente superato. Ciò perché, come nota l‘Ocse, "misurato in termini di sviluppo potenziale del reddito (di pieno impiego), l’Italia ha mostrato negli anni novanta il massimo declino tra le principali economie europee". Malgrado tale vistoso rallentamento, che sembra essersi arrestato solo nel 2000, e ahimè solo per un anno, il nostro paese si trova dunque in una posizione relativa nella quale nessuno, italiano o straniero, avrebbe sognato potesse giungere. L'aggancio dell'Italia coi paesi ricchi è dunque avvenuto nel corso di tre decenni, i Settanta, Ottanta e Novanta, caratterizzati in tutto il mondo sviluppato da crescita inferiore a quella dei due decenni precedenti, ed ha resistito anche a un decennio a crescita per noi veramente bassa, come gli anni Novanta. Dallo studio dell'Ocse si apprende poi che tale risultato gli italiani lo hanno ottenuto veramente con il minimo sforzo possibile. Innanzitutto riducendo drasticamente il tasso di incremento della popolazione (come hanno fatto anche gli spagnoli e i tedeschi). E, al contrario di questi e di tutti gli altri paesi Ocse, partecipando alla forza lavoro in percentuali veramente esigue, che sono le minime in assoluto, sia per i maschi che specialmente per le femmine, i giovani di entrambi i sessi, e gli italiani più anziani di cinquant'anni. Dopo la Spagna, l'Italia mostra, specie nelle categorie di cui si è appena detto, i più alti tassi di disoccupazione dell'area Ocse, e anche per quanto riguarda la crescita della produttività multifattoriale, gli anni Novanta hanno mostrato per il nostro paese un netto regresso, così come un aumento netto del rapporto tra capitale e lavoro, inferiore solo a quello mostrato da Germania e Giappone. Nemmeno le esportazioni sono andate gran che bene per l'Italia negli ultimi cinque anni. L'effetto della enorme svalutazione del 199295 (alla fine del decennio, il Marco era a 980 lire, mentre superava di poco le 700 lire nel 1990) pareva già sfumato negli anni successivi, senza lasciar traccia per quanto riguarda le quote dell'Italia sul commercio mondiale, anche se aveva certamente gonfiato i profitti degli esportatori per diversi anni. Nota ancora l'Ocse come, in aggiunta a questa "bonanza", i governi degli anni Novanta abbiano nettamente favorito il capitale rispetto al lavoro nel trattamento fiscale, anche se, aggiungono, pare non ne siano derivati grossi effetti sui tassi di investimento italiani ( e a proposito ci ammanniscono un malizioso grafico dal quale si evince con chiarezza l'inutilità delle due leggi Tremonti, quella del 1994 e quella del 2001, come incentivo agli investimenti). Resta dunque il mistero di un reddito reale relativo che resta così ben collocato tra quelli dei paesi Ocse, ancora all'alba del nuovo millennio, mentre tutti gli altri dati che il nostro paese presenta, puntigliosamente evocati dal rapporto Ocse, appaiono nettamente negativi. Dal divario NordSud, caparbiamente incapace di diminuire, alle condizioni del mercato del lavoro, delle quali ho già detto, a quelle demografiche, che mostrano un formidabile invecchiamento della popolazione (ma il peggio verrà nei prossimi dieci anni), a tutti gli indici non tradizionali di competitività, sui quali il rapporto a lungo si sofferma. Guardiamo, quanto a reddito reale, direttamente in faccia quelli che orgogliosamente ci sovrastavano solo vent'anni fa, e questo malgrado lavoriamo in pochi e male, mandiamo i nostri figli a scuola per molti meno anni di tutti gli altri, dedichiamo assai meno risorse dei nostri simili, ma anche di paesi molto meno ricchi di noi, alla ricerca, occupiamo in tale settore una frazione di forza lavoro assai inferiore, e ci siamo ormai stabilmente specializzati nella produzione ed esportazione di merci tipiche di paesi assai meno sviluppati del nostro, malgrado la struttura delle nostre importazioni si riveli del tutto simile a quella degli altri paesi ricchi (tranne, come si sa, il Giappone, che è un caso a parte) e, come si è detto, gran parte dei nostri investimenti fissi siano, come in Germania e Francia, dedicati a sostituire la manodopera con macchine sempre più automatizzate . Terra di contraddizioni, dunque, l'Italia esaminata dall'Ocse. Nella quale maggiori ostacoli che altrove si misurano quanto alla facilità di esercitare l'attività imprenditoriale, il diritto di proprietà viene assai male difeso nelle corti di giustizia, che comunque hanno il primato Ocse della lentezza dei procedimenti, e ciononostante esiste, e si rinnova gagliardamente ogni anno, una massa di piccoli imprenditori assai maggiore che negli altri paesi ricchi, e un numero inusitato di lavoratori autonomi continua a crescere e prosperare, specie a Mezzogiorno, dove tutti i difetti rilevati dall'Ocse appaiono ingranditi. Devono essere uomini e donne eccezionali, ed eccezionalmente motivati, i nostri neoimprenditori, per resistere a tanto poderosi disincentivi! Così come mostrano fibra eccezionale i nostri ricercatori che, nota sempre il Rapporto, riescono nonostante siano ormai quattro gatti senza soldi, a pubblicare nelle migliori riviste internazionali a un tasso superato solo da quelli del Canada, che ben altre risorse ricevono da una patria non matrigna. D'altronde una recente ricerca ha mostrato che, tra i centoventi scienziati più citati al mondo, che lavorano fuori degli Stati Uniti, gli italiani sono sette, numero enorme rispetto alle risorse a loro disponibili, e che altro elemento che va contro la retorica corrente ben due di essi lavorano all'università La Sapienza di Roma, mentre solo uno, e lì trasferito da poco, opera a Milano, al San Raffaele. L'unico indicatore istituzionale favorevole che l'Ocse riesce a trovare in tema di educazione riguarda le scuole elementari, dove resiste un rapporto maestre/scolari assai superiore a quello che vige nei principali paesi europei. Sarà stato anche dettato da volgari motivi di piena occupazione di una massa di insegnanti restati senza alunni per via del crollo demografico, ma sembra funzionare, dato che porta tutti gli scolari alla licenza elementare e, pare, li attrezzi adeguatamente per gli studi successivi. Dopo le elementari, tutti i dati comparativi ci sono contro, in un crescendo che diviene particolarmente cupo a livello universitario e postuniversitario. E tuttavia resta il reddito procapite, resta la struttura delle importazioni degna di una specializzazione produttiva assai più moderna della nostra, resta l'efficienza di quei pochi ricercatori che ancora resistono, resta la capacità, mostrata nell'ultimo decennio, dalla classe dirigente e dal popolo di tornare indietro dall'orlo dell'abisso al quale eravamo tutti insieme, coralmente, giunti nel decennio dell'"Italia da bere", della "quinta potenza industriale" del Dollaro a 1100 lire. Risvegliatasi, l'Italia è riuscita a stringere i denti e la cintola, a riportare il deficit pubblico a livelli da paese civile, risanare il bilancio essenzialmente tramite l'aumento della pressione fiscale, specie sui redditi da lavoro dipendente e tramite le imposte indirette, mettere il sistema pensionistico sui binari di una quasinormalità, e infine agganciare anche l'euro, senza il quale oggi saremmo a fare i conti, nel mare in tempesta del sistema finanzario internazionale, con le conseguenze di un debito pubblico di dimensioni relative senza uguali tra i paesi sviluppati ( a eccezione del consueto Giappone) . Che fare, allora, di fronte all'esauriente quadro dipinto di noi dall'Ocse? Rallegrarsi per i motivi enunciati, con qualche ironia, qui sopra, o preoccuparci, come ci invitano a fare gli stimati collaboratori di Ignazio Visco? Dipende, come al solito, dai punti di vista. Se apparteniamo al ceto dei piccoli imprenditori, dei pensionati a cinquant'anni che lavorano in nero, e in genere di tutti i pensionati che ricevono molto di più di quel poco o pochissimo che hanno dato come contributi, dei delocalizzatori di imprese a Timisoara, è naturale non essere insoddisfatti da come sono andate le cose e prevedere che continueranno ad andare nella stessa direzione. Ma il messaggio dell'Ocse riguarda proprio il futuro. Attenti, sembra dire il rapporto, la discrasia tra reddito procapite e dinamica recente degli altri indicatori economici sembra volervi comunicare che vi state mangiando la semente, adoperando tutti i vantaggi ereditati da un passato dinamico per far fronte alla assai minore dinamicità sociale ed economica recente del vostro paese, che rischia di divenire ancor più carente nei prossimi dieci anni. E' un messaggio profondamente allarmato e allarmante, quello degli economisti di Parigi. Tra poco, infatti, la diminuzione delle nascite diverrà, da fonte di risparmio che è stata, un costo per il paese, affrontabile solo con una massiccia immigrazione, che nessuno sembra veramente desiderare. La stasi decennale nella costruzione di infrastrutture deve presto invertirsi, prima che sia troppo tardi, come mostra lo smog delle città e la strozzatura dei trafori alpini, per fare solo due esempi tratti dalla cronaca attuale. Le autostrade sono al collasso, i ponti che furono vanto dell'ingegneria italiana del cemento armato hanno quasi cinquant'anni e, com'è noto, il cemento ha una sgradevole tendenza a scindersi negli elementi che lo compongono, se non è stato compresso a regola d'arte. E le barre d'acciaio che contiene, se fuse col metodo del riscaldamento elettrico dei rottami, caro ai bresciani d'antan, anch'esse tendono a scadere, col tempo, per la incoerenza dei materiali rottamati di cui sono composte. La ricerca italiana, come mostra il professor Rizzuto, direttore del sincrotrone di Trieste, in un eccellente suo articolo, ha mantenuto gli standard di eccellenza ritirandosi in angoli di pura speculazione teorica per far fronte alla continua diminuzione di fondi degli ultimi dieci anni, colloquiando coi colleghi stranieri, ma tra un po' rischia di scomparire, per l'elevata età di chi la conduce e per la impossibilità , in assenza di adeguati flussi di ricambio, di mantenere una comunità di ricerca al disotto delle dimensioni minime critiche. Inoltre, dice lo stesso Rizzuto, l'università italiana laurea ogni anno duecentomila giovani in meno rispetto a inglesi e francesi, a parità di popolazioni. Un trend del genere, se dura per altri dieci anni, rischia di allontanarci definitivamente dall'Europa dei nostri partner, dove persino i parvenue, come spagnoli, finlandesi e irlandesi, stanno facendo passi da gigante per acquisire capacità scientifiche di primo livello, e lo fanno senza badare a spese, cioè nel modo di chi crede veramente nel futuro. Ossessionati dalla necessità di risalire la china che portava all'abisso, i governi dell'ultimo decennio hanno tagliato dove hanno potuto, senza sollevare rivolte sociali, cioè i fondi a educazione e ricerca. Ora tutti i nodi giungono al pettine, ma non sembra che, cullandosi nel diffuso benessere del quale i dati sul reddito pro<\->capite sono testimoni ingannatori, l'attuale governo mostri un desiderio più vivo di quelli che lo hanno preceduto di occuparsi del problema. Stiamo tagliando gli olivi; da dove, in futuro, prenderemo l 'olio, che è la vita, e con che lo pagheremo? ---------------------------------------------------------------------------- ----
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