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keynes per oggi
- Subject: keynes per oggi
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 15 Jan 2002 06:39:49 +0100
dal manifesto 09 Gennaio 2002 Un valore d'uso chiamato Lord Keynes LUIGI CAVALLARO Agrande richiesta, si potrebbe dire, lord Keynes è di nuovo in libreria. Il merito è della casa editrice Laterza, che del grande economista inglese ha da poco ripubblicato un'ottima antologia di scritti (Come uscire dalla crisi, a cura e con un'introduzione di P. Sabbatini, pp. XLIV-137, 14,46 euro), i quali - benché quasi tutti anteriori alla pubblicazione della General Theory, datando per lo più fra il 1930 e il 1934 - rappresentano un prezioso viatico alla comprensione del suo lascito teorico e soprattutto politico, che poco o nulla ha a che fare col "keynesismo di guerra" di cui si straparla dopo l'11 settembre. Insisto sull'aspetto "politico" del lascito, prima ancora che su quello teorico, perché la grandezza di Keynes si misura innanzi tutto come animale politico. Convinto com'era del fatto che l'economia fosse una "scienza morale", piuttosto che una scienza sperimentale ("è come se la caduta al suolo della mela dipendesse dalle motivazioni della mela, dalla convenienza di quest'evento, dal desiderio della terra di ricevere la mela e dagli errori compiuti dalla mela nel calcolare la sua distanza dal centro della terra", scrisse in una lettera a Roy Harrod), la sua fu in certo qual modo una "predicazione", prima ancora che una rivoluzione scientifica. Una predicazione, beninteso, attenta a non scadere mai nella pura testimonianza, ma al contempo per nulla disponibile a baratti sui principî e, per di più, sempre condotta con un'attenzione particolare al registro retorico, sapientemente modulato sul filo di irriverenti paradossi, boutades e motteggi capaci di ridicolizzare il più fiero avversario. Veramente nel confronto non c'era chi potesse resistergli: perfino Bertrand Russell osservò una volta che non c'era occasione che si misurasse con Keynes senza ritrarne l'impressione di aver fatto la figura dello stupido. Proprio questa particolare modalità d'espressione, pienamente percepibile (e aggiungerei godibile) in tutti e in ciascuno dei saggi inclusi in questa raccolta, è stata oggetto di aspre critiche da parte di avversari e anche di ammiratori, imputandosi a Keynes di avervi fatto ricorso talora per mascherare intrinseche debolezze della sua argomentazione teorica, talora per propagandare come novità strabilianti tenui restyling dell'ortodossia. In realtà, non è così. Senza per ora entrare nel merito dell'effettiva portata della "rivoluzione keynesiana", il punto è che Keynes si trovò a doversi confrontare non soltanto con una teoria che riteneva sbagliata, ma con l'intero corpo delle convenzioni etiche che su quella teoria erano state edificate, e che predicavano le virtù del risparmio (anzi, dell'"astinenza": e ognuno sentirà qui riecheggiare voci udite dal pulpito), della libera iniziativa e, naturalmente, della moderazione salariale. E se può essere relativamente facile aver ragione di una costruzione teorica resa malferma da una o più evidenze empiriche di segno contrario (e questa, grosso modo, era la situazione dell'ortodossia dominante di fronte agli eccezionali livelli della disoccupazione degli anni Trenta del secolo scorso), la battaglia diventa difficile quando entra in gioco la morale, col suo carico di interdetti e tabù: perché l'etico è il regno dell'assoluto, che non accetta di essere messo in discussione da una qualsiasi riottosa empiria, traendo anzi spunto da questa per riconfermarsi sub specie di "sanzione". Proprio come facevano ai tempi di Keynes gli economisti ortodossi, quando additavano a causa della disoccupazione i salari a loro dire ancora "troppo elevati", nonostante ogni ulteriore diminuzione di essi si traducesse in ulteriori cadute della domanda, del reddito e dell'occupazione stessa. E' questo il motivo che spinge Keynes, da acuto lettore di Freud, a ricorrere con frequenza allora inusitata al "motto di spirito". In quanto intreccio compromissorio di contenuti socialmente accettabili con altri socialmente trasgressivi, egli lo individua come "cavallo di Troia" indispensabile per denunciare col massimo vigore le aberrazioni dell'ortodossia, evitando al contempo l'ostracismo della "cittadella" dei benpensanti. La via traversa delle tecniche di "condensazione" e di "spostamento" (delle metafore e delle metonimie, come dirà Lacan) gli si rivela come l'unico modo per poter dire l'"indicibile": e cioè che "il decadente capitalismo, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra, non sta avendo molto successo. Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo". E' così che, sull'austero Times, dopo aver paragonato l'impasse in cui si trovavano le economie capitalistiche avanzate alla situazione di due automobilisti incrociatisi nel mezzo di una strada e incapaci di capire come andare avanti senza scontrarsi (perché nessuno sa da che lato spostarsi per passare e lasciar passare l'altro), Keynes può paragonare il deficit spending ad un "espediente grazie al quale ciascuno si muove simultaneamente un po' più sulla propria sinistra". E' così che, in una conversazione radiofonica alla Bbc sulla pianificazione (un esperimento allora tentato solo dai sovietici e dai fascisti e ritenuto dai più del tutto incompatibile con i principî di una comunità democratica), egli può affermare senza timore che gli piacerebbe "tentare di verificare se non sia possibile godere dei vantaggi di entrambi i mondi", vale a dire dei vantaggi della pianificazione e di quelli della democrazia. E' così che, in una lettera al presidente americano Roosevelt (pubblicata sul New York Times), il nostro giunge a sostenere che aumentare la quantità di moneta per far sì che produzione e reddito crescano (un rimedio, si badi, tutt'ora sostenuto dalla restaurata ortodossia) "è come cercare di diventare grassi comprando una cinta più larga". Ed è così che, in una conferenza tenuta all'University College di Dublino (poi pubblicata su The New Statesman and Nation), egli può perfino irridere il "criterio del tornaconto finanziario come test per valutare l'opportunità di intraprendere un'iniziativa di natura sia privata che pubblica", definendolo frutto di "una astratta mentalità contabile", incapace di comprendere "che l'intero paese sarebbe sicuramente più ricco se il macchinario non utilizzato e gli uomini disoccupati fossero impiegati per la costruzione delle case di cui c'è bisogno piuttosto che ricevere un aiuto per rimanere oziosi". Sennonché, proprio come nel motto di spirito si ripresentano quei pensieri che, appena affacciati alla soglia della nostra coscienza, sono stati abbandonati all'elaborazione inconscia perché socialmente vietati, allo stesso modo dalla pagina keynesiana riaffiora quel contenuto "trasgressivo" dell'ordine sociale costituito che ne fa, ancor oggi, una lettura imprescindibile per chiunque, riformista o rivoluzionario, non voglia limitarsi a (o compiacersi di) fare della pura testimonianza. "Una volta che ci sia concesso di disubbidire al test di profittabilità di un contabile, cominceremo a cambiare la nostra civiltà", scrive Keynes nel 1933. E ha ragione, giacché - come abbiamo potuto constatare nei settant'anni trascorsi da allora (anche se pochi, specie a sinistra, se ne sono realmente accorti) - in tal modo si comincia, né più e né meno, a trascendere la forma capitalistica della riproduzione sociale. Sulla base di quest'ultima, infatti, il denaro può essere speso soltanto se, a seguito del processo di produzione, il capitalista ottiene un'aggiunta al valore iniziale, sub specie di profitto monetario; Keynes invece spinge consapevolmente lo stato a spendere anche se non vi sono prospettive di profitto monetario. Il motivo è semplice: nel momento in cui lo stato si dà carico di organizzare direttamente il processo produttivo, i lavoratori che esso impiega, pur figurando come "salariati", realizzano un prodotto o un servizio che, in quanto evocato dalla comunità per soddisfare un proprio bisogno riproduttivo, possiede per essa (cioè per quanti si pongono come suoi membri) un'utilità immediata. Pensare di ottenere un "profitto monetario" è, anzi, letteralmente un nonsenso, perché cambia la stessa base della riproduzione: gli "enormi vantaggi" resi possibili dalla pianificazione statuale in materia di "programmazione urbanistica" o di "conservazione dell'ambiente naturale", dice Keynes, si riverberano "sulla comunità", quindi la comunità è posta, almeno su un piano potenziale, in condizione di soddisfare suoi bisogni attraverso un lavoro che essa stessa ha evocato, mentre (come ci ha spiegato Marx) il presupposto perché la ricchezza materiale assuma la forma di merce e perché acquistino un significato "le consuete verifiche basate sul denaro" è che il possessore di quella ricchezza si riferisca ad essa come a un "non valore d'uso". E' questo il motivo per cui il prodotto del lavoro dei dipendenti dello Stato (eccezion fatta, ovviamente, per quelli addetti alle imprese di proprietà statale), ad onta della forma salariata che assume la prestazione di tale attività, non ha più forma di merce e, conseguentemente, non deve più scambiarsi con denaro per ottenere il carattere di "prodotto sociale": i beni e i servizi prodotti dallo stato, che sono valori d'uso la cui creazione si rende possibile solo mediante il suo intervento, appartengono "di diritto" ai suoi membri, vale a dire ai cittadini. Lo stato, insomma, non deve più "vendere" istruzione o sanità, nel senso specifico che non gli è richiesto di compiere ex post il "salto mortale" della convalida dei propri prodotti attraverso il denaro, perché può apprestarli come valori d'uso sulla base di una preventiva programmazione che tenga conto ex ante delle risorse (materiali) disponibili e dei bisogni dei destinatari del servizio. Sta qui il motivo ultimo di quella pratica (diversamente inspiegabile) della contabilità nazionale, che consiste nel classificare i valori d'uso prodotti dallo stato come "beni e servizi non destinati alla vendita": nel principio per cui dei servizi statali - primi fra tutti i servizi del welfare - deve fruirsi per "diritto". Ed è appena il caso di notare che senza questo mutamento nel modo di porre come sociali i valori d'uso scaturiti dal processo sociale di produzione non sarebbe stato possibile, ovviamente, il proliferare dei cosiddetti "diritti sociali" (al lavoro, allo studio, all'assistenza in caso di disoccupazione involontaria, malattia e vecchiaia ecc.), che abbiamo visto dispiegarsi nelle costituzioni europee e nelle carte dei diritti del secondo dopoguerra. Uno dei miti regressivi prodotti dalla cosiddetta "globalizzazione" consiste nella credenza nella sopravvenuta inefficacia di qualsiasi politica economica nazionale. In realtà, basta riflettere sul fatto che in tutti i paesi economicamente avanzati circa la metà del pil è ascrivibile all'azione dei pubblici poteri per accorgersi che si tratta di una (pericolosa) sciocchezza: lo stato gioca ancora un ruolo significativo, non solo per quanto concerne la regolazione dell'attività economica, ma anche per quanto più strettamente riguarda l'allocazione delle risorse materiali e umane. Piuttosto, ci si trova innanzi ad un tentativo squisitamente politico di comprimere i margini operativi di entrambe, giustificato con la presunta inefficacia (o peggio, con l'efficacia distorsiva) di esse. A favorire la diffusione di simili stupidaggini anche fra molti "antagonisti", indubbiamente, ci sono evidenti limiti che l'esperienza ha messo in luce nell'azione pubblica: la burocratizzazione, la cosiddetta regulatory capture (ossia il fatto che lo stato regolatore è spesso "catturato" da interessi particolari e legifera in pro di questi), soprattutto la difficoltà di una partecipazione consapevole ai processi decisionali che involgono scelte collettive. Prendere atto dell'esistenza di tali limiti è certo necessario, ma non ha nulla a che fare con certo estremismo di maniera, che viceversa si compiace che il welfare state sia stato gettato alle ortiche. Proprio per ciò, suggerirei di accompagnare la lettura dell'antologia keynesiana con altri due volumi freschi di stampa. Il primo è Sbilanciamoci! (manifestolibri, pp. 279, 15,49 euro). Frutto dell'omonima campagna promossa da più di trenta associazioni aderenti al "movimento dei movimenti" (epperò convinte della difficoltà di "costruire un percorso di cambiamento sui temi globali" e della necessità di sviluppare "questo stesso percorso di cambiamento [...] a livello delle politiche e dell'economia nazionale", a cominciare dalla Finanziaria 2002), questo rapporto reca un sottotitolo - "come usare la spesa pubblica per la società, l'ambiente, la pace" - che vale meglio di cento discorsi a capire la rilevanza teorica e soprattutto politica della lezione keynesiana circa lo state planning. Del secondo, invece, è autore Joseph Stiglitz (In un mondo imperfetto, Donzelli, pp. 104, 8,26 euro), fresco di Nobel per l'economia, e racchiude la lecture da lui pronunciata a Roma un anno fa, dov'era stato invitato su iniziativa dei Ds (che però non sembrano averne tratto benefici). Stiglitz, che essendo stato chief economist presso la Banca mondiale non può certo essere tacciato di ignorare gli effetti della "globalizzazione", così conclude la sua riflessione: "C'è una teoria economica, una base empirica, una base scientifica, dietro le politiche che propugnano un ruolo più che minimale per lo Stato. Per troppo tempo l'ideologia della destra ha guidato la definizione del ruolo economico dello stato. E' arrivato il tempo ora di cercare di formulare alcune visioni alternative del ruolo economico dello stato in questo secolo, visioni basate sull'uso della scienza economica, ma motivate dall'impegno per la giustizia sociale e la democrazia". Se lo dice lui...
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