keynes per oggi



dal manifesto

     
    
 

09 Gennaio 2002 
  
 
  
Un valore d'uso chiamato Lord Keynes 
LUIGI CAVALLARO 

Agrande richiesta, si potrebbe dire, lord Keynes è di nuovo in libreria. Il
merito è della casa editrice Laterza, che del grande economista inglese ha
da poco ripubblicato un'ottima antologia di scritti (Come uscire dalla
crisi, a cura e con un'introduzione di P. Sabbatini, pp. XLIV-137, 14,46
euro), i quali - benché quasi tutti anteriori alla pubblicazione della
General Theory, datando per lo più fra il 1930 e il 1934 - rappresentano un
prezioso viatico alla comprensione del suo lascito teorico e soprattutto
politico, che poco o nulla ha a che fare col "keynesismo di guerra" di cui
si straparla dopo l'11 settembre.
Insisto sull'aspetto "politico" del lascito, prima ancora che su quello
teorico, perché la grandezza di Keynes si misura innanzi tutto come animale
politico. Convinto com'era del fatto che l'economia fosse una "scienza
morale", piuttosto che una scienza sperimentale ("è come se la caduta al
suolo della mela dipendesse dalle motivazioni della mela, dalla convenienza
di quest'evento, dal desiderio della terra di ricevere la mela e dagli
errori compiuti dalla mela nel calcolare la sua distanza dal centro della
terra", scrisse in una lettera a Roy Harrod), la sua fu in certo qual modo
una "predicazione", prima ancora che una rivoluzione scientifica.
Una predicazione, beninteso, attenta a non scadere mai nella pura
testimonianza, ma al contempo per nulla disponibile a baratti sui principî
e, per di più, sempre condotta con un'attenzione particolare al registro
retorico, sapientemente modulato sul filo di irriverenti paradossi,
boutades e motteggi capaci di ridicolizzare il più fiero avversario.
Veramente nel confronto non c'era chi potesse resistergli: perfino Bertrand
Russell osservò una volta che non c'era occasione che si misurasse con
Keynes senza ritrarne l'impressione di aver fatto la figura dello stupido.
Proprio questa particolare modalità d'espressione, pienamente percepibile
(e aggiungerei godibile) in tutti e in ciascuno dei saggi inclusi in questa
raccolta, è stata oggetto di aspre critiche da parte di avversari e anche
di ammiratori, imputandosi a Keynes di avervi fatto ricorso talora per
mascherare intrinseche debolezze della sua argomentazione teorica, talora
per propagandare come novità strabilianti tenui restyling dell'ortodossia.

In realtà, non è così. Senza per ora entrare nel merito dell'effettiva
portata della "rivoluzione keynesiana", il punto è che Keynes si trovò a
doversi confrontare non soltanto con una teoria che riteneva sbagliata, ma
con l'intero corpo delle convenzioni etiche che su quella teoria erano
state edificate, e che predicavano le virtù del risparmio (anzi,
dell'"astinenza": e ognuno sentirà qui riecheggiare voci udite dal
pulpito), della libera iniziativa e, naturalmente, della moderazione
salariale. E se può essere relativamente facile aver ragione di una
costruzione teorica resa malferma da una o più evidenze empiriche di segno
contrario (e questa, grosso modo, era la situazione dell'ortodossia
dominante di fronte agli eccezionali livelli della disoccupazione degli
anni Trenta del secolo scorso), la battaglia diventa difficile quando entra
in gioco la morale, col suo carico di interdetti e tabù: perché l'etico è
il regno dell'assoluto, che non accetta di essere messo in discussione da
una qualsiasi riottosa empiria, traendo anzi spunto da questa per
riconfermarsi sub specie di "sanzione". Proprio come facevano ai tempi di
Keynes gli economisti ortodossi, quando additavano a causa della
disoccupazione i salari a loro dire ancora "troppo elevati", nonostante
ogni ulteriore diminuzione di essi si traducesse in ulteriori cadute della
domanda, del reddito e dell'occupazione stessa.
E' questo il motivo che spinge Keynes, da acuto lettore di Freud, a
ricorrere con frequenza allora inusitata al "motto di spirito". In quanto
intreccio compromissorio di contenuti socialmente accettabili con altri
socialmente trasgressivi, egli lo individua come "cavallo di Troia"
indispensabile per denunciare col massimo vigore le aberrazioni
dell'ortodossia, evitando al contempo l'ostracismo della "cittadella" dei
benpensanti. La via traversa delle tecniche di "condensazione" e di
"spostamento" (delle metafore e delle metonimie, come dirà Lacan) gli si
rivela come l'unico modo per poter dire l'"indicibile": e cioè che "il
decadente capitalismo, internazionale ma individualistico, nelle cui mani
ci siamo trovati dopo la guerra, non sta avendo molto successo. Non è
intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come
dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo".

E' così che, sull'austero Times, dopo aver paragonato l'impasse in cui si
trovavano le economie capitalistiche avanzate alla situazione di due
automobilisti incrociatisi nel mezzo di una strada e incapaci di capire
come andare avanti senza scontrarsi (perché nessuno sa da che lato
spostarsi per passare e lasciar passare l'altro), Keynes può paragonare il
deficit spending ad un "espediente grazie al quale ciascuno si muove
simultaneamente un po' più sulla propria sinistra". E' così che, in una
conversazione radiofonica alla Bbc sulla pianificazione (un esperimento
allora tentato solo dai sovietici e dai fascisti e ritenuto dai più del
tutto incompatibile con i principî di una comunità democratica), egli può
affermare senza timore che gli piacerebbe "tentare di verificare se non sia
possibile godere dei vantaggi di entrambi i mondi", vale a dire dei
vantaggi della pianificazione e di quelli della democrazia.
E' così che, in una lettera al presidente americano Roosevelt (pubblicata
sul New York Times), il nostro giunge a sostenere che aumentare la quantità
di moneta per far sì che produzione e reddito crescano (un rimedio, si
badi, tutt'ora sostenuto dalla restaurata ortodossia) "è come cercare di
diventare grassi comprando una cinta più larga". Ed è così che, in una
conferenza tenuta all'University College di Dublino (poi pubblicata su The
New Statesman and Nation), egli può perfino irridere il "criterio del
tornaconto finanziario come test per valutare l'opportunità di
intraprendere un'iniziativa di natura sia privata che pubblica",
definendolo frutto di "una astratta mentalità contabile", incapace di
comprendere "che l'intero paese sarebbe sicuramente più ricco se il
macchinario non utilizzato e gli uomini disoccupati fossero impiegati per
la costruzione delle case di cui c'è bisogno piuttosto che ricevere un
aiuto per rimanere oziosi".
Sennonché, proprio come nel motto di spirito si ripresentano quei pensieri
che, appena affacciati alla soglia della nostra coscienza, sono stati
abbandonati all'elaborazione inconscia perché socialmente vietati, allo
stesso modo dalla pagina keynesiana riaffiora quel contenuto "trasgressivo"
dell'ordine sociale costituito che ne fa, ancor oggi, una lettura
imprescindibile per chiunque, riformista o rivoluzionario, non voglia
limitarsi a (o compiacersi di) fare della pura testimonianza. "Una volta
che ci sia concesso di disubbidire al test di profittabilità di un
contabile, cominceremo a cambiare la nostra civiltà", scrive Keynes nel
1933. E ha ragione, giacché - come abbiamo potuto constatare nei
settant'anni trascorsi da allora (anche se pochi, specie a sinistra, se ne
sono realmente accorti) - in tal modo si comincia, né più e né meno, a
trascendere la forma capitalistica della riproduzione sociale. Sulla base
di quest'ultima, infatti, il denaro può essere speso soltanto se, a seguito
del processo di produzione, il capitalista ottiene un'aggiunta al valore
iniziale, sub specie di profitto monetario; Keynes invece spinge
consapevolmente lo stato a spendere anche se non vi sono prospettive di
profitto monetario.

Il motivo è semplice: nel momento in cui lo stato si dà carico di
organizzare direttamente il processo produttivo, i lavoratori che esso
impiega, pur figurando come "salariati", realizzano un prodotto o un
servizio che, in quanto evocato dalla comunità per soddisfare un proprio
bisogno riproduttivo, possiede per essa (cioè per quanti si pongono come
suoi membri) un'utilità immediata. Pensare di ottenere un "profitto
monetario" è, anzi, letteralmente un nonsenso, perché cambia la stessa base
della riproduzione: gli "enormi vantaggi" resi possibili dalla
pianificazione statuale in materia di "programmazione urbanistica" o di
"conservazione dell'ambiente naturale", dice Keynes, si riverberano "sulla
comunità", quindi la comunità è posta, almeno su un piano potenziale, in
condizione di soddisfare suoi bisogni attraverso un lavoro che essa stessa
ha evocato, mentre (come ci ha spiegato Marx) il presupposto perché la
ricchezza materiale assuma la forma di merce e perché acquistino un
significato "le consuete verifiche basate sul denaro" è che il possessore
di quella ricchezza si riferisca ad essa come a un "non valore d'uso".
E' questo il motivo per cui il prodotto del lavoro dei dipendenti dello
Stato (eccezion fatta, ovviamente, per quelli addetti alle imprese di
proprietà statale), ad onta della forma salariata che assume la prestazione
di tale attività, non ha più forma di merce e, conseguentemente, non deve
più scambiarsi con denaro per ottenere il carattere di "prodotto sociale":
i beni e i servizi prodotti dallo stato, che sono valori d'uso la cui
creazione si rende possibile solo mediante il suo intervento, appartengono
"di diritto" ai suoi membri, vale a dire ai cittadini. Lo stato, insomma,
non deve più "vendere" istruzione o sanità, nel senso specifico che non gli
è richiesto di compiere ex post il "salto mortale" della convalida dei
propri prodotti attraverso il denaro, perché può apprestarli come valori
d'uso sulla base di una preventiva programmazione che tenga conto ex ante
delle risorse (materiali) disponibili e dei bisogni dei destinatari del
servizio.
Sta qui il motivo ultimo di quella pratica (diversamente inspiegabile)
della contabilità nazionale, che consiste nel classificare i valori d'uso
prodotti dallo stato come "beni e servizi non destinati alla vendita": nel
principio per cui dei servizi statali - primi fra tutti i servizi del
welfare - deve fruirsi per "diritto". Ed è appena il caso di notare che
senza questo mutamento nel modo di porre come sociali i valori d'uso
scaturiti dal processo sociale di produzione non sarebbe stato possibile,
ovviamente, il proliferare dei cosiddetti "diritti sociali" (al lavoro,
allo studio, all'assistenza in caso di disoccupazione involontaria,
malattia e vecchiaia ecc.), che abbiamo visto dispiegarsi nelle
costituzioni europee e nelle carte dei diritti del secondo dopoguerra.
Uno dei miti regressivi prodotti dalla cosiddetta "globalizzazione"
consiste nella credenza nella sopravvenuta inefficacia di qualsiasi
politica economica nazionale. In realtà, basta riflettere sul fatto che in
tutti i paesi economicamente avanzati circa la metà del pil è ascrivibile
all'azione dei pubblici poteri per accorgersi che si tratta di una
(pericolosa) sciocchezza: lo stato gioca ancora un ruolo significativo, non
solo per quanto concerne la regolazione dell'attività economica, ma anche
per quanto più strettamente riguarda l'allocazione delle risorse materiali
e umane. Piuttosto, ci si trova innanzi ad un tentativo squisitamente
politico di comprimere i margini operativi di entrambe, giustificato con la
presunta inefficacia (o peggio, con l'efficacia distorsiva) di esse.

A favorire la diffusione di simili stupidaggini anche fra molti
"antagonisti", indubbiamente, ci sono evidenti limiti che l'esperienza ha
messo in luce nell'azione pubblica: la burocratizzazione, la cosiddetta
regulatory capture (ossia il fatto che lo stato regolatore è spesso
"catturato" da interessi particolari e legifera in pro di questi),
soprattutto la difficoltà di una partecipazione consapevole ai processi
decisionali che involgono scelte collettive. Prendere atto dell'esistenza
di tali limiti è certo necessario, ma non ha nulla a che fare con certo
estremismo di maniera, che viceversa si compiace che il welfare state sia
stato gettato alle ortiche.
Proprio per ciò, suggerirei di accompagnare la lettura dell'antologia
keynesiana con altri due volumi freschi di stampa. Il primo è
Sbilanciamoci! (manifestolibri, pp. 279, 15,49 euro). Frutto dell'omonima
campagna promossa da più di trenta associazioni aderenti al "movimento dei
movimenti" (epperò convinte della difficoltà di "costruire un percorso di
cambiamento sui temi globali" e della necessità di sviluppare "questo
stesso percorso di cambiamento [...] a livello delle politiche e
dell'economia nazionale", a cominciare dalla Finanziaria 2002), questo
rapporto reca un sottotitolo - "come usare la spesa pubblica per la
società, l'ambiente, la pace" - che vale meglio di cento discorsi a capire
la rilevanza teorica e soprattutto politica della lezione keynesiana circa
lo state planning.
Del secondo, invece, è autore Joseph Stiglitz (In un mondo imperfetto,
Donzelli, pp. 104, 8,26 euro), fresco di Nobel per l'economia, e racchiude
la lecture da lui pronunciata a Roma un anno fa, dov'era stato invitato su
iniziativa dei Ds (che però non sembrano averne tratto benefici). Stiglitz,
che essendo stato chief economist presso la Banca mondiale non può certo
essere tacciato di ignorare gli effetti della "globalizzazione", così
conclude la sua riflessione: "C'è una teoria economica, una base empirica,
una base scientifica, dietro le politiche che propugnano un ruolo più che
minimale per lo Stato. Per troppo tempo l'ideologia della destra ha guidato
la definizione del ruolo economico dello stato. E' arrivato il tempo ora di
cercare di formulare alcune visioni alternative del ruolo economico dello
stato in questo secolo, visioni basate sull'uso della scienza economica, ma
motivate dall'impegno per la giustizia sociale e la democrazia". Se lo dice
lui...