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valori e redditi
- Subject: valori e redditi
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 14 Jan 2002 06:34:02 +0100
da repubblica MERCOLEDÌ, 09 GENNAIO 2002 Stampa questo articolo Così il sistema di valori determina i redditi JEANPAUL FITOUSSI ---------------------------------------------------------------------------- ---- Nell'epoca della globalizzazione e dell'arrivo dell'euro, il moltiplicarsi di conflitti «locali» induce ad interrogarsi sul disagio delle società e sui loro valori. Allo stesso tempo le campagne elettorali future lasciano assai perplessi su questioni che costituiranno argomenti di discussione e che susciteranno uno scontro tra posizioni chiare e pienamente accettate. Si possono formulare due ipotesi per spiegare questo stato di cose. La prima è che le nostre società, essendo diventate "più intelligenti", ma meno facilmente affidabili, hanno compreso che le posizioni estremiste, e perfino quelle troppo nette, comportavano più svantaggi che vantaggi, e che, tutto sommato, era preferibile ripiegare su problemi concreti riguardanti la ripartizione dei redditi tra le varie categorie di dipendenti pubblici. Quanto è giusto dare alle guardie e quanto ai poliziotti? Quanto alle infermiere, ai dipendenti degli ospedali, ai medici dell'assistenza pubblica? Quanto ai lavoratori dell'industria dello spettacolo («la diversità culturale») e delle banche, e quanto a chi lavora nel settore della giustizia? Qualsiasi decisione in proposito modifica la ripartizione dei redditi tra le varie categorie sociali. Ed è proprio questa ripartizione a trovarsi al centro delle attuali rivendicazioni. Si potrebbe ribattere che non vi è nulla di nuovo in queste esigenze, e che qualsiasi decisione politica riguardante un settore o un altro avrebbe influenza sulla ripartizione dei redditi. Esiste tuttavia una sottile evoluzione, forse poco evidente poiché molto graduale. Il vero dibattito pubblico investe la proporzione delle risorse che una società vuole mettere a disposizione dei servizi pubblici e delle altre istituzioni della coesione sociale: l'Educazione, la Sanità, la Giustizia, la Previdenza, la Protezione sociale, la Cultura, l'Amministrazione, eccetera. Calcolando le modalità del loro esercizio, si possono dedurre le remunerazioni relative alle differenti categorie di dipendenti pubblici. La grande differenza consiste allora nel fatto che queste remunerazioni sono insite al sistema di valori che presiede alle scelte sociali, e quindi non sono più insite al rapporto di forza che s'instaura a seconda delle circostanze. La seconda ipotesi è che, proprio perché il sistema di valori su cui si basano le nostre società diventa sempre più vago, le rivendicazioni non possono più fare riferimento ad esso e diventano necessariamente rivendicazioni di categoria e/o di corporazione. Non serve a nulla lamentarsi che ciò avvenga, poiché in realtà le rivendicazioni non hanno altro spazio se non quello per farsi ascoltare. In assenza di una visione globale di scelte che orientino il futuro, l'unico riferimento possibile è la contiguità. Perché è così diverso dal mio il destino di colui che mi è vicino? Si passa così da un principio di "uguaglianzacoesione" – il fondamento stesso della società — ad uno pseudoprincipio di "uguaglianzaindividualismo": perché lui e non io? E' sempre più difficile stabilire una differenza tra le domande legittime e quelle che non lo sono, essendo i corporativismi passati dall'arte di invocare l'interesse generale all'arte di legittimare il loro proprio interesse. D'altra parte tutti i discorsi corporativistici pretendono sempre di servire l'interesse generale. Ma non si è obbligati a credere che sia vero. Pertanto non esistono più motivi perché si arresti il flusso delle rivendicazioni di categoria. «In tutte le società, l'individuotipo persegue costantemente uno scopo che la struttura standard ignora: l'aumento di quello che egli può reclamare come introito a seconda della sua attuale posizione e delle norme di ripartizione. E' il conseguimento di tale scopo a trasformare l'individuo nel vero agente del processo economico». Se si dà ascolto a Nicholas GeorgescuRoegen, si comprende allora per quale motivo la cancellazione delle norme di ripartizione aumenti il peso delle posizioni relative degli individui e dei gruppi, ovvero dei corporativismi o, per dire le cose senza inutili giri di parole, delle rendite. Questa condizione della società è il riflesso di due evoluzioni, ciascuna delle quali effettua un ripiegamento sul breve periodo. La conversione ad una forma di liberalismo mal concepito o le esuberanze di mercato sono oggetto di giudizi intellettuali e rimorsi. Com'è possibile pertanto incitare allo sforzo quando esistono pressoché illimitate potenzialità di guadagni senza sforzo alcuno? Che tali potenzialità siano in realtà più teoriche che effettive non modifica la natura del problema, poiché esse sono strombazzate e pubblicizzate attraverso tutti i mezzi di comunicazione. Se quindi diventare ricchi è così apparentemente facile, così poco in relazione al merito personale, perché io non posso diventarlo? A poco a poco, questo interrogativo si generalizza. Il paradosso consiste nel fatto che questa visione del mercato disincentiva il lavoro, proprio quando il merito principale che è riconosciuto al mercato è quello di fornire adeguati incentivi. Come possono dunque ritrovarsi quelle professioni che esigono studi lunghi e difficili, i medici, i professori, i ricercatori, eccetera? Come si ritroverebbero quelle il cui quotidiano è irto di difficoltà – come le infermiere, i poliziotti, le guardie, eccetera? Non sarebbero caratterizzate forse da un sentimento d'ingiustizia? La seconda evoluzione è la conseguenza di una certa rinuncia da parte del mondo politico a tracciare un cammino preciso. Infatti, la funzione principale della politica è quella di indicare l'avvenire, di mettere in scena il futuro. Come si evolverà il sistema sanitario nel nostro Paese? E quello pertinente l'educazione? Quello della giustizia? Quale principio determinerà la scala delle retribuzioni? Il mercato o il controllo dei prezzi associato al razionamento? Bisogna accontentarsi di una situazione nella quale quanto più i compiti sono essenziali tanto meno sono remunerativi, perché il loro finanziamento pubblico impone delle restrizioni? Oppure bisogna lasciar fare al mercato, privatizzando tutto quello che si può? Si comprende perfettamente che entrambe queste soluzioni comporterebbero degli svantaggi, la prima perché spingerebbe le persone più competenti ad allontanarsi dalle loro professioni, o a rallentare i loro sforzi; la seconda perché porterebbe in un modo o in un altro alla rottura dell'uguaglianza… in nome dell'uguaglianza delle remunerazioni. E' un errore pronunciarsi su tali problemi o non risolverli se non per il timore che il principio di "uguaglianzaindividualismo" si sostituisca progressivamente al principio d'uguaglianza coesione. Perché questi problemi riguardano il lungo termine e la posta in gioco è la riforma dello Stato. Ma si comprende meglio perché una riforma di questo tipo sia così difficile. Non si tratta soltanto, come si sarebbe portati a credere, di ricercare i mezzi tecnici atti ad accrescere l'efficienza dei servizi pubblici e delle altre istituzioni della coesione sociale, denunciando al tempo stesso le resistenze che si incontrano in una o in un'altra amministrazione. Si tratta soprattutto di preparare l'avvenire, di mettere la riforma al servizio di un progetto, di avere un'ambizione che non sia solamente di gestione. Bisogna dunque discuterne con serietà. Quale sistema educativo vogliamo, quale sistema sanitario, pensionistico, di prevenzione? Quanto siamo disposti a pagare per renderli operativi? Mettere in scena il futuro significa esporne con chiarezza le alternative, analizzarne le conseguenze tanto in termini di coesione quanto d'efficienza, e domandare quindi alla popolazione di scegliere. Altrimenti il ripiegamento su se stessi, le rivendicazioni per analogia, le decisioni prese in tutta fretta, finiranno per far sparire progressivamente lo spazio pubblico.
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