valori e redditi



da repubblica

MERCOLEDÌ, 09 GENNAIO 2002 Stampa questo articolo 
  
Così il sistema di valori determina i redditi  
  
  
  
  
JEANPAUL FITOUSSI  

----------------------------------------------------------------------------
----
 
Nell'epoca della globalizzazione e dell'arrivo dell'euro, il moltiplicarsi
di conflitti «locali» induce ad interrogarsi sul disagio delle società e
sui loro valori. Allo stesso tempo le campagne elettorali future lasciano
assai perplessi su questioni che costituiranno argomenti di discussione e
che susciteranno uno scontro tra posizioni chiare e pienamente accettate. 
Si possono formulare due ipotesi per spiegare questo stato di cose. La
prima è che le nostre società, essendo diventate "più intelligenti", ma
meno facilmente affidabili, hanno compreso che le posizioni estremiste, e
perfino quelle troppo nette, comportavano più svantaggi che vantaggi, e
che, tutto sommato, era preferibile ripiegare su problemi concreti
riguardanti la ripartizione dei redditi tra le varie categorie di
dipendenti pubblici. Quanto è giusto dare alle guardie e quanto ai
poliziotti? Quanto alle infermiere, ai dipendenti degli ospedali, ai medici
dell'assistenza pubblica? Quanto ai lavoratori dell'industria dello
spettacolo («la diversità culturale») e delle banche, e quanto a chi lavora
nel settore della giustizia? Qualsiasi decisione in proposito modifica la
ripartizione dei redditi tra le varie categorie sociali. Ed è proprio
questa ripartizione a trovarsi al centro delle attuali rivendicazioni. 
Si potrebbe ribattere che non vi è nulla di nuovo in queste esigenze, e che
qualsiasi decisione politica riguardante un settore o un altro avrebbe
influenza sulla ripartizione dei redditi. Esiste tuttavia una sottile
evoluzione, forse poco evidente poiché molto graduale. Il vero dibattito
pubblico investe la proporzione delle risorse che una società vuole mettere
a disposizione dei servizi pubblici e delle altre istituzioni della
coesione sociale: l'Educazione, la Sanità, la Giustizia, la Previdenza, la
Protezione sociale, la Cultura, l'Amministrazione, eccetera. Calcolando le
modalità del loro esercizio, si possono dedurre le remunerazioni relative
alle differenti categorie di dipendenti pubblici. La grande differenza
consiste allora nel fatto che queste remunerazioni sono insite al sistema
di valori che presiede alle scelte sociali, e quindi non sono più insite al
rapporto di forza che s'instaura a seconda delle circostanze. 
La seconda ipotesi è che, proprio perché il sistema di valori su cui si
basano le nostre società diventa sempre più vago, le rivendicazioni non
possono più fare riferimento ad esso e diventano necessariamente
rivendicazioni di categoria e/o di corporazione. Non serve a nulla
lamentarsi che ciò avvenga, poiché in realtà le rivendicazioni non hanno
altro spazio se non quello per farsi ascoltare. In assenza di una visione
globale di scelte che orientino il futuro, l'unico riferimento possibile è
la contiguità. Perché è così diverso dal mio il destino di colui che mi è
vicino? Si passa così da un principio di "uguaglianzacoesione" – il
fondamento stesso della società — ad uno pseudoprincipio di
"uguaglianzaindividualismo": perché lui e non io? E' sempre più difficile
stabilire una differenza tra le domande legittime e quelle che non lo sono,
essendo i corporativismi passati dall'arte di invocare l'interesse generale
all'arte di legittimare il loro proprio interesse. D'altra parte tutti i
discorsi corporativistici pretendono sempre di servire l'interesse
generale. Ma non si è obbligati a credere che sia vero. 
Pertanto non esistono più motivi perché si arresti il flusso delle
rivendicazioni di categoria. «In tutte le società, l'individuotipo persegue
costantemente uno scopo che la struttura standard ignora: l'aumento di
quello che egli può reclamare come introito a seconda della sua attuale
posizione e delle norme di ripartizione. E' il conseguimento di tale scopo
a trasformare l'individuo nel vero agente del processo economico». Se si dà
ascolto a Nicholas GeorgescuRoegen, si comprende allora per quale motivo la
cancellazione delle norme di ripartizione aumenti il peso delle posizioni
relative degli individui e dei gruppi, ovvero dei corporativismi o, per
dire le cose senza inutili giri di parole, delle rendite. 
Questa condizione della società è il riflesso di due evoluzioni, ciascuna
delle quali effettua un ripiegamento sul breve periodo. La conversione ad
una forma di liberalismo mal concepito o le esuberanze di mercato sono
oggetto di giudizi intellettuali e rimorsi. Com'è possibile pertanto
incitare allo sforzo quando esistono pressoché illimitate potenzialità di
guadagni senza sforzo alcuno? Che tali potenzialità siano in realtà più
teoriche che effettive non modifica la natura del problema, poiché esse
sono strombazzate e pubblicizzate attraverso tutti i mezzi di
comunicazione. Se quindi diventare ricchi è così apparentemente facile,
così poco in relazione al merito personale, perché io non posso diventarlo?
A poco a poco, questo interrogativo si generalizza. 
Il paradosso consiste nel fatto che questa visione del mercato disincentiva
il lavoro, proprio quando il merito principale che è riconosciuto al
mercato è quello di fornire adeguati incentivi. Come possono dunque
ritrovarsi quelle professioni che esigono studi lunghi e difficili, i
medici, i professori, i ricercatori, eccetera? Come si ritroverebbero
quelle il cui quotidiano è irto di difficoltà – come le infermiere, i
poliziotti, le guardie, eccetera? Non sarebbero caratterizzate forse da un
sentimento d'ingiustizia? 
La seconda evoluzione è la conseguenza di una certa rinuncia da parte del
mondo politico a tracciare un cammino preciso. Infatti, la funzione
principale della politica è quella di indicare l'avvenire, di mettere in
scena il futuro. Come si evolverà il sistema sanitario nel nostro Paese? E
quello pertinente l'educazione? Quello della giustizia? Quale principio
determinerà la scala delle retribuzioni? Il mercato o il controllo dei
prezzi associato al razionamento? Bisogna accontentarsi di una situazione
nella quale quanto più i compiti sono essenziali tanto meno sono
remunerativi, perché il loro finanziamento pubblico impone delle
restrizioni? Oppure bisogna lasciar fare al mercato, privatizzando tutto
quello che si può? Si comprende perfettamente che entrambe queste soluzioni
comporterebbero degli svantaggi, la prima perché spingerebbe le persone più
competenti ad allontanarsi dalle loro professioni, o a rallentare i loro
sforzi; la seconda perché porterebbe in un modo o in un altro alla rottura
dell'uguaglianza… in nome dell'uguaglianza delle remunerazioni. 
E' un errore pronunciarsi su tali problemi o non risolverli se non per il
timore che il principio di "uguaglianzaindividualismo" si sostituisca
progressivamente al principio d'uguaglianza coesione. Perché questi
problemi riguardano il lungo termine e la posta in gioco è la riforma dello
Stato. Ma si comprende meglio perché una riforma di questo tipo sia così
difficile. Non si tratta soltanto, come si sarebbe portati a credere, di
ricercare i mezzi tecnici atti ad accrescere l'efficienza dei servizi
pubblici e delle altre istituzioni della coesione sociale, denunciando al
tempo stesso le resistenze che si incontrano in una o in un'altra
amministrazione. Si tratta soprattutto di preparare l'avvenire, di mettere
la riforma al servizio di un progetto, di avere un'ambizione che non sia
solamente di gestione. Bisogna dunque discuterne con serietà. Quale sistema
educativo vogliamo, quale sistema sanitario, pensionistico, di prevenzione?
Quanto siamo disposti a pagare per renderli operativi? Mettere in scena il
futuro significa esporne con chiarezza le alternative, analizzarne le
conseguenze tanto in termini di coesione quanto d'efficienza, e domandare
quindi alla popolazione di scegliere. Altrimenti il ripiegamento su se
stessi, le rivendicazioni per analogia, le decisioni prese in tutta fretta,
finiranno per far sparire progressivamente lo spazio pubblico.