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il buio oltre il logo
- Subject: il buio oltre il logo
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 13 Jan 2002 09:04:53 +0100
dal manifesto 08 Gennaio 2002 Il buio oltre il logo Lo sviluppo del marchio è una tecnica anti-ciclica volta a contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto. La critica al logo non può dunque limitarsi ad una dimensione morale. Necessaria è la critica all'economia politica DOMENICO MORO Nonostante l'accelerazione dei fenomeni di internazionalizzazione dell'economia e la centralità del ruolo che i brand vi ricoprono, secondo un recente studio di AC Nielsen, sono soltanto 43 le marche del largo consumo che possono essere definite effettivamente globali per la loro presenza nelle principali aree economiche mondiali e perché realizzano vendite annuali per almeno un miliardo di dollari. Una analisi dell'assetto proprietario di questi brand, che complessivamente fatturano 125 miliardi di dollari, rivela che dietro di essi ci sono appena 23 grandi multinazionali, che hanno sede soprattutto negli Usa e, in misura minore, in Europa. Tra gli otto europei c'è Kinder, appartenente alla italiana Ferrero. I mercati principali sono Nord America ed Europa, che, compresa nell'Emea insieme al Medio Oriente ed all'Africa, rappresenta il 34% del Pil mondiale e costituisce il mercato principale per 16 brand. Gli europei risultano meno internazionalizzati e con una maggiore presenza nella loro area, ad esempio Guinness e Kinder concentrano in Europa il 90% del loro fatturato e altri come Heineken il 70%. Il mercato nordamericano rimane, invece, quello più importante per ben 24 brand. La classifica per fatturato denota un notevole squilibrio tra le aziende prese in considerazione. Coca-Cola e Marlboro, che superano i 15 miliardi di dollari e Pepsi, posizionata con le sue tre marche tra i 5 ed i 15 miliardi, navigano ben più avanti di tutti gli altri, che oscillano tra 1 e 3 miliardi di dollari. Il tasso di crescita medio dei 43 brand non è particolarmente alto, meno del 10% annuo, specialmente se paragonato a quello del commercio internazionale dei prodotti manifatturieri (14,5% nel 2000). Del resto, lo sviluppo dei brand appare essere meno sostenuto e lineare di quanto spesso ritenuto. Secondo The Economist, 41 dei 74 brand, che sono risultati nella lista dei primi 100 negli ultimi due anni, hanno registrato un decremento e nel loro insieme un calo del 5%. Anche il legame con le marche delle varie classi di consumatori sembra essere sempre meno forte, non solo tra i giovani fra i 20 e i 29 anni la cui fedeltà dichiarata alle marche più conosciute ha subito una flessione dal 66% del 1970 al 59% del 2000, ma anche tra i 60-69enni calati dall'86% al 59%. Lo sviluppo dei brand non è comunque storicamente legato in modo diretto alla globalizzazione, bensì all'affermazione del marketing nelle politiche e nell'organizzazione delle aziende moderne. La nascita di una disciplina specificamente orientata al mercato rispecchia i mutamenti avvenuti nel modo di produzione capitalistico nella sua fase più matura iniziata negli Usa durante gli anni '50-'60 e giunta ad una accelerazione negli anni '90. L'enorme sviluppo delle forze produttive, legato all'applicazione delle innovazioni tecnologiche e di organizzazione del lavoro alla produzione, determina un aumento della produttività e conseguentemente una diminuzione del valore della singola merce che, in tendenza, si traduce in una diminuzione dei prezzi e, in ultima istanza, del saggio di profitto. L'aumento della concorrenza e della concentrazione e centralizzazione dei capitali, legate alla realizzazione di economie di scala, ha determinato così la nascita di mercati oligopolistici, composti da poche grandi e riconosciute aziende, che rappresentano il terreno classico di sviluppo del marketing e dei brand. La necessità di mantenere i prezzi di vendita della merce al di sopra di quelli di produzione e di contendere fette di mercato ai competitor rimasti, in modo da saturare la propria capacità produttiva ammortizzando gli investimenti effettuati, si concretizza nella affermazione di una politica di marchio, tesa sia a giustificare prezzi elevati sia a conquistare nuovi mercati sul piano merceologico, generazionale, del canale distributivo, di segmentazione e, last but not least, geografico. Il marketing viene così a costituire una delle varie tecniche anti-cicliche, tese a contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto, generata dal ricorrente presentarsi della sovrapproduzione di capitale. Non è perciò da meravigliarsi se in occasione del manifestarsi delle fasi acute di questo fenomeno si determina anche una crisi dei brand, che però non ne cancella la funzione specifica, finendo al contrario per esaltarla. D'altro canto non sono poche le aziende tra quelle più attive nella internazionalizzazione, specialmente nel settore delle materie prime, che non fanno del branding una delle proprie leve di espansione. Sviluppo dei brand e del marketing, centralizzazione dei capitali, spostamento della produzione all'estero, creazione del mercato mondiale, crisi ciclica sono fenomeni strettamente collegati ed interdipendenti e soprattutto sono caratteristici dell'imperialismo moderno, ovvero di una nuova fase di maturità del capitale contemporaneo. La marca non può che essere vista come rappresentazione della merce, a sua volta espressione dei rapporti sociali storicamente determinati. La critica alla marca non può, quindi, limitarsi ad una dimensione morale o etica, fondata sull'accentuazione del contrasto stridente tra l'immagine patinata del contemporaneo mondo delle merci e la cruda realtà di sfruttamento e oppressione sottostante. Va,invece, sviluppata una critica politica, intendendo questa come critica dell'economia politica, cioè dei rapporti di produzione esistenti.
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