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il diritto della merce pensante
- Subject: il diritto della merce pensante
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 07 Dec 2001 18:55:19 +0100
dal manifesto 05 Dicembre 2001 L'ARTICOLO 18 Il diritto della "merce" pensante LUIGI CAVALLARO * La richiesta di abolire l'art. 18 è del tutto coerente con la conclamata volontà di ristabilire la logica del mercato. Su un piano squisitamente giusprivatistico - l'unico che si addice a questa logica - non può essere dubbio, infatti, che l'art. 18 dello Statuto rappresenti una stortura giuridica formidabile. Il motivo è presto detto: il rapporto di lavoro è un rapporto obbligatorio di origine contrattuale e, come tutti i rapporti obbligatori scaturenti da un contratto a prestazioni corrispettive, è caratterizzato dal fatto che l'attuazione dell'interesse di ciascuna delle parti dipende dalla cooperazione personale dell'altra parte. Ora, per un elementare principio di civiltà giuridica, gli obblighi di facere infungibili non sono suscettibili di esecuzione in forma specifica: per fare un esempio, se io mi accordo con un pittore perché mi faccia un ritratto e poi lui si rifiuta di farmelo, non posso ottenere una sentenza che lo costringa a dipingere le mie sembianze; la sola cosa che è possibile è che egli venga condannato a risarcire i danni per l'inadempimento mediante il pagamento di una somma di denaro (artt. 1218 e sgg. del codice civile). L'esecuzione forzata del provvedimento giurisdizionale assume in tal caso la forma dell'espropriazione forzata: il patrimonio dell'obbligato (del pittore, in questo caso) può essere, nel rispetto delle forme processuali, aggredito dal creditore e questi può ottenerne la vendita forzata per soddisfarsi prioritariamente sul ricavato. Se si confronta questo quadro con quello tracciato dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, balzano evidenti le deviazioni che quest'ultimo impone allo schema tipico della tutela in caso di inadempimento. Il datore di lavoro che abbia proceduto ad un licenziamento in mancanza di giusta causa o di giustificato motivo non è tenuto soltanto al risarcimento dei danni: subisce, contro la sua volontà, il ripristino del vincolo contrattuale e viene obbligato non solo a corrispondere al lavoratore la retribuzione passata, ma - se decide di non riammetterlo in servizio - anche quella futura: la giurisprudenza è ferma nel costruire il rifiuto di reintegrare il lavoratore in servizio in termini di mora del creditore, per cui il datore di lavoro sopporta le conseguenze della sua mancata cooperazione, restando vincolato alla controprestazione retributiva. Di più: se si ritiene che l'art. 13 dello Statuto dei Lavoratori abbia posto il principio per cui prestare l'attività conforme alle mansioni per le quali si è stati assunti (o quelle superiori eventualmente conseguite) costituisca oggetto di un diritto del lavoratore, e non solo di un suo dovere, c'è spazio per sostenere che il rifiuto di reintegrazione costituisca un'indebita deprivazione della professionalità acquisita, che espone il datore ad ulteriori profili di risarcimento del danno. Vista in quest'ottica, la proposta del governo in carica e dei suoi numerosi corifei, a destra come a sinistra, si presenta come una sorta di "ritorno allo Statuto" (quello albertino, però): visto che il rapporto di lavoro è un rapporto obbligatorio, si preveda, in caso di inadempimento, una misura esclusivamente risarcitoria - anche qui, quel "nudo e freddo pagamento in contanti" in cui la borghesia aveva risolto tutti i "variopinti vincoli" che nell'età feudale astringevano la libera iniziativa individuale. E' facile, infatti, prevedere che all'abolizione dell'art. 18 farebbe seguito una legge che generalizzerebbe la cosiddetta "tutela obbligatoria" (cioè risarcitoria), attualmente operante per il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo nelle imprese con meno di sedici dipendenti; una generalizzazione che, si badi, riguarderebbe anche i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche: non vedo, in effetti, come si potrebbe sostenere una diversa regolamentazione della sanzione per l'illegittimo recesso in presenza di un disegno normativo chiaramente volto ad omogeneizzare le due discipline. Si potrebbe allora domandare: se l'art. 18 rappresenta una deviazione - e così marcata - rispetto alla tutela civilistica dell'inadempimento contrattuale, come si è potuti arrivare alla sua emanazione? Come si è potuto arrivare, cioè, alla previsione di una forma di tutela così radicalmente in contrasto rispetto alla generalità dei rimedi per l'inadempimento? Una risposta non banale potrebbe mettersi in questi termini. L'equiparazione tout court del rapporto di lavoro ai rapporti contrattuali individuali, e il misconoscimento della relazione di classe che ad esso è sottesa, rappresenta lo strumento principe attraverso il quale la borghesia ha fondato nel tempo il suo dominio: lo scambio di energie lavorative versus retribuzione, che connota la causa del contratto di lavoro, non è e non può essere diverso, ai suoi occhi, da qualsiasi altro scambio che avviene sul mercato; diverso è solo l'oggetto dello scambio, ma nell'astrazione dal valore d'uso che domina la circolazione capitalistica delle merci ogni differenza qualitativa scompare e tutto si riduce a valore di scambio (la circolazione, scriveva Marx, essuda soltanto denaro). Ci sono voluti due secoli di lotte del movimento operaio per riconoscere che l'astrazione dello scambio celava un preciso rapporto di produzione: per riconoscere, cioè, che fermare l'attenzione sullo scambio in quanto tale, prescindendo dal suo contenuto - dunque, prescindendo dal fatto che il lavoratore deve vendere non una merce qualunque, ma la sua stessa capacità lavorativa, perché l'insieme dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza gli sta di fronte come proprietà altrui - significava mistificare la fondamentale disuguaglianza che permea il modo di produzione capitalistico, disuguaglianza che (come Keynes avrebbe dimostrato definitivamente) è peraltro all'origine delle endemiche crisi da domanda effettiva di cui esso soffre. L'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è un portato di questa (passata?) temperie storica e culturale; rappresenta una "stortura" che, secondo la felice espressione di Louis Althusser, è stata "imposta" dalle lotte di classe, unitamente agli altri articoli di quel codice "mostruoso" rispetto al codice civile che ha finito con l'essere il "codice del lavoro" (e chissà che non si debba vedere una "dimenticanza" freudiana nel fatto che un "codice del lavoro" non è mai stato formalmente emanato). L'esito di questa battaglia, pertanto, avrà un valore simbolico formidabile: giacché costituirà la spia per verificare lo stato degli equilibri di classe e, prima ancora, se di "classe" (lavoratrice) debba o possa ancora parlarsi nella favoleggiata era della new economy. * Giudice del lavoro presso il Tribunale di Palermo
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