il diritto della merce pensante



dal manifesto

    
    
 
    
 

05 Dicembre 2001 
  
 
  
L'ARTICOLO 18
Il diritto della "merce" pensante 
LUIGI CAVALLARO * 




La richiesta di abolire l'art. 18 è del tutto coerente con la conclamata
volontà di ristabilire la logica del mercato. Su un piano squisitamente
giusprivatistico - l'unico che si addice a questa logica - non può essere
dubbio, infatti, che l'art. 18 dello Statuto rappresenti una stortura
giuridica formidabile. Il motivo è presto detto: il rapporto di lavoro è un
rapporto obbligatorio di origine contrattuale e, come tutti i rapporti
obbligatori scaturenti da un contratto a prestazioni corrispettive, è
caratterizzato dal fatto che l'attuazione dell'interesse di ciascuna delle
parti dipende dalla cooperazione personale dell'altra parte. Ora, per un
elementare principio di civiltà giuridica, gli obblighi di facere
infungibili non sono suscettibili di esecuzione in forma specifica: per
fare un esempio, se io mi accordo con un pittore perché mi faccia un
ritratto e poi lui si rifiuta di farmelo, non posso ottenere una sentenza
che lo costringa a dipingere le mie sembianze; la sola cosa che è possibile
è che egli venga condannato a risarcire i danni per l'inadempimento
mediante il pagamento di una somma di denaro (artt. 1218 e sgg. del codice
civile). L'esecuzione forzata del provvedimento giurisdizionale assume in
tal caso la forma dell'espropriazione forzata: il patrimonio dell'obbligato
(del pittore, in questo caso) può essere, nel rispetto delle forme
processuali, aggredito dal creditore e questi può ottenerne la vendita
forzata per soddisfarsi prioritariamente sul ricavato.
Se si confronta questo quadro con quello tracciato dall'art. 18 dello
Statuto dei Lavoratori, balzano evidenti le deviazioni che quest'ultimo
impone allo schema tipico della tutela in caso di inadempimento. Il datore
di lavoro che abbia proceduto ad un licenziamento in mancanza di giusta
causa o di giustificato motivo non è tenuto soltanto al risarcimento dei
danni: subisce, contro la sua volontà, il ripristino del vincolo
contrattuale e viene obbligato non solo a corrispondere al lavoratore la
retribuzione passata, ma - se decide di non riammetterlo in servizio -
anche quella futura: la giurisprudenza è ferma nel costruire il rifiuto di
reintegrare il lavoratore in servizio in termini di mora del creditore, per
cui il datore di lavoro sopporta le conseguenze della sua mancata
cooperazione, restando vincolato alla controprestazione retributiva. Di
più: se si ritiene che l'art. 13 dello Statuto dei Lavoratori abbia posto
il principio per cui prestare l'attività conforme alle mansioni per le
quali si è stati assunti (o quelle superiori eventualmente conseguite)
costituisca oggetto di un diritto del lavoratore, e non solo di un suo
dovere, c'è spazio per sostenere che il rifiuto di reintegrazione
costituisca un'indebita deprivazione della professionalità acquisita, che
espone il datore ad ulteriori profili di risarcimento del danno.
Vista in quest'ottica, la proposta del governo in carica e dei suoi
numerosi corifei, a destra come a sinistra, si presenta come una sorta di
"ritorno allo Statuto" (quello albertino, però): visto che il rapporto di
lavoro è un rapporto obbligatorio, si preveda, in caso di inadempimento,
una misura esclusivamente risarcitoria - anche qui, quel "nudo e freddo
pagamento in contanti" in cui la borghesia aveva risolto tutti i
"variopinti vincoli" che nell'età feudale astringevano la libera iniziativa
individuale. E' facile, infatti, prevedere che all'abolizione dell'art. 18
farebbe seguito una legge che generalizzerebbe la cosiddetta "tutela
obbligatoria" (cioè risarcitoria), attualmente operante per il
licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo nelle
imprese con meno di sedici dipendenti; una generalizzazione che, si badi,
riguarderebbe anche i rapporti di lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche: non vedo, in effetti, come si potrebbe sostenere
una diversa regolamentazione della sanzione per l'illegittimo recesso in
presenza di un disegno normativo chiaramente volto ad omogeneizzare le due
discipline.
Si potrebbe allora domandare: se l'art. 18 rappresenta una deviazione - e
così marcata - rispetto alla tutela civilistica dell'inadempimento
contrattuale, come si è potuti arrivare alla sua emanazione? Come si è
potuto arrivare, cioè, alla previsione di una forma di tutela così
radicalmente in contrasto rispetto alla generalità dei rimedi per
l'inadempimento? Una risposta non banale potrebbe mettersi in questi
termini. L'equiparazione tout court del rapporto di lavoro ai rapporti
contrattuali individuali, e il misconoscimento della relazione di classe
che ad esso è sottesa, rappresenta lo strumento principe attraverso il
quale la borghesia ha fondato nel tempo il suo dominio: lo scambio di
energie lavorative versus retribuzione, che connota la causa del contratto
di lavoro, non è e non può essere diverso, ai suoi occhi, da qualsiasi
altro scambio che avviene sul mercato; diverso è solo l'oggetto dello
scambio, ma nell'astrazione dal valore d'uso che domina la circolazione
capitalistica delle merci ogni differenza qualitativa scompare e tutto si
riduce a valore di scambio (la circolazione, scriveva Marx, essuda soltanto
denaro).
Ci sono voluti due secoli di lotte del movimento operaio per riconoscere
che l'astrazione dello scambio celava un preciso rapporto di produzione:
per riconoscere, cioè, che fermare l'attenzione sullo scambio in quanto
tale, prescindendo dal suo contenuto - dunque, prescindendo dal fatto che
il lavoratore deve vendere non una merce qualunque, ma la sua stessa
capacità lavorativa, perché l'insieme dei mezzi di produzione e dei mezzi
di sussistenza gli sta di fronte come proprietà altrui - significava
mistificare la fondamentale disuguaglianza che permea il modo di produzione
capitalistico, disuguaglianza che (come Keynes avrebbe dimostrato
definitivamente) è peraltro all'origine delle endemiche crisi da domanda
effettiva di cui esso soffre.
L'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è un portato di questa (passata?)
temperie storica e culturale; rappresenta una "stortura" che, secondo la
felice espressione di Louis Althusser, è stata "imposta" dalle lotte di
classe, unitamente agli altri articoli di quel codice "mostruoso" rispetto
al codice civile che ha finito con l'essere il "codice del lavoro" (e
chissà che non si debba vedere una "dimenticanza" freudiana nel fatto che
un "codice del lavoro" non è mai stato formalmente emanato). L'esito di
questa battaglia, pertanto, avrà un valore simbolico formidabile: giacché
costituirà la spia per verificare lo stato degli equilibri di classe e,
prima ancora, se di "classe" (lavoratrice) debba o possa ancora parlarsi
nella favoleggiata era della new economy.
* Giudice del lavoro presso il Tribunale di Palermo