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l'altruismo del pinguino
- Subject: l'altruismo del pinguino
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 08 Dec 2001 08:08:45 +0100
dal manifesto 02 Dicembre 2001 L'altruismo del pinguino Il pacifismo non va più di moda. E ora anche gli osservatori più aperti e democratici cominciano a pensare che la natura umana sia essenzialmente aggressiva. Eppure ci sono esempi opposti. Basta fare un giro in Internet, dalle parti di Linux FRANCO CARLINI "Mi piace anche, di Strada, il suo empito pacifista ... Un punto però non condivido: la rinuncia alla legittima difesa (poiché questo significa l'invocazione continua della pace unilaterale) si fonda sulla possibilità di cambiare la natura dell'uomo che è intrinsecamente competitiva e aggressiva (la sottolineatura è nostra; ndr). Non ci sono riusciti né il Buddha né Mosè né Gesù Cristo né Maometto a cambiare la natura dell'uomo. Perciò non ho nessuna ragione di credere che possa riuscirci Gino Strada. Purtroppo". Così Eugenio Scalfari, domenica scorsa, facendo il punto sulla guerra afgana (e forse anche replicando indirettamente al suo editore Carlo De Benedetti che il giorno precedente aveva espresso sensati dubbi sul fatto che si trattasse di una "vittoria della civiltà" contro la barbarie). Per parte sua, sul Corriere della Sera, Piero Ostellino spiegava che, da che mondo è mondo, vale il principio "Homo hominis lupus" del filosofo Thomas Hobbes. Dunque bando alle ideologie pacifiste e si vada empiricamente al sodo (cioè alle armi). La discussione sulla "natura umana" ovviamente è vecchia di secoli e merita non già due virgolette, ma molte. Intanto perché non c'è nemmeno consenso su cosa differenzi un Homo da un Pan troglodytes (scimpanzé), ma soprattutto perché natura è termine metafisico e indefinito, trattandosi di un originale risultato di ereditarietà, cultura, ambiente, conflitti: un prodotto storico insomma, sia che si tratti di uomini che di piante di pomodoro. Troppo frettolosamente dunque i nostri commentatori, che pure sanno di filosofia, si affrettano a dichiarare che la "natura umana" (purtroppo) è cattiva ed egoista e che dunque ogni tanto ci vuole la dura ragione delle armi. Non è una cosa così certa e anzi sono molti gli indizi di segno contrario. Si prenda la questione del software, nelle versioni Open Source e in quella più radicale della Free Software Foundation. Come si è visto domenica scorsa, il sistema operativo Linux si presenta ormai come un serio concorrente dei software proprietari di Microsoft. Il che irrita molto Bill Gates, ma non solo per una questione di soldi: l'uomo Bill, infatti, è già talmente benestante da non sapere come utilizzare i suoi risparmi e infatti ne investe delle buone fette in progetti di sviluppo destinati ai paesi meno sviluppati. Dunque potrebbe benissimo permettersi di non fare la guerra a Linus Torvalds, il 32enne inventore di Linux. In fondo - tutti ne sono convinti - le tecnologie dell'informazione sono comunque destinate a crescere, malgrado la recessione in corso, e ci dovrebbe essere spazio di mercato per tutti, per Linux come per Windows e per OS X di Apple. Se invece Gates e collaboratori da qualche tempo vanno lanciando polemici strali contro il software aperto e dispiegando iniziative di marketing rivolte a contrastarlo, è anche per un motivo quasi filosofico: il modello Open Source, infatti, rappresenta la negazione pratica (la "falsificazione" direbbero i filosofi della scienza) di un assunto che appariva indiscutibile. Quello secondo cui l'unico modello possibile consiste nella massima protezione del software come forma originale di proprietà intellettuale, rafforzata da leggi, licenze e chiavistelli che impediscano a qualsivoglia utilizzatore di aprire, vedere cosa c'è dentro, modificare. In altre parole: se uno si trova per le mani un programma di scrittura Microsoft Word, debitamente acquistato, e vi trova un errore oppure voglia aggiungervi della prestazioni, non potrà farlo per due robusti motivi: intanto perché gli lo vieta la licenza d'uso (che implicitamente accetta aprendo l'involucro del Cd Rom) e soprattutto perché il codice sorgente è invisibile e protetto. Può solo sperare che prima o poi i progettisti di Microsoft (oppure di Oracle, o di Sun, a seconda dei casi) accolgano le sue proposte di correzione. Nel caso del software aperto, invece, i sorgenti sono liberamente visibili (oltre che gratuiti) e ogni modifica è possibile. Ovviamente questo ha una conseguenza negativa per gli inventori, perché, rendendo pubblici i loro algoritmi e le loro soluzioni, si espongono al rischio di pirataggi e copiature. In secondo luogo, non possono caricare costi eccessivi sui loro prodotti: nel mondo dell'Open Source, infatti, il commercio di software non è proibito, ma lo si può fare solo nella forma di manuali d'uso, assistenza, e Cd preconfezionati che rendano facile l'installazione. Insomma, aziende come Red Hat, SuSe, VA Linux, Mandrake, non possono sperare nella conquista di posizioni monopolistiche e nemmeno dominanti. E infatti Red Hat ha una capitalizzazione in borsa di 957 milioni di dollari, mentre Microsoft vale circa 350 volte tanto, ovvero 345 miliardi di dollari. Allora perché lo fanno? Perché Linus Torvalds non ha accettato di entrare nel consiglio di amministrazione di una società inglese che gli offriva 10 milioni di dollari giusto per cominciare? E perché Tim Berners-Lee, entusiasta inventore del World Wide Web, si accontenta di dirigere un consorzio non profit (www.w3c.org) e non ha mai voluto brevettare il suo linguaggio Html né alcun altra sua creazione? Le ipotesi teoricamente possibili sono due. La prima dice che sono delle mosche bianche ma fuori del tempo, come sarebbero per esempio e in altro campo, Gino Strada e Vittorio Agnoletto. Nei confronti dei Linus e dei Gino, dei Vittorio e dei Tim, l'opinione più critica sostiene anzi che essi non solo sono idealisti inguaribili ma che fanno danno, impedendo con le loro azioni altruistiche e fuori della realtà, il sano dispiegarsi delle uniche e possibili dialettiche sociali: quelle del mercato nella versione Gates o quelle della guerra nella versione Bush. Esattamente di questa opinione è la Microsoft quando sostiene, per bocca di uno dei suoi massimi dirigenti, che la licenza Open Source è come un cancro che mina i diritti di proprietà intellettuale e che dunque Linux va combattuto non solo per normale scontro concorrenziale, ma proprio perché disseminatore di idee cattive e pericolose. L'altra ipotesi possibile è che invece Linus e Tim rappresentino solo le figure più note di un movimento ampio (centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo) e che quest'ultimo contenga ben più di una idealistica contestazione del modo attuale di fare software e di stare in rete. A favore di questa ipotesi depongono i successi crescenti raccolti dal software aperto, così come le vittorie, persino in sede di World Trade Organization, in tema di eccezioni ai brevetti sui farmaci: è successo in queste settimane in Qatar, e quel risultato (seppure ancora instabile a ambiguo) non sarebbe mai stato ottenuto se si fosse dato retta al realismo degli editorialisti italiani. Sono allora dei benefattori? "Non scambiatemi per Madre Teresa di Calcutta", ha scritto Linus Torvalds nella sua recente autobiografia (Rivoluzionario per caso. Garzanti, 2001) e ha ragione a schernirsi. Le ragioni dell'altruismo da tempo sono terreno d'indagine degli studiosi e il caso del software aperto le ripropone, mettendole in nuova luce.
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