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programmati a una valley di lacrime
- Subject: programmati a una valley di lacrime
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 29 Nov 2001 06:33:41 +0100
dal manifesto di venerdi 22 novembre 2001 Programmati a una Valley di lacrime Comando al silicio Tre libri sull'industria informatica statunitense, piena di capitale di rischio, superlavoro, precarietà. In nome del sogno americano BENEDETTO VECCHI Narra la leggenda che a Silicon Valley si aggirasse, nelle stanze di una delle tante imprese high-tech che lì prosperano, un programmatore di computer che lavorava nudo. L'alone di mistero attorno a questa figura si nutriva di aneddoti a metà tra il pruriginoso e lo scandalizzato. Il giovane programmatore era solito lavorare di notte e, racconta sempre la leggenda, si toglieva jeans, t-shirt e mutande quando rimaneva solo in ufficio. Tutto è filato liscio fino a quando è stato beccato da una donna che, trovatoselo di fronte nature, sarebbe fuggita in preda al terrore. Secondo un'altra versione il giovane sarebbe stato invece trovato una mattina addormentato sotto la scrivania, rannicchiato in posizione fetale. Il rumore di fondo di Silicon Valley alimentava anche la voce che i sindacati avessero manifestato la loro riprovazione per il suo nude-look, indicandolo come una delle tante espressioni di sexual harassment tipiche del machismo dell'industria high-tech californiana. La verità era un'altra, e la rivela lo stesso nudista a Po Bronson, giovane scrittore e giornalista americano. Da buon programmatore che si rispetti, il giovane non aveva orari di lavoro prestabiliti. Poteva lavorare ventiquattro ore di seguito e dormirne altrettante, visto che non doveva timbrare nessun cartellino, ma solo consegnare il prodotto del suo lavoro alla scadenza concordata. "Sono - afferma il giovane al suo intervistatore - semplicemente uno spirito libero della programmazione informatica". La storia potrebbe finire qui, se non fosse lo spunto scelto da Po Bronson per uno dei libri migliori sulla Silicon Valley degli anni Novanta. Il nudista del turno di notte - Fazi editore, pp. 397, L. . 35.000 - raccoglie le storie di chi lavora nel settore high-tech, del comune sogno di diventare miliardari a trenta anni, delle loro delusioni, del superlavoro, del ruolo propulsore del capitale di rischio nella crescita del settore informatico, del patto sociale imposto alla forza-lavoro dal comando di impresa - nessuna gerarchia apparente, contrattazione individuale del salario, attraverso il meccanismo delle stock option, cioè l'accesso privilegiato all'acquisto delle azioni, in maniera tale che il successo in borsa dell'impresa si traduce in dollari sonanti per una settore minoritario della forza-lavoro. Ma parla anche della diffusione della figura del permatemp, cioè dei "precari per sempre" che svolgono la stessa mansione dei lavoratori a tempo indeterminato, senza però stock option, copertura sanitaria e con un salario che è un terzo dei loro compagni di scrivania che hanno il colore del tesserino di riconoscimento blu invece che giallo. Non mancano testimonianze di pratiche di resistenza che sfruttano la precarietà per sottrarsi al comando di impresa. Il libro di Bronson è un testo importante, perché mette a nudo il meccanismo che fa funzionare, egregiamente dal punto di vista capitalistico, Silicon Valley. Già in passato, è stato sottolineato da altri studiosi, il circolo virtuoso tra le prestigiose università californiane e la valle del silicio. Ma negli anni '90 c'è stata un'ulteriore integrazione della formazione universitaria nella produzione di merci capitalista. Le università continuano a sfornare laureati con un'ottima preparazione, ma ora accade che stimati docenti svolgano la funzione di intermediari tra venture capitalist e giovani e brillanti laureati. A questo proposito, la vicenda della piccola impresa prodotta in un laboratorio della Stanford University è emblematica della trasformazione di parte della ricerca scientifica americana in "cacciatori di teste" della produzione high-tech statunitense: un docente apprezza le idee di due laureandi sullo sviluppo di un possibile software di grafica tridimensionale, trova il capitale iniziale - un milione di dollari -, consiglia ai due giovani di costituire una società per inserirla nel gruppo delle start-up a cui l'università fornisce infrastrutture e servizi. Le start-up sono proprio imprese che devono decollare, ma che per farlo hanno bisogno di investitori che puntino su di loro. C'è, ovviamente, il "capitale di ventura", ma spesso chi mette in comunicazione i laureati e il capitale sono proprio le università. Si potrebbe affermare che è la naturale evoluzione di un sistema formativo, come quello universitario americano, da sempre in rapporto di interdipendenza con il mondo della produzione. Ma sarebbe un giudizio vero solo a metà. E' vero che Silicon Valley diventa il centro dell'industria informatica perché l'università fornisce il sapere necessario. Ciononostante, le materie e i programmi di insegnamento prima erano definite dal corpo docente. Quello che accade negli anni '80 e '90 è la caduta di tale autonomia, fino al punto che le università diventano un nodo della rete produttiva di Silicon Valley. In molti hanno sostenuto che Silicon Valley e l'industria hight-tech sono eccezioni rispetto al resto della produzione capitalistica. Tutti sono concordi nel sostenere il ruolo strategico del "capitale di rischio" nel loro sviluppo; così come c'è unanime consenso nel riconoscere che la precarietà del rapporto di lavoro è la regola, ma che è bilanciata dalla possibilità di diventare ricchi e famosi, basta avere solo una buona idea da tradurrre in business. A una lettura più attenta, nel volume di Po Bronson è invece evidente che quelle caratteristiche da lui descritte sono state gli elementi di ciò che, tra il propagandistico e l'ideologico, è stata definita new economy. In primo luogo, il capitale di rischio arrivava da fondi di investimento, fondi pensione e dal surplus finanziario prodotto negli anni di boom della borsa. Che i fondi di investimento, i fondi pensione e la borsa siano stati una delle leve dello sviluppo economico degli Stati uniti per oltre quindici anni non è certo una novità. Che il patto sociale tra forza-lavoro e comando di impresa a base di stock option abbia funzionato come strumento politico di governo del mercato del lavoro è una verità altrettanto evidente. Per strumento politico, però, si intende un governo che ha puntato a una crescente differenziazione del mercato del lavoro non solo su linee etniche e sessuali di demarcazione, quanto su una stratificazione dei bacini della forza-lavoro dove la regola generale è la precarietà e una feroce disparità salariale. Così, i professional, o i knowledge workers, rappresentano, più o meno, una sorta di aristocrazia, i permantemp la base di massa della forza-lavoro, mentre l'underclass può essere considerato a tutti gli effetti la carne da macello del mercato del lavoro. Questa è, in maniera molto sintetica, la descrizione dominante nella saggistica stunitense del mercato del lavoro. Ma proprio il libro di Bronson testimonia che ogni tipologia è segmentata al proprio interno e che si può essere un professional, o un permantemp, e avere un trattamento salariale diverso da chi magari svolge la stessa mansione. Il governo del mercato del lavoro sembra attuare una sofisticata politica di controllo sociale la cui logica ha ben poco a vedere con il foucaultiano sorvegliare e dividere. Semmai c'è l'individuazione di "gruppi omogenei statisticamente" in base alla famiglia di provenienza, al consumo culturale, alla differenza di accesso alla conoscenza e al sapere: quindi all'università. E in quanto appartenenti a una "classe statistica" si entra nel mercato del lavoro, stabilendo così un apriori della prestazione lavorativa e delle condizioni salariali e di rapporto di lavoro. Una misura medievale a cui si aggiunge un potente dispositivo di "produzione della soggettività" in cui l'individuazione del gruppo sociale di provenienza marchia per sempre la biografia individuale. Un quadro fosco quello che quindi emerge dalla Silicon Valley, che non è neanche temperato dall'happy end di alcune storie raccontate da Po Bronson. E che trova conferma nel bellissimo libro Geek di un altro giornalista americano, Jon Katz (Fazi editore, pp. 232, L. . 32.00). Se nel precedente, la protagonista era Silicon Valley, in questo volume sono due ragazzi dell'Idaho a tessere la trama della loro entrata nel mercato del lavoro. Giovani geni dell'informatica in uno sperduto paese segnato dalla asfissiante morale dei mormoni che decidono di fuggire e di trasferirsi a Chicago. Si dichiarono geek, un termine usato per indicare appunto gli "smanettoni" della tastiera, cioè degli asociali sempre sulla linea di confine tra marginalità sociale e virtuosismo nella programmazione per computer. La fuga dei due ragazzi si intreccia, nel libro, con l'ossessione dei media verso i giovani ammalati di Internet e silicio. Giornali e tv dipindono i geek come sradicati, potenziali assassini, giovani da rinchiudere in qualche carcere. Poco importa che il giornalista autore del libro abbia dato vita a una lista di discussione su di loro - presente sul sito Slashdot.org - in cui emerge una umanità che sente sulla propria pelle le stigmate del comando d'impresa e del controllo sociale. Il loro riscatto, se così si può dire, non sta, affermano in molti di loro, nel trovare un lavoro buono, ma nell'incontrare altri giovani simili a loro. Solo tra geek, sostiene uno di loro, si può sopravvivere. Amara consolazione per chi pensa di avere in dote la grande capacità di manipolare le tecniche di programmazione ma deve mimetizzare la sua voglia di rivolta. Il libro di Katz è bello perché offre uno spaccato proprio di quel governo del mercato del lavoro dove la segmentazione e la differenziazione segue strade tanto antiche da ritornare attuali. Se sei un nero, il tuo destino è più o meno segnato. Solo alcuni fortunati potranno salire in vetta. Se sei donna, lo stesso. Se sei asiatico, vale la stessa regola. Ma anche se sei di origine ispanica non puoi sfuggire a un prevedibilissimo futuro. Allo stesso modo, però, se sei un geek non hai molte alternative. Puoi essere un virtuoso del computer, ma la sottocultura di riferimento pregiudica la possibilità di derogare da ciò che è stato stabilito. L'autore del volume documenta tutto questo e sottolinea che negli Stati uniti il darvinismo sociale sta mandando al macero un'intera generazione. Strano epilogo per una società che incensa la mobilità e la frontiera come promessa di futura felicità. C'è sempre quel nodo scorsoio che viene allentato o stretto a seconda della contingenza: cioè i rapporti sociali di produzione. Katz lo accenna, ma in qualche modo è prigioniero egli stesso di un'etica protestante del lavoro. Sa che l'incantesimo dovrebbe essere rotto, ma è scettico sulla possibilità di riuscita. Uno dei due giovani riesce ad entrare nell'università, ma sa che questo non risolverà i problemi che ha incontrato sulla strada tra l'Idaho e Chicago. Sarà per questo, ma il (parziale) lieto fine - l'altro giovane non riesce ad entrare nell'università e piomba nella depressione - lascia l'amaro in bocca. Katz inscrive le vicende dei due protagonisti all'interno dell'ascesa della nuova élite culturale dei geek, destinata a prendere, prima o poi, il potere. Che sia una élite culturale c'è da dubitarne. E molto. Che sia una sottocultura altera e, in alcuni casi, conflittuale con l'ordine dominante è invece indubbio. Parole come potere sono, in questo universo giovanile e sottoculturale, sulla bocca di chi condanna i geek ad essere un "gruppo sociale a rischio" che vuol sfuggire ai rapporti di sfruttamento all'interno della società. Società in cui i geek come Jesse e Eric, questi i nomi dei due protagonisti, non vogliono integrarsi. La loro descrizione di Chicago non lascia dubbi: preferibile sicuramente al polveroso paese da cui provengono, ma pur sempre segnata da quel darvinismo sociale che li condanna a una esistenza da paria della grande metropoli. La visione del mondo di Jesse e Eric è da considerarsi l'antitodo all'immagine patinata della società americana restituita da un terzo libro, edito in Italia sempre da Fazi, che ha fatto discutere molto l'austero mondo accademico statunitense. Si tratta di Cluetrain manifesto (pp. 319, L. . 32.000). Scritto da quattro teste d'uovo dell'informatica made in Usa - Rick Levine, cioè l'inventore del linguaggio di programmazione Java alla Sun Microsystems, Cristopher Locke, maître à penser dell'organizzazione del lavoro nel settore high-tech, Doc Searls, il creativo che ha pianificato le campagne pubblicitarie di gran parte delle società della Silicon Valley, David Weinberger, guru del world wide web - è un peana di quella che viene chiamata nuova economia. La parola magica è interattività tra consumatori e impresa: una volta che si stabilisce, usando l'idioma della sottocultura informatica ampiamente usato dagli autori del libro, un buon feed-back, il mistero del business è risolto. Ma per fare ciò, bisogna che "la gente si scateni", come ha fatto nel Sessantotto, a Varsavia, a Piazza Tienammen e contro il muro di Berlino. Una fraseologia fastidiosamente libertaria che guarda, paradossi dell'argomentazione, all'impresa come al motore della società. L'esaltazione di un capitalismo "libertario", ostile a ogni organizzazione, insofferente per le gerarchie punta comunque a restituire un'immagine della società dove il fine degli uomini e delle donne non è il diritto alla felicità auspicato dalla Dichiarazione del 1776, quanto il consumo. Una lettura semplicistica, sicuramente, ma che evidenzia come la "produzione di soggettività" sia un affaire troppo importante per considerarlo solo una sovrastruttura. I tre libri in questione sono tre esempi di come gli Stati uniti e non solo guardino alla new economy. E' cosa buona che siano stati tradotti - la collana dedicata all'e-business e all'e-management della Fazi è, forse, l'osservatorio più attento alla ideologia e ai sommovimenti della new economy - perché tra le pagine sono elencate le poste in gioco al di là e al di qua dell'Oceano. Negli ultimi due, tre anni il capitale di rischio è cambiato. I fondi pensione e di investimento sono stati ridimensionati dall'arrivo degli ingenti profitti accumulati in anni di sconfitta operaia dalle "vecchie" élite industriali; il surplus della borsa si è connotato come effetto delle continue politiche di downsizing della imprese capitalistiche. L'unica regola immutata è il governo politico del mercato del lavoro che fa sua la parola d'ordine della "tolleranza zero" per rendere produttiva la soggettività della forza-lavoro. Dopo l'attacco alle Twin Towers e l'inizio della guerra in Afghanistan c'è chi ha affermato che sotto le torri gemelle è stato seppellito anche il neoliberismo. Al suo posto, ora, c'è la guerra globale. Non solo contro il fondamentalismo islamico. I nemici "interni" sono infatti anche le pratiche di resistenza al comando di impresa, espresse da una moltitudine in rivolta, che da Silicon Valley a Genova ha lacerato il velo del capitalismo postfordista e fatto intravedere un altro mondo possibile.
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