elogio della new economy



dal manifesto di domenica 18 novembre 2001

  Elogio della new economy 
Sergio Cofferati controcorrente su una rivista vaticana. L'irreversibilità
dei mutamenti portati dalla "rivoluzione informatica" va al di là della
sorte delle imprese nate per affermarla. Ma l'invadenza nei tempi di vita
degli addetti e le forme sostitutive del salario forse appartengono al
passato 
FRANCO CARLINI 




" C'è già chi parla della rivincita della old economy, di ritorno
all'antico, alle concrete e rassicuranti produzioni materiali e per nulla
virtuali dei settori industriali, bollando tutto ciò che in questi anni è
sorto nella nuova economia come fenomeno speculativo o più
semplicisticamente di costume. Eppure, nonostante i crolli di borsa, la
chiusura di aziende, i licenziamenti, la net economy può diventare una
straordinaria occasione di crescita economica e di benessere".
Questa frase è curiosa per almeno tre motivi: intanto perché è
controcorrente, in un periodo in cui tanti (quasi tutti) inneggiano al
ritorno dei "fondamentali" dell'economia classica. In secondo luogo per il
dove è stata pubblicata: non è comparsa infatti su Fast Company, né su
Wired o su The Standard, riviste egemoniche dell'economia digitale e noti
ricettacoli di fanatici della nuova economia. La si trova invece sul
fascicolo numero 15 di Nuntium, pubblicazione molto seria che dal 1996
viene edita dalla Pontifica Università Lateranense
(www.pul.it/nuntium.htm). Addirittura si tratta di un secondo numero
sull'argomento; infatti dopo quello di giugno dal titolo "New Economy. E
ora?", questo si dedica più specificatamente a "L'Italia. Il lavoro e la
New Economy". Se non altro è la conferma che quello dell'Internet non è un
fenomeno transitorio né solo di business e che esso chiama alla riflessione
un arco largo di pensatori, anche religiosi.
La terza sorpresa è l'autore di queste righe. Che non è Carlo De Benedetti,
né Vinton Cerf (il cosiddetto papà dell'Internet), e nemmeno Elserino Piol,
il più noto tra i Venture Capitalist italiani. La firma in testa al saggio,
invece è del "cinese", come la stampa ama chiamarlo, o se si preferisce del
più "conservatore" tra i conservatori di sinistra - secondo la concorde
definizione di D'Amato, D'Alema e dei varii Panebianchi. In altre parole si
tratta di Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil. La cosa dunque
si fa interessante e andrà vista più da vicino.
Il testo di Cofferati contiene almeno tre questioni calde, che sono: il
giudizio sulla new economy, le sue conseguenze sul mondo del lavoro, e il
ruolo del sindacato. Sul primo tema l'analisi di Cofferati, come si vede
anche dalla citazione iniziale, si differenzia sensibilmente dalla vulgata
oggi corrente, secondo la quale si trattò di pura follia speculativa che ha
lasciato dietro di sé solo disastri e che (finalmente) ha lasciato il passo
all'economia seria (quella di un tempo). Al contrario si può sostenere che
la "distruzione creatrice" che essa ha prodotto è stata sana e che oggi
semmai il rischio è che tale rivolgimento risulti frenato dal ritorno in
forze dell'Old. Questa, per inciso, è anche la tesi di Larry Lessig, uno
studioso americano di diritto, nel suo libro appena pubblicato: "Il futuro
delle idee" (Random House).
Per dirla ancora più brutalmente: tutte le imprese Dot Com potrebbero anche
fallire, ma il loro effetto positivo è stato quello di svegliare dal
torpore le aziende precedenti, troppo abituate a considerare inattaccabile
e ben custodito il loro mercato e indiscutibile il loro modo di operare e
di organizzarsi. Se oggi Microsoft rinnova completamente la propria
strategia (certo con lo scopo di tornare a essere egemone anche
sull'Internet oltre che nei Pc), è esattamente il risultato di una
pressione a innovare che si è trovata addosso, prodotta dalle varie
Netscape, Oracle, Sun, Linux. Se il settore più conservativo e inerte del
mondo dei media, quello delle cinque grandi etichette discografiche, si
attrezza per un mondo in cui la musica sia solo digitale e in rete, questo
è certo il frutto della sconvolgente iniziativa di Mp3 e Napster. Guai
dunque, dice Lessig (e con lui Cofferati) se il rinnovamento industriale si
fermasse.
Quanto al lavoro, è certo vero che i licenziamenti della New Economy sono
stati massicci (65 mila persone secondo Cofferati). In quest'ultima
settimana, giusto per citare gli ultimi, si sono visti 400 licenziamenti a
Yahoo!, portale principe della rete, 1900 alla casa di software Novell, e
altri se ne annunciano al gigante America Online. Ma va aggiunto che questi
numero sono comunque molto inferiori alle massicce epurazioni condotte
dalle industrie tradizionali come quella dell'auto o dei monopoli
telefonici, e che nel mondo delle Punto Com quasi nessuno è rimasto davvero
senza lavoro.
Quanto alle modalità del lavoro, molto di negativo è successo: per esempio
il passaggio di parti consistenti del salario dalle forme contrattuali
classiche all'andamento azionario (sotto forma di stock options, oggi
tardivamente riproposte, in versione corporativa, da un progetto del
"vice-premier" Fini). Per non dire della erosione del tempo di vita, di cui
tutti i soggetti lavoranti della nuova economia digitale sono stati insieme
vittime e partecipi. Ma anche qui, passata l'onda più enfatica, sembra che
le cose stiano mutando: non si tratta tuttavia un semplice ritorno
all'indietro, quanto della ricerca di equilibri più sensati e più umani. Il
vero punto di forza del sindacato futuro si appoggia sul fatto che
l'intelligenza dei lavoratori è il fattore cruciale di successo di ogni
impresa. E invece, scrive Cofferati "averli considerati un fattore di costo
e non un investimento da far crescere e tutelare è uno dei motivi di
depauperamento delle aziende italiane". Ovvero: proprio perché è un valore
aziendale alto, il lavoratore detiene oggettivamente un più elevato potere
contrattuale che può esercitare per meglio negoziare il salario, le
normative e i ruoli. E la cosa non riguarda solo i manager o i quadri: per
fare un esempio banale, è ormai chiaro che chi ha provato a gestire i call
center tutti in appalto, sfruttando lavoro assolutamente precario e
disinteressato, ha fatto in realtà un pessimo investimento perché così
facendo non è stato in grado di rispondere davvero alle esigenze dei
clienti, e nello stesso tempo si è trovato con una forza lavoro
inevitabilmente non collaborativa.
Queste negoziazioni oggi avvengono, quando avvengono, prevalentemente in
forma individuale: è il singolo dipendente, quadro, impiegato, ma anche
operaio provetto che tratta con le gerarchie: un superminimo, un ad
personam, oppure, che spesso è più importante, adeguate risorse per
sviluppare un progetto: "volete che vi realizzi in un mese questo nuovo
software? datemi tot computer e tot lire da spendere in programmatori". In
questi casi, pur essendo un dipendente fisso, la relazione che si instaura
è analoga a quella di un consulente esterno e la ricompensa non è solo
monetaria, ma anche di gratificazione e prestigio - quest'ultimo
eventualmente riversabile in carriera. Sono i temi positivi della
flessibilità che corrono anche, in maniera intelligente, in un recente
libro di Luciano Gallino ("Il costo della flessibilità", Laterza).
L'aggressiva stroncatura che ne ha fatto il Sole-24 ore testimonia come
questo sia un terreno avanzato e lacerante di conflitto. E proprio perché
tale, il quotidiano si è sentito in dovere di parlare di "demonizzazione",
di "bunker dell'ideologia", di "risentimento e nostalgia". Puri esorcismi
confindustriali, ovviamente, perché lo scontro c'è e il sindacato, per la
disgrazia dei D'Amato, sembra ben intenzionato a percorrere il terreno del
"new", sottraendone l'egemonia ai corsi di management da quattro palle un
soldo organizzati dalla vasta rete di consulenze pseudoscientifiche di cui
si alimentano tante aziende.