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elogio della new economy
- Subject: elogio della new economy
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 22 Nov 2001 06:40:33 +0100
dal manifesto di domenica 18 novembre 2001 Elogio della new economy Sergio Cofferati controcorrente su una rivista vaticana. L'irreversibilità dei mutamenti portati dalla "rivoluzione informatica" va al di là della sorte delle imprese nate per affermarla. Ma l'invadenza nei tempi di vita degli addetti e le forme sostitutive del salario forse appartengono al passato FRANCO CARLINI " C'è già chi parla della rivincita della old economy, di ritorno all'antico, alle concrete e rassicuranti produzioni materiali e per nulla virtuali dei settori industriali, bollando tutto ciò che in questi anni è sorto nella nuova economia come fenomeno speculativo o più semplicisticamente di costume. Eppure, nonostante i crolli di borsa, la chiusura di aziende, i licenziamenti, la net economy può diventare una straordinaria occasione di crescita economica e di benessere". Questa frase è curiosa per almeno tre motivi: intanto perché è controcorrente, in un periodo in cui tanti (quasi tutti) inneggiano al ritorno dei "fondamentali" dell'economia classica. In secondo luogo per il dove è stata pubblicata: non è comparsa infatti su Fast Company, né su Wired o su The Standard, riviste egemoniche dell'economia digitale e noti ricettacoli di fanatici della nuova economia. La si trova invece sul fascicolo numero 15 di Nuntium, pubblicazione molto seria che dal 1996 viene edita dalla Pontifica Università Lateranense (www.pul.it/nuntium.htm). Addirittura si tratta di un secondo numero sull'argomento; infatti dopo quello di giugno dal titolo "New Economy. E ora?", questo si dedica più specificatamente a "L'Italia. Il lavoro e la New Economy". Se non altro è la conferma che quello dell'Internet non è un fenomeno transitorio né solo di business e che esso chiama alla riflessione un arco largo di pensatori, anche religiosi. La terza sorpresa è l'autore di queste righe. Che non è Carlo De Benedetti, né Vinton Cerf (il cosiddetto papà dell'Internet), e nemmeno Elserino Piol, il più noto tra i Venture Capitalist italiani. La firma in testa al saggio, invece è del "cinese", come la stampa ama chiamarlo, o se si preferisce del più "conservatore" tra i conservatori di sinistra - secondo la concorde definizione di D'Amato, D'Alema e dei varii Panebianchi. In altre parole si tratta di Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil. La cosa dunque si fa interessante e andrà vista più da vicino. Il testo di Cofferati contiene almeno tre questioni calde, che sono: il giudizio sulla new economy, le sue conseguenze sul mondo del lavoro, e il ruolo del sindacato. Sul primo tema l'analisi di Cofferati, come si vede anche dalla citazione iniziale, si differenzia sensibilmente dalla vulgata oggi corrente, secondo la quale si trattò di pura follia speculativa che ha lasciato dietro di sé solo disastri e che (finalmente) ha lasciato il passo all'economia seria (quella di un tempo). Al contrario si può sostenere che la "distruzione creatrice" che essa ha prodotto è stata sana e che oggi semmai il rischio è che tale rivolgimento risulti frenato dal ritorno in forze dell'Old. Questa, per inciso, è anche la tesi di Larry Lessig, uno studioso americano di diritto, nel suo libro appena pubblicato: "Il futuro delle idee" (Random House). Per dirla ancora più brutalmente: tutte le imprese Dot Com potrebbero anche fallire, ma il loro effetto positivo è stato quello di svegliare dal torpore le aziende precedenti, troppo abituate a considerare inattaccabile e ben custodito il loro mercato e indiscutibile il loro modo di operare e di organizzarsi. Se oggi Microsoft rinnova completamente la propria strategia (certo con lo scopo di tornare a essere egemone anche sull'Internet oltre che nei Pc), è esattamente il risultato di una pressione a innovare che si è trovata addosso, prodotta dalle varie Netscape, Oracle, Sun, Linux. Se il settore più conservativo e inerte del mondo dei media, quello delle cinque grandi etichette discografiche, si attrezza per un mondo in cui la musica sia solo digitale e in rete, questo è certo il frutto della sconvolgente iniziativa di Mp3 e Napster. Guai dunque, dice Lessig (e con lui Cofferati) se il rinnovamento industriale si fermasse. Quanto al lavoro, è certo vero che i licenziamenti della New Economy sono stati massicci (65 mila persone secondo Cofferati). In quest'ultima settimana, giusto per citare gli ultimi, si sono visti 400 licenziamenti a Yahoo!, portale principe della rete, 1900 alla casa di software Novell, e altri se ne annunciano al gigante America Online. Ma va aggiunto che questi numero sono comunque molto inferiori alle massicce epurazioni condotte dalle industrie tradizionali come quella dell'auto o dei monopoli telefonici, e che nel mondo delle Punto Com quasi nessuno è rimasto davvero senza lavoro. Quanto alle modalità del lavoro, molto di negativo è successo: per esempio il passaggio di parti consistenti del salario dalle forme contrattuali classiche all'andamento azionario (sotto forma di stock options, oggi tardivamente riproposte, in versione corporativa, da un progetto del "vice-premier" Fini). Per non dire della erosione del tempo di vita, di cui tutti i soggetti lavoranti della nuova economia digitale sono stati insieme vittime e partecipi. Ma anche qui, passata l'onda più enfatica, sembra che le cose stiano mutando: non si tratta tuttavia un semplice ritorno all'indietro, quanto della ricerca di equilibri più sensati e più umani. Il vero punto di forza del sindacato futuro si appoggia sul fatto che l'intelligenza dei lavoratori è il fattore cruciale di successo di ogni impresa. E invece, scrive Cofferati "averli considerati un fattore di costo e non un investimento da far crescere e tutelare è uno dei motivi di depauperamento delle aziende italiane". Ovvero: proprio perché è un valore aziendale alto, il lavoratore detiene oggettivamente un più elevato potere contrattuale che può esercitare per meglio negoziare il salario, le normative e i ruoli. E la cosa non riguarda solo i manager o i quadri: per fare un esempio banale, è ormai chiaro che chi ha provato a gestire i call center tutti in appalto, sfruttando lavoro assolutamente precario e disinteressato, ha fatto in realtà un pessimo investimento perché così facendo non è stato in grado di rispondere davvero alle esigenze dei clienti, e nello stesso tempo si è trovato con una forza lavoro inevitabilmente non collaborativa. Queste negoziazioni oggi avvengono, quando avvengono, prevalentemente in forma individuale: è il singolo dipendente, quadro, impiegato, ma anche operaio provetto che tratta con le gerarchie: un superminimo, un ad personam, oppure, che spesso è più importante, adeguate risorse per sviluppare un progetto: "volete che vi realizzi in un mese questo nuovo software? datemi tot computer e tot lire da spendere in programmatori". In questi casi, pur essendo un dipendente fisso, la relazione che si instaura è analoga a quella di un consulente esterno e la ricompensa non è solo monetaria, ma anche di gratificazione e prestigio - quest'ultimo eventualmente riversabile in carriera. Sono i temi positivi della flessibilità che corrono anche, in maniera intelligente, in un recente libro di Luciano Gallino ("Il costo della flessibilità", Laterza). L'aggressiva stroncatura che ne ha fatto il Sole-24 ore testimonia come questo sia un terreno avanzato e lacerante di conflitto. E proprio perché tale, il quotidiano si è sentito in dovere di parlare di "demonizzazione", di "bunker dell'ideologia", di "risentimento e nostalgia". Puri esorcismi confindustriali, ovviamente, perché lo scontro c'è e il sindacato, per la disgrazia dei D'Amato, sembra ben intenzionato a percorrere il terreno del "new", sottraendone l'egemonia ai corsi di management da quattro palle un soldo organizzati dalla vasta rete di consulenze pseudoscientifiche di cui si alimentano tante aziende.
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