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LAVORARE LA TERRA



DA BOILER DI GIOVEDI 5 APRILE 2001


Lavorare la terra

di Brian Halweil 


 NEL DICIOTTESIMO E DICIANNOVESIMO SECOLO, i contadini vivevano in cattive
condizioni igienico-sanitarie, ma godevano di guadagni generalmente stabili
e di legami sociali fortissimi. Le fattorie diversificate producevano una
varietà di beni primi o lavorati che si potevano vendere al mercato locale.
I costi di produzione erano molto più bassi, in quanto gran parte di ciò
che serviva era “fatto in casa”. I semi erano quelli messi da parte dal
raccolto dell’anno precedente, i fertilizzanti venivano dalle mucche e dai
maiali della fattoria e la diversificazione delle specie piantate (che in
genere comprendevano tanti tipi di cereali, tuberi, verdure, erbe
aromatiche, fiori e frutta, tanto per l’uso domestico che per la vendita)
funzionava come un efficace controllo contro i parassiti.
Ma secondo l’agronomo dello Iowa Mike Duffy le cose sono cambiate,
soprattutto nell’ultimo mezzo secolo. «Il momento di più netto cambiamento
è stato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale», spiega, «con la
diffusa introduzione dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi sintetici e
un’incredibile riduzione del numero degli agricoltori». Nel dopoguerra
oltre alla crescente meccanizzazione ebbe inizio la tendenza a svolgere al
di fuori della fattoria parti del lavoro che i coltivatori avevano in
precedenza fatto per proprio conto, dalla preparazione dei fertilizzanti
alla pulizia e imballaggio dei raccolti. Inizialmente questa tendenza fu
salutata come una piacevole comodità, ma ebbe poi un effetto boomerang: con
l’aumento del prodotto, il prezzo iniziò a crollare. Finché la maggior
parte degli affari dell’industria alimentare non si è decisamente spostata
dalle fattorie alle fasi di lavorazione che gli agricoltori non controllano
più, come imballaggio, distribuzione o promozione.
Negli Stati Uniti la percentuale di un dollaro speso dal consumatore per
l’acquisto di cibo che va nelle tasche dei coltivatori è passato da 40
centesimi nel 1910 a 7 centesimi nel 1977, mentre gli operatori che si
occupano dei servizi aggiuntivi (come macchinari, prodotti chimici e semi)
o alla commercializzazione (lavorazione, distribuzione, pubblicità e
commercializzazione) hanno continuato ad espandersi. Di un dollaro speso
per comprare un filone di pane solo 6 centesimi vanno all’agricoltore che
ha coltivato il grano necessario per farlo. Questo significa, in altri
termini, che quando andate a comprare il pane pagate la busta che lo
contiene quanto il pane stesso.
Dunque proprio quando le fattorie degli Stati Uniti sono diventate più
meccanizzate e produttive si è attivato un circolo di autodistruzione: la
sovrapproduzione e il calo dei prezzi riducono i margini di guadagno degli
agricoltori, costretti così ad aumentare ulteriormente la produzione
facendo ricorso alla tecnologia specializzata. Insomma, sebbene il loro
lavoro abbia assunto un aspetto molto moderno, i coltivatori sono diventati
sempre meno padroni del proprio lavoro e della propria terra. In una tipica
fattoria dello Iowa il margine di profitto del coltivatore è passato dal 35
per cento nel 1950 al 9 per cento oggi. Per produrre lo stesso reddito
questa fattoria deve quindi essere quattro volte più grande di come era nel
Cinquanta. Ed è precisamente questo ciò che è accaduto in gran parte dei
paesi industrializzati: poche fattorie su più ampie estensioni di terreno.
Gli agricoltori sono stati obbligati a comprare il terreno del vicino o a
vendere il proprio per cercare altre fonti di sostentamento.
Per interrompere questo circolo vizioso bisognerebbe riportare parte delle
forniture aggiuntive e della lavorazione post-raccolto – e i relativi
introiti – alle fattorie. Ma un modello di agricoltura autosufficiente è
radicalmente contrario agli interessi delle industrie che ricavano ottimi
profitti dalle forniture aggiuntive e dalla lavorazione. E considerando che
queste industrie hanno molto più potere politico di quanto ne abbiano gli
agricoltori, è davvero improbabile che questi ultimi riescano a emanciparsi
dalle loro condizioni sempre più subordinate. Gli agricoltori continuano a
ricevere il messaggio che l’unico modo per salvarsi è ingrandirsi. «Fatti
grande o fatti da parte» è lo slogan di questa concezione, basata sull’idea
che ci sia un rapporto inversamente proporzionale fra le dimensioni di
un’azienda agricola e i suoi costi di produzione. Per alcuni aspetti questa
idea è indubbiamente vera. Allargando il proprio podere un coltivatore può
distribuire il costo di un trattore su un’estensione di territorio
maggiore, tanto per fare un esempio. Dimensioni maggiori significano anche
possibilità di risparmio nell’acquisto dei prodotti necessari alla
coltivazione o nella trattativa sui prestiti, che si rivela uno strumento
sempre più importante via via che nuove sofisticate tecnologie, come le
telerilevazioni satellitari, indicano un approccio all’agricoltura che
sempre più richiede forti investimenti di capitali.
Ma queste economie di scala tendono a livellarsi. I dati per un’ampia gamma
di varietà agricole prodotte negli Stati Uniti dimostrano che i minori
costi di produzione sono generalmente quelli di aziende molto più piccole
della media attuale. Le fattorie più grandi sono in grado di tollerare
margini di guadagno minori, ma mentre possono vendere i loro prodotti a
costi minori, se vi sono costretti (come in effetti sono dalle aziende di
lavorazione che comprano loro i prodotti) non possono produrre a costi
minori. Insomma, se è vero che una gigantesca azienda agricola gode di un
vantaggio su una più piccola, è altrettanto vero che di questo vantaggio
beneficia soprattutto l’azienda di lavorazione piuttosto che l’agricoltore,
la comunità agricola o, tantomeno, l’ambiente naturale.