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bioetica:le cellule del santo uffizio
dal manifesto di giovedi 21 dicembre 2000
Le cellule del Santo Uffizio
FRANCO VOLTAGGIO
Nel 1941 Ernest Hemingway, commentando il disastro di Pearl Harbour -
la distruzione della flotta del Pacifico, l'evento che trascinò gli americani
nella II guerra mondiale - affermò che il Giappone aveva sorpreso "la
Marina e l'Esercito degli Stati uniti profondamente addormentati nello
stesso letto". Un sonno simile cullava in Italia l'opinione pubblica e la
classe politica, allorché a svegliarle, il 7 settembre scorso, fu una
notizia: il parlamento europeo aveva approvato una risoluzione che
poneva l'interdetto a qualsiasi forma di clonazione umana tanto a fini
riproduttivi quanto a scopo terapeutico. La notizia suscitò un forte
sconcerto, perché ad essere investita dall'anatema era la ricerca sulle
cellule staminali (= progenitrici), il cui possibile impiego era
contemplato da tempo per il trattamento di particolari malattie
degenerative. La risoluzione condannava infatti la sperimentazione su
embrioni umani (congelati) per la produzione di cloni di cellule
staminali. Ricordiamo, per inciso, che essa conteneva una
raccomandazione e un invito: la raccomandazione di utilizzare, per
finalità terapeutiche, le linee cellulari di tessuti provenienti da soggetti
adulti; l'invito a non sostenere, con finanziamenti dell'Unione europea,
gli istituti di ricerca coinvolti nella sperimentazione su embrioni, anche
se congelati. L'assunto di base, sotteso alla risoluzione, era,
ovviamente l'identificazione dell'embrione umano con la "persona
umana". Un assunto - è appena il caso di sottolineare - di decisa
derivazione cattolica. Utile aggiungere che a formulare e ad appoggiare
la risoluzione erano stati parlamentari italiani dell'assise europea,
battendo sul tempo, per l'abilità con cui era stata condotta l'iniziativa,
una parte consistente - e di opinione contraria - della sinistra nazionale
(e non solo).
A cogliere di sorpresa la sinistra contribuì non poco, crediamo, lo stato
in cui versa la riflessione bioetica nel nostro paese, una situazione a
riguardo della quale non si può fare a meno di parlare di paradosso. La
bioetica, disciplina giovane, a mezza strada tra la filosofia e il diritto,
dallo statuto concettuale ancora incerto, si è assunta da tempo il
compito di monitorare, punto per punto, la compatibilità tra
l'applicazione delle scoperte in biologia e in biomedicina e i principi
generali della morale. Nel far questo, smarrendo spesso il significato
proprio dell'etica che, altra cosa dalla morale, dovrebbe attenersi a
decifrare quel che è considerato desiderabile o non in un concreto
spazio storico di esperienza, ha finito con l'andare a cozzare contro
taluni assoluti, come "vita", "individuo", "persona". Sono, queste, parole
che rinviano a interrogativi posti "più in alto delle risposte", il che è
quanto dire che invocano unicamente un'alternativa secca: o la
dogmatica di una religione totalizzante, qual è il cristianesimo, specie
nella forma di confessione cattolica, oppure una filosofia che, ritrovando
la propria ragion d'essere in una riflessione sulla scienza, torni a offrire
proposte speculative sufficientemente solide per conciliare il relativo
con l'assoluto.
Dei due corni dell'alternativa pare che il secondo non abbia ancora fatto
la sua comparsa, mentre il primo, assai vigoroso, ha occupato lo spazio
lasciato vuoto dalla filosofia - latitante, almeno per tali questioni, in
pressoché tutto l'Occidente - facendo sì che l'invasività della dogmatica
cattolica si avvertisse anche nei paesi di diversa confessione cristiana.
Di qui il paradosso cui si accennava: anche il pensiero laico più
spregiudicato dimentica la dimensione storica in cui vanno affrontati i
problemi e assume spesso una dimensione difensiva. Non c'è così da
sorprendersi che il dibattito bioetico, soprattutto in Italia, si configuri
spesso come una discussione teologica che avvolge quanti ne sono
coinvolti in un clima da Controriforma. Occorre allora affermare con forza
che non c'è nulla da difendere e che, semmai, vanno attentamente
esaminate e poste a confronto le ragioni della scienza e quelle della
società, rammentando quanto la prima sia una realtà essenziale della
seconda.
A questa esigenza si è prestato un convegno, tenutosi nell'Università di
Pavia il 1 dicembre, dal titolo "Biologia delle cellule staminali.
Opportunità e limiti di impiego", organizzato da Carlo Alberto Redi,
direttore del Laboratorio di biologia dello sviluppo - uno dei centri di
punta della ricerca biologica in Italia - coadiuvato da Silvia Garagna e
Maurizio Zuccotti, due ricercatori di valore, che con Redi costituiscono
l'ormai celebre "trimurti pavese", e sponsorizzato dalla Fondazione
Sigma-Tau (nell'ambito del "Forum sulle ragioni della scienza") e dalla
Fondazione di Piacenza e Vigevano.
Come si precisa nell'introduzione agli atti del convegno - pubblicati con
ammirevole tempestività qualche giorno prima dell'apertura dei lavori
(Pubblicazioni del Collegio Ghislieri, Ibis, Pavia, pp. 115, L. . 20.000) -
si è voluto porre l'accento sulle possibilità di applicazioni terapeutica -
come sui suoi limiti strettamente medici - della linea di ricerca delle
cellule staminali, poi sulle limitazioni di varia natura che la ricaduta
applicativa comporta. Non è cosa di poca importanza, giacché è
fondamentale ricordare che, prima di mettere i paletti a un'indagine
tanto complessa - quel che si sa sulle cellule staminali è ancora molto
poco - occorre sapere se effettivamente talune malattie siano o non
suscettibili di essere trattate e, possibilmente, poste in remissione con
il trapianto di cellule staminali. Il momento decisionale, di fatto la
possibile decisione politica circa la portata e le modalità dell'allocazione
delle risorse finanziarie, deve, infatti, prendere avvio non in forza di
posizioni preconcette intorno ai "massimi sistemi", ma di una
conoscenza abbastanza approssimata sulle reali possibilità
dell'applicazione. Come dire che l'iniziativa presa a Pavia vuole invitare i
politici a non farsi ricattare da una serie di pregiudiziali metafisiche
intorno alla natura reale degli oggetti che sono candidati alla
sperimentazione, quali gli embrioni congelati. Di qui l'andamento del
convegno che ha visto parlare prima gli scienziati (Albanese, Campbell,
Cogoli, Mac Laren, Valenzuela, Vescovi), poi personalità della politica
sanitaria italiana (Benegiano), quindi bioeticisti (Mori e Neri), esperti
della legislazione (Santosuosso) e storici (Cavicchi e Corbellini).
Preoccupazione dominante di tutti i partecipanti è stata l'informazione
corretta, sullo "stato dell'arte" da parte degli scienziati, sulle
aspettative della società e sulla possibile occasione di incontro tra
speranze e rispetto del comune sentimento del giusto e dell'ingiusto da
parte dei bioeticisti e degli storici. Conseguentemente il pubblico -
composto, tra l'altro, da giovanissimi, come gli studenti dei licei pavesi
- facendosi per una volta protagonista, è stato pronto ad affermare
un'occasione rara per riuscire a cogliere la conciliabilità in linea di
principio e di fatto tra le ragioni della società e quelle della scienza,
proprio alla luce di quanto è possibile fare, nel medio periodo, con la
sperimentazione sulle cellule staminali. Uno speciale interesse si è
manifestato per la praticabilità dell'applicazione terapeutica ad alcune
malattie degenerative, le quali non hanno un risvolto esclusivamente
medico, coinvolgendo, in modo decisivo, le relazioni tra i diversi gruppi
generazionali, come nel caso del morbo di Parkinson e della malattia di
Alzheimer.
Il Parkinson e l'Alzheimer sono malattie determinate da lesioni di vaste
aree del cervello non imputabili, come si sa con certezza, specie per
l'Alzheimer, all'azione di patogeni, quali i virus lenti - responsabili di
altre malattie cerebrali come l'encefalopatia spongiforme ("il morbo
della mucca pazza") - e per contro riconducibili alla degenerazione dei
tessuti per probabile causa genetica. Questi morbi sono resistenti alla
cura e, per il loro effetto fortemente invalidante, si esprimono nella
lenta e irreversibile diminuzione di quella che Giorgio Cosmacini chiama
"salute residua", provocando innumerevoli problemi ai soggetti colpiti e
a quanti li assistono. In particolare, nel caso dell'Alzheimer, il malato,
inevitabilmente ridotto a uno stato vegetativo, cessa di avere un reale
rapporto con l'altro (quale che esso sia, anche il più intimo familiare).
Viene a instaurarsi una costellazione nevrotica, che investe (forse) il
malato, certamente i suoi familiari, rendendo ancora più penose le
forme sterotipiche della comunicazione dell'infermo e, di fatto,
producendo una situazione del tutto contraria alla dignità della
condizione umana. Ne consegue che un'innovazione terapeutica avverso
all'Alzheimer è auspicabile non solo per i riflessi sociali della malattia,
ma anche e soprattutto per la tutela della persona (è su questo punto
che dovrebbero riflettere quanti, per ispirazione confessionale, pongano
limiti alla sperimentazione).
In concreto, la sola via aperta per il trattamento della patologia è la
rigenerazione dei tessuti danneggiati. E' possibile? Per quello che se ne
sa, pare di sì. Deputate a ottenere un risultato del genere sono per
l'appunto le cellule staminali. Le staminali presenti in diversi tessuti
adulti, conservano tuttavia caratteristiche funzionali tipicamente
embrionali. Sono cioè altamente indifferenziate e dotate di un
potenziale proliferativo destinato a durare tutta la vita.
Danno origine alle cellule mature del tessuto in cui risiedono,
producendone i tratti distintivi (differenziamento). Possiedono quindi
una caratteristica specifica, definita pluri o multipotenzialità.
Il midollo osseo, per esempio, contiene cellule multipotenziali che
rigenerano le cellule sanguigne per tutta l'esistenza di un individuo.
Ora, i tessuti cerebrali hanno simili possibilità rigenerative? A
rispondere è intervenuto nel convegno pavese Angelo Vescovi, un
ricercatore dell'ospedale San Raffaele di Milano.
Un tempo, neppure tanto remoto, si pensava che il cervello dei
mammiferi e, in ispecie, dell'uomo non disponesse di un potenziale di
rigenerazione. Otto anni fa questa opinione fu smentita dalla scoperta
di cellule staminali nel sistema nervoso centrale, sia dell'embrione che
dell'adulto. Le cellule staminali cerebrali (Csc) sono sì indifferenziate,
mancando delle caratteristiche morfologiche e funzionali proprie delle
cellule nervose vere e proprie (neuroni, astrociti e dendrociti) ma,
ciononostante, sono capaci di dividersi (proliferare) così che "mentre
una delle due cellule figlie mantiene le caratteristiche della cellula da
cui ha avuto origine - così mantenendo la popolazione delle Csc a un
livello costante -, l'altra può dare origine a tutti i tipi di cellule
cerebrali
mature" (Vescovi, in Biologia delle cellule staminali).
Le cellule differenziate iniziano una migrazione che le conduce a
rimpiazzare le cellule danneggiate, operando un'autentica riparazione
dei tessuti. Di qui, almeno in via teorica, il passo per riparare i danni
responsabili dell'Alzheimer è forse breve. E' possibile cioè pensare al
trapianto nel cervello dei malati di linee staminali provenienti da
embrione, tenendo conto che questo possiede un maggior numero di
staminali dell'organismo adulto, giacché la maggiore quantità è
richiesta dall'avvio del processo di differenziazione cellulare che dovrà
incontrare l'embrione. Ma c'è qualcosa di più. Vescovi riporta notizia di
un esperimento condotto con Csc. Le cellule furono trapiantate nel
midollo osseo di topi, cui era stato distrutto il patrimonio staminale
midollare con irradiazione. Le Csc attecchirono nel midollo degli animali,
manifestando il possesso di caratteristiche ematopoietiche.
Tutto lascia pensare che nei prossimi anni la linea di ricerca sulle
staminali rappresenterà una delle frontiere più avanzate - se non
addirittura la più avanzata - della biologia. Lo sarà non soltanto per la
crescente evidenza della sua applicabilità alla terapia delle malattie
degenerative, ma anche per le potenti suggestioni speculative che
sembra avanzare. In una parola, parrebbe che i biologi abbiano toccato
la coda del drago.
La scoperta che il processo di differenziazione cellulare è dominato da
cellule indifferenziate e onnipotenti (totipotenti) indurrebbe a ritenere
che lo sviluppo, produttivo della diversità, dunque degli individui, sia un
insieme di eventi in linea di principio imprevedibili. Ne conseguirebbe
che l'individuo, la cui genesi esige una canalizzazione dello sviluppo
geneticamente programmata - come aveva osservato il grande
embriologo Conrad Waddington negli studi condotti tra il 1948 e il 1975
- sia di fatto, di volta in volta, un caso fortunato. Allora perché non
pensare che questa "fortuna" sia decisa da altro e che quella genetica
sia la via scelta dal Creatore per dar luogo all'individuo?
E' possibile evitare questa opzione metafisica?
Secondo Carlos Y. Valenzuela, un insigne genetista cileno, è possibile
(vedi Biologia delle cellule staminali). Il criterio da adottare sarebbe
quello di ricondurre la nostra attenzione al genoma e precisamente al
momento in cui compare il processo della prima coppia genomica (vale a
dire allorché l'ovocita integra il materiale ereditario che gli proviene
dall'esterno in un processo programmato per lo sviluppo di un nuovo
essere). L'ipotesi creazionistica viene così sostituita dalla spiegazione
genetistica. Basta questa sostituzione o no? Basta se non poniamo
attenzione al fatto che nella spiegazione intervengono i due elementi
chiave della stessa opzione metafisica, vale a dire il caso e la
necessità. Allora per evitare le trappole della teologia, sembra forse
necessario fare qualche altra cosa. Che cosa? Ripensare in modo
totalmente nuovo il concetto stesso di individuo; dunque mobilitare il
pensiero filosofico contemporaneo. Risponderà all'appello? Una bella
domanda, davvero.