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il vantaggio competitivo dell'ecologia
dal sole24ore di mercoledi 13 dicembre 2000
Il vantaggio competitivo dell’ecologia
di Emilio Gerelli
La qualità dell’ambiente è fra i diritti fondamentali ora
sanciti
anche dalla Carta europea approvata a Nizza. Potrà così
svilupparsi anche la new economy ambientale. Per allenarsi
a capirla, proponiamo un quiz istruttivo: trovare
l’obiettivo
comune a tre casi apparentemente diversi.
Primo caso. Sono clamorosamente falliti all’Aja (ma forse
riprenderanno a breve) i recenti negoziati per la riduzione
dell’"effetto serra" (aumento anomalo della temperatura
terrestre). Ridurre le emissioni dei gas responsabili di
questo effetto è costoso per l’industria. Dunque ci si
dovrebbe attendere dai produttori una posizione di attesa,
data l’assenza di regolamentazioni globali stringenti.
Invece,
sorpresa: alcune grandi imprese chimiche e del petrolio
continuano in un’azione volontaria di riduzione delle
emissioni di gas serra. A esempio la Royal Dutch/Shell ha
deciso che, per valutare la convenienza dei suoi progetti
più
importanti, si dovranno contabilizzare anche i futuri costi
sociali delle emissioni di anidride carbonica (il principale
gas serra). E l’americana Du Pont si prefigge nei prossimi
dieci anni di ridurre di ben due terzi, rispetto al 1990,
le sue
emissioni di gas serra.
Secondo caso. La fabbrica di automobili della Ford a
Detroit, occupava negli anni d’oro 100mila operai; oggi sono
soltanto 10mila. Il sito è tragicamente inquinato da metalli
pesanti e prodotti carcinogeni. Sembrava ovvio
abbandonarlo, secondo la logica aziendale tradizionale.
Invece il pronipote del Ford fondatore, e attuale
presidente,
ha affidato a una squadra di ambientalisti ed esperti
industriali il compito di riprogettare il complesso. Lo
scopo è
dimostrare la possibilità di un "ambientalismo sostenibile",
con la costruzione di una linea di assemblaggio ad alta
efficienza energetica.
Terzo caso. Una multinazionale produttrice di beni di largo
consumo, Procter & Gamble, si allea con l’agenzia dell’Onu
per la protezione dell’infanzia (Unicef) per
commercializzare
una bevanda che riduce la carenza di micronutrienti, causa
della cecità di circa tre milioni di bambini, di
diminuzioni del
coefficiente di intelligenza e di altri mali.
Risolviamo il quiz. Nei tre accennati e in altri numerosi
casi
— sono infatti più di 300 gli accordi volontari ambientali
stipulati nell’Unione europea a livello nazionale, più molti
locali — riscontreremmo forse un’irrazionale esplosione di
altruismo aziendale senza ritorni economici?
La new economy ambientale avrebbe dunque superato il
"miracolo del mercato" celebrato da Adam Smith (il
produttore viene spinto dalla concorrenza a praticare il
prezzo minimo e il consumatore cerca il fornitore più
conveniente, cosicché dall’incontro fra due egoismi nasce il
vantaggio sociale della massimizzazione del valore della
produzione)? Nel nostro caso, infatti, la tutela ambientale,
prima esterna al mercato (poiché le risorse ambientali,
quali
l’aria pura, non hanno prezzo), verrebbe oggi a farne parte
senza necessità di intervento pubblico, ma grazie a scelte
altruiste delle imprese.
No: Smith, il "padre dell’economia", non è contestabile. Ma,
tra il suo Settecento e oggi, il mondo produttivo si è
affinato.
La soluzione del quiz, infatti, è una (parziale) novità,
che si
chiama: effetto reputazione. In altre parole alcune imprese,
come quelle citate, decidono un "sovradempimento"
(overcompliance) ambientale per acquisire ulteriori spazi di
mercato.
Ed ecco le prove. Un manager Shell (primo caso) afferma:
«Questo non è altruismo: giudichiamo che ci dia un
vantaggio competitivo». William Clay Ford jr. (secondo
esempio) sottolinea: «Se facessimo questo soltanto per
"dare il buon esempio", avremmo fallito» (anche qui, dunque,
si mira a una reputazione che porti profitto). E anche nel
caso P&G, che ha anche organizzato a Roma un convegno,
in collaborazione con Il Sole-24 Ore, il messaggio è
realista:
«Forniremo prodotti e servizi di qualità e valore superiori,
per migliorare la qualità della vita dei consumatori.
Essi ci
ricompenseranno con leadership nelle vendite e crescite nei
profitti».
Possiamo dunque rispedire a casa il ministro dell’Ambiente,
visto che le imprese si prendono in carico la qualità
ecologica? Non esageriamo. Per ora solo alcune grandi
imprese cercano di acquisire reputazione ambientale con
iniziative unilaterali. Né è detto che, anche per queste
ultime,
l’azione volontaria sia sufficiente a realizzare gli
standard
ambientali necessari. Infatti l’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico e l’Unione europea
lamentano, concordi, la bassa efficacia ambientale degli
accordi volontari tra Governi e imprese, in quanto (citiamo
l’Ocse) tali accordi «riflettono il ruolo centrale
dell’industria
nello stabilire gli standard, l’incertezza sulle
regolamentazioni
sostitutive, in caso di fallimento degli accordi,
monitoraggio
e trasparenza scadenti».
Ciò non deve tuttavia scoraggiare, poiché la politica delle
azioni volontarie è ancora giovane e perfettibile.
Inoltre, sul
lato positivo, si sottolinea la validità degli "effetti
morbidi"
(soft effects) già oggi esplicati da tale politica: la
diffusione
di consenso e partecipazione alle politiche ambientali
d’impresa, la diffusione di informazioni e comportamenti
appropriati.
L’opportunità di sfruttare iniziative volontarie in un
settore
ricco di valori come quello ambientale è provata dal
fatto che
l’efficiente Environmental Protection Agency americana si
sta vigorosamente dirigendo in questa direzione.
L’obbiettivo è stimolare la convenienza di azioni volontarie
responsabili, incentivate ad esempio da controlli pubblici
meno onerosi.
Da noi la strada del volontariato ambientale d’impresa è
stata iniziata con qualche accordo industria-ministero
dell’Ambiente, coi pregi e difetti accennati. Esistono
inoltre
le certificazioni ambientali volontarie Iso e quelle
Ecoaudit,
gestite dall’Agenzia nazionale per la protezione
dell’ambiente, in attuazione di una normativa europea
(Emas, Environmental Management and Audit System).
Ambedue garantiscono la validità metodologica e formale di
un rapporto aziendale che prova il rispetto della
normativa e
l’efficace gestione ambientale dell’impresa. Riguardo ai
prodotti, l’etichettatura ecologica, o Ecolabel, pure di
derivazione Ue, attribuisce ai beni certificati come
eco-compatibili un marchio che li rende riconoscibili al
consumatore. Purtroppo questi strumenti non hanno ottenuto
per ora grande successo.
Meglio fra tutti va la certificazione ambientale Iso, che
fornisce reputazione tramite un processo di certificazione
totalmente privato ed efficiente. Qualche esperto lamenta
però una deriva verso una certa faciloneria da parte di
alcuni
certificatori, che alla lunga toglierebbe credibilità allo
strumento. L’Emas e l’Ecolabel, introdotti in ritardo per
gelosie ministeriali, nonostante progressi faticosamente
compiuti portano il marchio di pesantezze burocratiche, che
ne rendono la penetrazione di mercato assai lenta.
Un intelligente sfruttamento dell’effetto di reputazione
ricercato dalle imprese con miglioramenti volontari alla
qualità ecologica resta comunque la nuova frontiera della
moderna politica ambientale, efficace e al tempo stesso
flessibile.
Per guadagnarsi questi nuovi territori non basta però
innestare sul corpaccione burocratico e ipernormato italiano
alcuni organismi per gestire Ecoaudit ed Ecolabel. Occorre
trasformare la mano pubblica da impicciona e punitiva in
leggera e capace di secondare, con intelligenza ma senza
collusioni, le capacità partecipative del mondo
produttivo. La
corsa è partita negli Usa, ed è ora nelle carte europee.
Mettiamoci al lavoro.