rassegna stampa: Giallo Parmalat



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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Tratto da Panorama.it
Giallo Parmalat
di   Angelo Pergolini
19/12/2003

Ugland House, Cayman, casella postale 309: è l'ultimo indirizzo conosciuto
dove sono finiti (e svaniti) quasi 7 miliardi di dollari. Sei cronisti di
Panorama hanno ricostruito tra due continenti il viaggio di un fiume di
soldi attraverso 260 società. Scoprendo anche una struttura parallela
all'azienda. Posseduta dall'ex direttore finanziario del gruppo di
Collecchio

Questa inchiesta è il frutto del lavoro di sei cronisti di Panorama che
hanno seguito le tracce lasciate dal denaro che, dalla Parmalat, è approdato
alle Cayman dopo aver girato da un continente all'altro. All'inchiesta hanno
partecipato: Anna Boiardi (Parma), Sabrina Cohen (Cayman), Marco De Martino
(New York), Antonio Rossitto (Lussemburgo) e Roberto Seghetti (Malta),
coordinati da Milano da Angelo Pergolini.
Fra l'alfa e l'omega di questa storia, fra la palazzina gialla in stile
liberty di Collecchio (Parma), sede della Coloniale, la società attraverso
cui Calisto Tanzi controlla la Parmalat, e il resort circondato da palme di
Georgetown (Grand Cayman, British West Indies, Caraibi) dove è domiciliato
il «fondo» Epicurum ci sono 5 mila miglia di distanza, 15 ore d'aereo (via
Londra) e 6 di differenza di fuso orario. Ci sono, soprattutto, 6,9 miliardi
di dollari che mancano all'appello. Forse incagliati nella off-shore caymana
Bonlat. Forse evaporati sotto il sole dei tropici. Oppure inghiottiti in una
casella postale: Po box 309.

Ma ci sono anche, come hanno scoperto gli inviati di Panorama, non una bensì
due reti di società off-shore. La prima in qualche modo riconducibile al
gruppo Parmalat. La seconda, che si sovrappone all'altra come il guanto alla
mano, fa capo invece a Fausto Tonna, 52 anni, per 15 onnipotente direttore
finanziario del gruppo Parmalat.
In questo arco di tempo il gruppo di Collecchio ha conosciuto una crescita
smisurata, passando da 7 miliardi di lire di fatturato a 7,5 miliardi di
euro. Ma la testa, la società Coloniale, è rimasta piccola: ha un capitale
di appena 190 milioni. Per sostenere lo sviluppo, e mantenere il controllo,
Tanzi avrebbe dovuto immettervi ingenti capitali. Che non aveva o comunque
non voleva tirar fuori. Così la trasformazione in multinazionale è avvenuta
seguendo un'altra strada: quella della finanza. E del debito.

Oggi, è la prima valutazione degli analisti che guidati da Enrico Bondi
stanno scavando nei bilanci della società, il debito dovrebbe superare i 9
miliardi di euro. E i bond collocati sul mercato sono complessivamente 7,2
miliardi. Cifre da far tremare i polsi. Ma il peggio non è il «passivo»
quanto l'attivo del gruppo. Che non c'è. O meglio: è sparito quasi
completamente. Dove? In una incredibile rete mondiale di società (Panorama
ne ha censite, sicuramente per difetto, oltre 260). Servivano per schermare
spericolate operazioni finanziarie, acquisizioni e cessioni infragruppo a
seconda delle esigenze di bilancio. E operazioni back to back che consentono
di esibire nei conti degli attivi inesistenti. E di far sparire, lontano
dall'occhio della centrale rischi e quindi della Banca d'Italia, quelli
veri. Una pratica che contribuì, e molto, al disastro della
Ferruzzi-Montedison.

In sostanza si tratta di ottenere un credito, poi di depositarlo presso una
banca estera. A quel punto la banca estera, avendo in garanzia quei soldi,
concederà facilmente altri fidi, da convogliare poi in qualche off-shore del
gruppo. Sui bilanci resterà così il credito ottenuto inizialmente,
un'apparente liquidità che potrà essere utilizzata per garantire, per
esempio, nuove emissioni obbigazionarie. Ma quei soldi depositati sono solo
un'apparenza, il frutto di un gioco di specchi. Questo è precisamente quanto
è avvenuto nel gruppo Parmalat. Con l'appoggio di grandi istituzioni
finanziarie, fra cui la filiale di New York della Bank of America e il
gruppo Citigroup.

Torniamo al mistero dei 6,9 miliardi di attivo svaniti e al cuore del
gruppo: la Parmalat holding. Tanzi, come abbiamo visto, la controlla
attraverso la finanziaria di famiglia Coloniale. Ed è il maggiore azionista
della Coloniale tramite una srl, la Utilitas. Finito? No. La Utilitas è
posseduta dalla Acqua sa domiciliata in Lussemburgo. Che a sua volta fa capo
alla Luxemburg management company group e alla Lm consulting company: ultimo
domicilio conosciuto, Virgin Islands. Questo è sostanzialmente cosa c'è
sopra la Parmalat finanziaria. Complicato? Niente, rispetto a quel che c'è
sotto.

Sotto c'è la Parmalat spa, la principale società industriale, quella da cui
esce il latte. Ma attenzione: è proprio a questa azienda che fa capo
Soparfi, una finanziaria lussemburghese. Domiciliata dove non si sa. Nel
palazzo vicino alla stazione indicato nei documenti ufficiali (place de la
Gare, 5) l'inviato di Panorama non ne ha trovato traccia. E il portiere
assicura: «Lavoro qui da molti anni. Mai sentito nominare né Parmalat né
Soparfi. Italiani non ne ho mai visti».
Per proseguire la caccia al tesoro basta andare al Registre de commerce et
des sociétés. E dagli archivi ecco spuntare le carte di Soparfi. Che dicono
due cose. Primo: la società è il perno di frenetiche compravendite
infragruppo, in tutte le parti del mondo. Secondo, ed è questa la cosa che
più ci interessa adesso, la Soparfi controlla una società maltese, la
Parmalat Malta holding, ltd.

Anche alla Valletta la prima sorpresa è un indirizzo. Quello ufficiale della
Malta holding è: Colonnello Savona street, 1. Ma a quel recapito c'è la sede
della Deloitte & Touche, la società di revisione del gruppo Parmalat. Un
domicilio decisamente sconveniente. «Ma no» minimizza Andrew Manduca,
partner della Deloitte, «è solo un domicilio formale. Come per un altro
centinaio di società». E indica l'indirizzo, decisamente virtuale, di Malta
holding: una stanza di tre metri per due. Vuota.
Il recapito vero della società maltese, o meglio quello del suo
amministratore, Ian Stafrace, è in un ufficio sgarrupato del centro storico
della Valletta, in Strait street. La strada di Malta più conosciuta dai
marinai della flotta di Sua maestà britannica, quando l'isola faceva parte
dell'impero: era quella dei bordelli. Stafrace dice, questa è la sintesi di
un'ora di conversazione, che non può dire nulla. Non resta di nuovo che
cercare le carte, depositate negli archivi del Registry of companies.
la Parmalat trading. Ma soprattutto la Parmalat capital finance, una
off-shore domiciliata a Malta (sempre nello sgabuzzino della Deloitte) e
registrata a Georgetown, Gran Cayman. Il suo luogo di nascita è Ugland
House, sede dello studio legale Maples & Calder. L'indirizzo: PO box 309. Ma
leggendo le carte si scopre molto di più. Che dopo essere sbarcata a Malta,
nell'aprile del 2002, Capital finance fa due sole cose.
Prima compra una società caymana, la Bonlat financing corporation. Costo
dell'operazione: 2 (due) dollari. Poi si trasforma in una sorta di imbuto
alla rovescia: e convoglia oltre Atlantico, nella pancia della Bonlat, una
somma smisurata: 6,9 miliardi di dollari. Per l'esattezza: 6.942.178.135,
iscritti a bilancio come «loan capital», capitale in prestito. È quasi
l'equivalente dell'intero attivo di tutto il gruppo Parmalat. Investito
come? Interamente in interest swap, ovvero in contratti derivati che
scommettono sui differenziali fra tassi d'interesse. Più che un rischio, una
follia.

Non resta, a questo punto, che volare oltre Atlantico, a Gran Cayman, e
cercare la Bonlat. Dove? Ma che domanda: a Ugland House. Dove ha sede, come
ormai noto, anche il «fondo» Epicurum, dentro cui la Parmalat ha versato 590
milioni di dollari.
Qui non siamo in Strait street: reception, vetri blindati, moquette verde
sul pavimento e pareti coperte d'ebano. L'avvocato Aristos Galatopoulos, uno
spilungone secco secco ma cordiale, non può dire molto. Anzi, non dice
niente. Glielo impone, si scusa, la legge delle Cayman. La situazione
Parmalat-Bonlat? «È piuttosto intricata». I rapporti Parmalat-Epicurum?
«Sono veramente complicati». Grazie.
Ma se la puntata a Ugland House non porta a nulla, a un tavolo del
Pappagallo, il ristorante di Georgetown più frequentato dalla comunità
finanziaria, qualche elemento salta fuori. A parlare è un banker americano,
giovane ma assai navigato sulla rotta Wall Street-Cayman-Virgin Islands.
Spiega, dietro la garanzia dell'assoluto anonimato, di avere preso parte (ma
non precisa a che titolo) a svariate operazioni. Fra cui Epicurum. Dice che
non si tratta di un fondo comunemente inteso, ovvero con delle quote più o
meno liquidabili, comprate da vari soci.

L'Epicurum è una società, esente da «registration». Può dunque fare quel che
gli pare. E alle spalle avrebbe un progetto: quello di operare in
joint-venture con la Parmalat. L'idea era quella di entrare in mercati dove
la Parmalat è assente o debole. Nell'operazione, il gruppo di Collecchio
avrebbe messo marchi e tecnologie, in cambio di royalty. I promotori
dell'Epicurum avrebbero provveduto a raccogliere i capitali.
Fino a un tetto autorizzato di 7 miliardi di dollari. Guarda caso, un
contenitore perfetto per quei 6,9 miliardi confluiti in Bonlat. «Ma poi»
commenta il banker «è saltato tutto e la società è in liquidazione». Ma la
Parmalat vi ha comunque investito 590 milioni di dollari: torneranno mai
indietro quei soldi? «Soldi? Mah, non è detto che Parmalat abbia investito
del cash. Potrebbero essere contratti finanziari, obbligazioni, crediti...».

La conversazione con il banker è terminata.
La caccia al tesoro al capolinea. Ma solo apparentemente.
Perché l'Epicurum con gli «attivi» conferiti dalla Parmalat un investimento
l'ha fatto. No, non in bond con rating A, come garantito dalla società di
Collecchio, ma in una società lussemburghese, la Third Millennium.
A questo punto non resta che ricominciare il gioco dell'oca dal punto esatto
in cui era iniziato: il Registre de commerce e des societés del Lussemburgo.
E allora salta fuori che la Third Millennium è stata fondata da una persona
che con la finanza off-shore della Parmalat ha molto, ma molto a che fare:
Fausto Tonna.
Il quale costituisce la società in compagnia della moglie.
Ma a Tonna e signora fa anche capo una srl di Collecchio, la Racemo. E che
cosa fa questa società con 10 mila euro di capitale? Possiede una off-shore
maltese, la Rtm Malta holding.
Che a sua volta controlla un'altra società maltese, la Rtm winery holding.
Ma facendo due passi indietro e tornando a Third Millennium scopriamo che la
finanziaria lussemburghese possiede una società caymana, la Sailor ltd.
Scommettiamo a questo punto che indovinate il suo domicilio? Sì, è proprio
Ugland House. E l'indirizzo? Ma è ovvio: Po box 309.

Adesso, ritornati al capolinea caraibico, mettiamo un po' d'ordine in questa
storia.
La ragnatela Parmalat, dove si sono smarriti 6,9 miliardi di dollari di
attività, parte da una srl di Collecchio, si snoda fra Lussemburgo e Malta.
Infine approda alle Cayman. Quella personale di Tonna ricalca
sorprendentemente lo stesso itinerario: Collecchio, Lussemburgo, Malta,
Cayman. La domanda è scontata: perché?
Per quale motivo l'ex direttore finanziario della Parmalat ha costruito una
sua personalissima rete off-shore? Infine: ci sono altri punti di contatto,
oltre a Epicurum, fra queste due reti?
Sono interrogativi che, c'è da scommetterci, si sta ponendo anche Bondi. E
forse lo stesso Tanzi. Che ha costruito un impero partendo da una salumeria
fra le nebbie di Collecchio. E lo ha perso in una casella postale, al sole
delle Cayman.
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Il banchiere imprenditore e «l'invidia»

Carriera di Luciano Silingardi, presidente della Fondazione Cariparma e
grande amico di Tanzi

Ha un sorriso bonario, il tono affabile e un'inconfondibile cantilena
parmigiana. Ma le parole sono lapidarie: «Con Calisto e con la Parmalat,
mentre ero direttore della Cassa, non ho mai avuto rapporti finanziari.
Niente di niente».
Luciano Silingardi, fino al giugno 2000 presidente della Cariparma e
Piacenza, ora al vertice della fondazione della stessa banca, liquida così
le voci che lo vogliono «burattino finanziario» del re del latte, sempre
pronto a scucire soldi nel momento del bisogno.
E delle sue recenti dimissioni dal consiglio d'amministrazione della
Parmalat, dove era presidente del comitato per il controllo interno, dice:
«Ho fatto solo e sempre il mio dovere.
Il fondo Epicurum, fino a novembre, non sapevo nemmeno cosa fosse». È nella
bufera, Luciano Silingardi, suo malgrado. Lui che vorrebbe sempre spenti i
riflettori perché «la pubblicità porta invidia». È sui giornali, assieme
all'amico Calisto, conosciuto sui banchi dell'Istituto tecnico Melloni, e
poi frequentato fino a diventarne il commercialista di fiducia.
È stato Tanzi, dicono, il fautore della sua fortuna: una telefonata a
Ciriaco De Mita e Silingardi inizia la scalata alla Cassa di risparmio. Lui
ammette l'aiuto, ma «se tutti i raccomandati avessero ottenuto i miei
risultati...». Silingardi ne ha fatta di strada: una serie di fusioni
eccellenti hanno fatto crescere la Cariparma da banca di provincia a
istituto bancario di prim'ordine, fino al matrimonio con la Banca Intesa,
nel '98.
Ha poi ricoperto cariche strategiche, per un anno nel cda della banca di
Giovanni Bazoli, poi nel 2001 al tavolo dei consiglieri di Parmalat. «Io
sono uno di quei presidenti operativi» ha annunciato Silingardi, «un
banchiere imprenditore».
Poca vita sociale, però, qualche puntata al circolo di tennis Castellazzo,
sempre in tribuna a tifare il Parma: «Tutto banca, famiglia e Dc» lo hanno
dipinto, per quei trent'anni di tessera del partito, e la dedizione alla
moglie Maria Grazia e ai due figli, Andrea e Marco, che mandano avanti lo
studio da commercialista.
E poi, nonostante tutto, qualche nemico. E qualche neo: l'acquisizione del
Credito commerciale, nel novembre del '93, comprato al doppio del suo valore
dal Monte Paschi.
Mossa, dicono, sponsorizzata dall'amico Tanzi. E una storia di spionaggio
nei confronti di un ex dipendente, Gianluca Zanichelli, di un giornalista
della Voce di Parma e di un industriale parmigiano, Luigi Derlindani,
risolta con un'assoluzione per prescrizione. «Sciocchezze e falsità. C'è
sempre qualcuno un po' invidioso» minimizza lui.

(A. B.)
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