sos rifiuti dall'immondizia all'energia



dalla stampa - tuttoscienze di mercoledi 4 aprile 2001

 
  SOS
 
  
  
 
un giacimento di gas alla periferia nord di Torino. E' quello generato
dalla discarica dei rifiuti dell'Amiat nel triangolo fra la tangenziale, la
superstrada per l'aeroporto e il torrente Stura di Lanzo. Il gas, o meglio
il biogas, si forma dalla decomposizione della parte organica dei rifiuti,
come residui di cibo, carta, legno, in condizioni anaerobiche, cioè in
assenza di ossigeno. Se non si interviene, questo gas, che per metà è
metano, per il 45% anidride carbonica e per il restante 5% inquinanti vari,
esce lentamente dal "sacco" della discarica e si disperde nell'atmosfera
contribuendo fortemente all'effetto serra. Si sente dire spesso che è
necessario trasformare i rifiuti (i torinesi ne producono 1,44 chilogrammi
a testa ogni giorno) da ingombrante problema a vera e propria risorsa. Ecco
fatto: sulla discarica torinese, che dopo quella romana di Malagrotta è la
più grande d'Europa, è sorto un impianto di captazione e sfruttamento del
biogas per la produzione di elettricità che è cresciuto negli anni insieme
con le dimensioni della discarica: oggi, fornisce 40 milioni di kilowattora
(pari a 9 mila Tep (tonnellate equivalenti di petrolio), che costituiscono
l'assorbimento medio annuo di energia elettrica di 20 mila famiglie, un
quartiere cittadino. L'origine della discarica risale alla fine della
guerra quando lungo la Stura vennero gettate le macerie dei palazzi
torinesi distrutti dai bombardamenti; a partire dalla metà degli anni '70
vi confluirono anche i rifiuti urbani, 4 milioni di metri cubi fino al
1983, quando questa prima discarica fu chiusa; oggi sulla collinetta alta
una trentina di metri crescono gli alberi e vivono lepri, fagiani e poiane.
Intanto era stata costruita nelle adiacenze la nuova discarica, estesa su
66 ettari. 
Attualmente la collina dei rifiuti, alla quale continuano ad arrivare ogni
giorno oltre 3000 tonnellate di materiale, è perforata da 110 pozzi, in
parte verticali, in parte (quelli sui bordi) inclinati, costituiti da tubi
di acciaio da 200 millimetri, forati e circondati da ghiaia per favorire il
drenaggio del biogas, che scendono fino a un massimo di 25 metri; ogni
pozzo è collegato con un tubo di polietilene ad alta densità ad un centro
di raccolta (oggi sono 9 ma arriveranno a 13), collegato a sua volta a un
collettore da 400 millimetri. Tutte le operazioni di estrazione sono
monitorate istante per istante per impedire che si formino esplosive
miscele di biogas e ossigeno e per evitare di "uccidere" la discarica con
un prelievo eccessivo. Nella produzione di energia elettrica il biogas
viene utilizzato così com'è dopo una sommaria filtrazione per far
funzionare una serie di grandi motori: i più recenti sono dei Caterpillar a
16 cilindri da 1100 kilowatt di potenza che consumano 700 metri cubi l'ora.
I sei motori attuali hanno in totale una potenza di 6 mila kilowatt, che
saliranno a 7 mila con la sostituzione dei motori più vecchi. Anche in
questa fase i controlli sono costanti e minuziosi, in particolare sulle
emissioni nell'atmosfera, già ora ridotte al minimo. 
E c'è un progetto per utilizzare anche il calore dei camini per produrre
vapore con cui ottenere un'ulteriore quota di elettricità. L'energia
elettrica viene infine immessa sulla rete Enel. Il biogas è impiegato anche
per la centrale termica dell'Amiat e per alimentare il vicino forno di
incenerimento del Comune di Torino. Il biogas per autotrazione deve invece
essere sottoposto a depurazione in un impianto apposito per eliminare
l'anidride carbonica e gli altri inquinanti in modo a ottenere metano puro;
attualmente vengono alimentati due compattatori e quattro vetture
dell'Amiat ma altri compattatori sono in arrivo per aumentare la flotta
ecologica. La discarica torinese è ormai vicina alla saturazione e la
chiusura è già stata fissata per il 31 dicembre del 2003, quando verà
sigillata con uno strato di argilla ricoperto di terra su cui potranno
crescere erba e alberi. Ma la produzione di biogas continuerà per altri 20
anni: dai 12.122 metri cubi orari teorici di quest'anno si salirà a un
picco di 13.545 nel 2004 per calare gradualmente a 2586 nel 2023. Intanto
si dovrà costruire l'inceneritore. Come si sa, la scelta del luogo è
difficile mentre il sito dell'attuale discarica è fin da ora escluso perché
destinato a far parte del parco fluviale del Po; una cosa però è certa:
l'impianto non dovrà semplicemente essere un luogo in cui bruciare i
rifiuti ma un «termovalorizzatore»: cioè un impianto che brucerà rifiuti
(dopo la selezione) per produrre energia elettrica e acqua calda nel
rispetto dell'ambiente.
 
I NUOVI INCENERITORI
 
Tuttoscienze TUTTOSCIENZE Come trasformare montagne di immondizia in una
fonte energetica

  
 
IN ecologia è noto come effetto nimby, acronimo di Not In My Back-Yard,
«non nel mio giardino», e indica l’opposizione da parte di un cittadino o
di una comunità a farsi piazzare un recipiente per la spazzatura, una
centrale o un qualsiasi altro apparecchio con un potenziale impatto
ambientale negativo, dietro l'orto di casa o comunque a una distanza poco
rassicurante. Tra tutti, gli impianti meno graditi sono gli inceneritori
dei rifiuti e - come sono definiti con un eufemismo che basterebbe da solo
a generare una montagna di diffidenza - i termovalorizzatori, che rispetto
ai primi si distinguono per essere provvisti d'una sezione per il recupero
del calore prodotto nella combustione di rifiuti pretrattati, ad alto
potere calorifico. In Italia gli inceneritori di rifiuti urbani attivi sono
almeno 40, in grado di trattare ogni anno quasi 2 milioni di tonnellate di
rifiuti. Due terzi sono nel nord della penisola e almeno 20 sono in grado
di recuperare l'energia che si libera dalla combustione dei rifiuti (ma,
per legge, gli impianti costruiti dopo il 1999 devono essere in grado di
farlo). Essi variano per capacità di trattamento (da 1 a 30 tonnellate di
rifiuti l'ora), sistema di combustione, tecnologie per il trattamento dei
fumi. Di altri 6 impianti è prevista la costruzione nei prossimi mesi, tra
cui quelli di Terni e Cisterna di Latina. Di questi ultimi si sono occupate
di recente anche le cronache, per via delle energiche campagne promosse
delle popolazioni che vivono in vicinanza dei siti prescelti, preoccupate
per gli effetti che le emissioni degli inceneritori possono avere sulla
salute e sull'ambiente. 
In effetti i fumi che escono dai camini degli inceneritori possono
contenere centinaia di composti diversi, in forma solida (le polveri fini
respirabili, di diametro inferiore a 2 micron, ritenute responsabili di
malattie all'apparato respiratorio) e gassosa. I composti più critici sono
il cloruro e il fluoruro di idrogeno, il biossido di zolfo, il monossido e
biossido di azoto e le famigerate diossine, indiziate di svolgere un ruolo
nella cancerogenesi umana. La natura e il volume di questi effluenti
variano in funzione di molti fattori, ma principalmente delle
caratteristiche dei rifiuti in entrata, delle peculiarità tecniche
dell'impianto e dei sistemi di trattamento dei fumi. Il quadro normativo in
vigore offre adeguate garanzie. In particolare, il DPR 503/97, che
recepisce due direttive comunitarie specifiche sulla prevenzione
dell'inquinamento atmosferico causato dagli inceneritori di rifiuti urbani
e di rifiuti non pericolosi, ha introdotto limiti molto restrittivi sulla
concentrazione dei principali inquinanti nelle emissioni. Anche una recente
direttiva europea (2000/76/CE) ha definito regole molto rigorose per
l'incenerimento dei rifiuti, l'adozione di particolari condizioni di
esercizio (per esempio, una temperatura minima di combustione) e requisiti
tecnici per gli impianti di incenerimento. 
In Italia, per via del DPR 503/97, una larga percentuale degli inceneritori
ha dovuto adottare interventi di ristrutturazione per adeguarsi alla
normativa vigente; altri hanno potuto continuare a funzionare grazie alla
concessione di proroghe; altri ancora sono stati costretti alla chiusura
definitiva. Infatti, il rispetto dei limiti delle concentrazioni di alcuni
tra i più critici inquinanti indicati dalla legge - che per la diossina è
di 0,1 nanogrammi (ng, pari a un miliardesimo di grammo) per metro cubo - e
l'obbligo stabilito per i nuovi impianti di recuperare l'energia contenuta
nei rifiuti, significano un aumento di circa il 50% dei costi
d'installazione, gestione e manutenzione degli impianti. Con queste
premesse, solo i grandi impianti dotati delle migliori tecnologie
disponibili per il processo di combustione e per l'abbattimento delle
polveri e degli inquinanti nei fumi (filtri, dispositivi di lavaggio dei
fumi) potranno essere in regola con i requisiti richiesti. Altro elemento
da considerare è la strategia europea di "gestione integrata" dei rifiuti,
che si attua attraverso la prevenzione alla loro produzione, il recupero
(in primis la materia - vetro, plastica, carta e cartone, metalli - e
quindi dell'energia contenuta nel rifiuto) e in ultimo lo smaltimento in
discarica. In Italia, il decreto legislativo 22/97 - noto come Decreto
Ronchi - (http://www.minambiente.it/Main.asp?Pag=Pubblicazioni/InfoMa
in.htm), che dà corso a tale politica, stabilisce che il nostro paese dovrà
essere in grado di sottoporre a raccolta differenziata almeno il 25% dei
rifiuti entro la fine del 2001 e almeno il 35% entro il 2003. Ne risulta
che solo una frazione secca, «termovalorizzabile», dei rifiuti urbani
prodotti viene avviata all'incenerimento, con meno plastiche (quelle
clorurate sono le maggiori indiziate nel processo di formazione di diossine
e furani), e materiali recuperabili, con un contenuto energetico doppio
rispetto a quello che deriva da una raccolta non differenziata (il che
rende tecnologicamente inadeguati i forni dei vecchi inceneritori,
dimensionati per ricevere rifiuti urbani tal quali). Il decreto prevede
anche un recupero delle scorie derivanti dall'incenerimento: «Tuttoscienze»
n. 939 ha riferito di interessanti esperienze già avviate in Italia. 
(*)Anpa, Agenzia Nazionale Protezione Ambiente