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verso l'eco - economia
- Subject: verso l'eco - economia
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 09 Apr 2001 18:12:04 +0200
da boiler.it di venerdi 6 aprile 2001 ANTICIPAZIONE Verso l’eco-economia di Gianfranco Bologna prefazione allo State of the World 2001 del Worldwatch Institute (Edizioni Ambiente, 40 mila lire) La nostra impronta ecologica Nell’ottobre 2000 il Wwf Internazionale in collaborazione con il World Conservation Monitoring Centre del Programma Ambiente dell’Onu (Unep), con Redefining Progress e con il Centre for Sustainability Studies ha pubblicato il suo rapporto Living Planet Report 2000. In esso vengono presentati i dati relativi a due indicatori aggregati relativi allo stato ambientale del pianeta, uno relativo allo stato di salute della biodiversità, l’indice del pianeta vivente e l’altro relativo allo stato di pressione umana sui sistemi naturali, l’impronta ecologica, indicatore aggregato elaborato originariamente da William Rees e Mathis Wackernagel e che è ben noto a livello internazionale (Wackernagel e Rees, 1996 e Chambers, Simmons e Wackernagel, 2000). L’indice del pianeta vivente è un indicatore dello stato di salute di tre ecosistemi planetari, quello di foresta, quello delle acque dolci e quello degli oceani e dei mari che misura i cambiamenti che si verificano nel corso del tempo nelle popolazioni di un numero selezionato di specie animali caratteristiche di tali ecosistemi. L’indice è calcolato dal 1970 al 1999 e complessivamente mostra una diminuzione di circa il 33 per cento. Per quanto riguarda gli ambienti forestali l’indice include 319 specie animali che mostrano un declino medio di circa il 12 per cento nel periodo considerato; per gli ambienti delle acque interne include 194 specie che sono diminuite con una media del 50 per cento, sempre dal 1970 a oggi, e per gli ambienti marini include 217 specie animali che sono diminuite di circa il 35 per cento in media nello stesso periodo. L’impronta ecologica misura il consumo alimentare, materiale ed energetico della popolazione umana sulla superficie terrestre o marina necessaria per produrre le risorse naturali o, nel caso dell’energia, sulla superficie terrestre necessaria ad assorbire le emissioni di anidride carbonica. L’impronta ecologica di una persona è data dalla somma di sei diverse componenti: la superficie di terra coltivata necessaria per produrre gli alimenti, l’area di pascolo necessaria per produrre i prodotti animali, la superficie di foreste necessaria per produrre legname e carta, la superficie marina necessaria per produrre pesci e “frutti” di mare, la superficie di terra necessaria per ospitare infrastrutture edilizie e la superficie forestale necessaria per assorbire le emissioni di anidride carbonica risultanti dal consumo energetico dell’individuo considerato. L’impronta ecologica è misurata in “unità di superficie”. Un’unità di superficie equivale a un ettaro della produttività media del pianeta. L’impronta ecologica globale dal 1960 al 1996, ci dice il Living Planet Report 2000 (che per questa parte è stato curato proprio da Mathis Wackernagel e la sua equipe), è aumentata di circa il 50 per cento, un incremento di circa l’1,5 per cento l’anno. La crescita dell’impronta ecologica globale della specie umana sui sistemi naturali nel periodo considerato, indica che, intorno alla metà degli anni Settanta, l’umanità ha sorpassato il punto in cui viveva entro i limiti della capacità rigenerativa globale degli ambienti del pianeta. Nel 1996, l’anno più recente per il quale sono disponibili i dati per il calcolo dell’impronta ecologica, vi erano 12,6 miliardi di ettari di terra biologicamente produttiva che coprivano appena un quarto della superficie terrestre. Questi erano formati da 1,3 miliardi di ettari di terra coltivata, 4,6 miliardi di ettari di pascolo, 3,3 miliardi di ettari di foreste, 3,2 miliardi di ettari di superficie marina disponibile per le attività di pesca e 0,2 miliardi di ettari di terreno edificato. Questa disponibilità equivale a 2,2 ettari per ognuna delle 5,7 miliardi di persone che popolavano la Terra nel 1996 (nel 1999 abbiamo superato i 6 miliardi di abitanti). Se consideriamo che almeno il 10 per cento di tutto lo spazio biologicamente produttivo dovrebbe essere lasciato indisturbato per il resto delle altre specie che con noi dividono l’avventura della vita su questo pianeta, lo spazio disponibile si restringe da 2,2 a 2,0 unità di superficie a persona. L’impronta ecologica media mondiale era di 2,85 unità di superficie a persona nel 1996. Questo dato supera di circa il 30 per cento l’attuale spazio biologicamente produttivo disponibile per ogni individuo o anche di più, se parte dello spazio è lasciato esclusivamente alle altre specie. In altre parole l’impronta ecologica dell’umanità, già nel 1996, era di circa il 30 per cento superiore dell’area disponibile. Questa eccedenza porta inevitabilmente a un graduale esaurimento delle risorse naturali della Terra, come si può osservare dal contestuale declino dell’indice del pianeta vivente. Il Living Planet Report 2000 riporta, per la prima volta, il calcolo dell’impronta ecologica di tutti i paesi del mondo. L’Italia presenta un’impronta ecologica pari a 5,51 unità di superficie a persona (con una popolazione al 1996, di 57 milioni e 366 mila abitanti) a fronte di una sua capacità biologica di 1,92 unità di superficie a persona, il che significa che questa non basta a soddisfare l’attuale consumo di risorse degli italiani. Registriamo pertanto un deficit ecologico di 3,59 unità di superficie a persona. In pratica per mantenere la nostra popolazione ai nostri livelli di consumo ci servono altre due Italie. Dati simili si riscontrano per numerosi paesi industrializzati (basti pensare che gli Stati Uniti hanno un impronta ecologica di 12,22 unità di superficie pro capite con una capacità biologica di 5,57 unità di superficie e un deficit ecologico di 6,66 unità di superficie pro capite) mentre i paesi poveri, in particolare quelli dell’Africa subsahariana, presentano impronte ecologiche molto basse (l’Etiopia ha un’impronta ecologica di 0,85 unità di superficie pro capite). Trenta lingue, un milione di copie I dati presentati nel Living Planet Report 2000 non fanno che confermare quanto da decenni con grande capacità di analisi interdisciplinare, Lester Brown e la sua equipe di ricercatori del Worldwatch Institute (l’istituto di Washington che Brown fondò nel 1975) vanno analizzando e pubblicando in una serie di volumi che ormai costituiscono un punto di riferimento ineludibile per chiunque desideri conoscere il più possibile sulla nostra relazione con i sistemi naturali. Di questi volumi la serie dei rapporti State of the World, inaugurata nel 1984, costituisce senza dubbio il riferimento più chiaro, documentato e aggiornato a disposizione di tutti, dagli specialisti al grande pubblico. Non è un caso che il rapporto annuale viene ormai pubblicato in oltre trenta lingue con oltre un milione di copie vendute ogni anno ed è certamente il testo ambientale più diffuso nel mondo. Personalmente ho l’enorme piacere di curare l’edizione italiana da quattordici anni e la profonda amicizia che mi lega a Lester Brown e a tanti ricercatori del Worldwatch la considero una delle più affascinanti avventure umane e intellettuali della mia vita. Brown ci ha sempre ammonito sul fatto che, con ogni probabilità, la nostra pressione sui sistemi naturali, che ormai quotidianamente possiamo constatare come sia insostenibile, ci abbia condotto oltre le capacità di sopportazione e di rigenerazione dei sistemi stessi. I dati dei lavori di Wackernagel e della sua equipe di ricercatori oggi ci indicano, come abbiamo sopra ricordato, che per quanto riguarda il calcolo dell’impronta ecologica, intorno alla metà degli anni Settanta, abbiamo sorpassato il punto in cui vivevamo entro le capacità rigenerative degli ambienti della Terra. Certamente l’impronta ecologica è solo un indicatore aggregato, che peraltro fornisce un’ indicazione per difetto del nostro impatto e, come tale, non considera numerosi elementi che dovrebbero invece essere tenuti in conto per avere un quadro più completo del nostro impatto (si pensi, ad esempio, agli inquinanti che emettiamo quotidianamente nell’aria, nell’acqua e nel suolo, ai rifiuti solidi urbani, alle sostanze chimiche tossiche da noi prodotte ecc., non considerate nel calcolo dell’impronta). Ulteriori chiare documentazioni dello stato di sofferenza dei sistemi naturali della Terra ci provengono dal rapporto biennale World Resources 2000-2001 realizzato dal World Resources Institute, dall’Unep, dall’Undp e dalla Banca Mondiale, dedicato proprio allo stato di salute degli ecosistemi e intitolato People and Ecosystems: The Fraying Web of Life. Il rapporto rende noto i risultati del progetto Page (Pilot Analysis of Global Ecosystems) dedicato ad analizzare lo stato dei cinque maggiori ecosistemi planetari (foreste, acque dolci, coste e mare, praterie e aree agricole). Il progetto Page costituisce l’avvio di un vasto Millennium Ecosystem Assessment che vuole cercare di rispondere alla domanda chiave del secolo: cosa sta accadendo alla capacità della Terra di supportare la natura e la nostra civiltà? Il Page rileva che tutti gli ecosistemi planetari presentano segni di sofferenza, declino e difficoltà di ripresa rispetto alla pressione esercitata dalla specie umana. Metà delle zone umide del pianeta sono state perdute nello scorso secolo, il 58 per cento delle barriere coralline sono minacciate dalle attività umane, l’80 per cento delle praterie soffre di degrado dei suoli, il 20 per cento delle zone aride sono in procinto di trasformarsi in deserti, le acque dolci sono minacciate dappertutto, le foreste continuano ad essere distrutte a ritmi allarmanti. Giustizia sociale e sostenibilità ambientale È ormai palese che la nostra azione quotidiana non fa che indebolire la capacità di sopportazione e rigenerazione dei sistemi naturali e di questo dato di fatto esiste una consapevolezza diffusa che stenta ancora a tramutarsi in azione diretta e consapevole, tesa a far cambiare rotta ai nostri attuali modelli di sviluppo sociale ed economico. Non solo ma gli effetti concreti della globalizzazione economica e finanziaria delle società umane in tutto il pianeta non fanno che esacerbare e aggravare la situazione. Il decimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Umano dedicato alla globalizzazione (1999) ci ricorda che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale possiede l’86 per cento del prodotto globale lordo, mentre il 20 per cento più povero possiede solo l’1 per cento del prodotto globale lordo e che il divario di reddito tra il quinto degli individui che vive nei paesi più ricchi e il quinto che vive nei paesi più poveri è passato da 30 a 1 del 1960, a 60 a 1 nel 1990, a 74 a 1 nel 1997. La Banca Mondiale (2000) ci ricorda che 2,8 miliardi di persone sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno, 1,2 miliardi con meno di 1 dollaro al giorno e 1,1 miliardo di persone sono denutrite. Non a caso Sandra Postel, per anni ricercatrice al Worldwatch e poi direttrice del Global Water Policy Project, ha scritto nello State of the World 1992: «Detto semplicemente, il sistema economico mondiale è incapace di affrontare insieme il problema della povertà e quello della protezione ambientale. Curare i mali ecologici della Terra separatamente dai problemi legati a situazioni debitorie, squilibri commerciali, sperequazioni nei livelli di reddito e di consumo è come cercare di curare una malattia cardiaca senza combattere l’obesità del paziente e la sua dieta carica di colesterolo: non esiste la possibilità di successo finale». Il già citato rapporto Undp sulla globalizzazione ricorda che è necessario intervenire sui fenomeni di globalizzazione prestando grande attenzione a sei componenti fondamentali che sono: 1. etica: diminuire le violazioni dei diritti umani, non aumentarle; 2. equità: diminuire le disparità all’interno e tra le nazioni, non aumentarle; 3. integrazione: diminuire la marginalizzazione di individui e paesi, non aumentarle; 4. sicurezza umana: diminuire l’instabilità delle società e la vulnerabilità degli individui, non aumentarle; 5. sostenibilità ambientale: diminuire il degrado ambientale, non aumentarlo; 6. sviluppo: diminuire la povertà e la deprivazione, non aumentarle. Purtroppo oggi non si sta intervenendo seriamente su queste sei componenti e, drammaticamente, gli effetti negativi stanno aumentando. Scrive Susan George nel suo volume Il Rapporto Lugano (2000): «I difensori dell’ordine neoliberista affermano che in ultima analisi questo creerà molti più vincenti che perdenti, perché la crescita economica un giorno arriverà a provvedere a tutti e tutti saranno oggetto della sua generosità. Tutti ne beneficeremo. Questa frase ricorre continuamente in letteratura, viene pronunciata dal Fondo Monetario Internazionale alla Camera di commercio internazionale e viene usata come giustificazione di politiche severe, di licenziamenti e in generale della sofferenza umana che verrà ricompensata in un radioso futuro. Questa affermazione è falsa. La politica del ventunesimo secolo non si occuperà della spartizione della torta come è avvenuto nel dopoguerra durante l’era dello stato assistenziale, né di chi riceverà quali risorse, quando e come; non si occuperà nemmeno di chi può dare ordini a chi: la politica si baserà sulla questione serissima della sopravvivenza… Non si può avere un’economia globale che arricchisca poche persone oltre ogni precedente, che spinga la ricchezza inesorabilmente verso l’alto e che crei decine di milioni di perdenti, il tutto mantenendo la natura vergine e immacolata e la coscienza pulita». In tutto il mondo è ormai sempre più ampio un movimento di opinione che riunisce tantissime organizzazioni non governative del Nord e del Sud del mondo e tantissimi singoli individui, impegnati nella difesa dei diritti civili, nel commercio equo e solidale, nella difesa dell’ambiente e nella promozione di uno sviluppo meno insostenibile dell’attuale, che hanno ben compreso lo stato attuale dell’economia, della finanza e della politica e degli intrecci che stanno conducendo a una globalizzazione con effetti devastanti per la salute degli ambienti e degli abitanti del pianeta. Questo movimento sta lavorando alacremente per controllare l’azione delle grandi istituzioni internazionali, finanziarie e commerciali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio), per elaborare proposte concrete di cambiamento e per far capire che l’opinione pubblica comincia ad essere sensibile e informata su problematiche complesse che sono sempre state appannaggio, sino a qualche anno fa, solo di paludate riunioni di esperti finanziari ed economici internazionali. In Italia un ruolo molto importante in questo senso lo hanno le diverse organizzazioni e campagne (dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo a Mani Tese, dai Bilanci di Giustizia alle Botteghe del Commercio equo e solidale, da Pax Christi al Wwf) che si sono riunite nella Rete di Lilliput elaborando anche un progetto per “Un’Italia capace di futuro” (vedasi Bologna, 2000). L’accurato lavoro svolto da decenni dal Worldwatch Institute costituisce una base preziosa per l’acquisizione di elementi di analisi interdisciplinare che chiariscono meglio la comprensione del complesso quadro attuale e la ricerca di soluzioni innovative rispetto allo status quo. Economia e sistemi naturali Con l’entrata nel nuovo secolo penso e mi auguro che siano ormai abbastanza consolidate alcune consapevolezze che nascono dall’evidenza dei fatti: 1. il nostro sistema economico e produttivo è un sottosistema del più ampio sistema naturale, grazie al quale vive, e non viceversa. Considerare l’economia come il sistema principale non solo non riflette la realtà ma ci conduce a situazioni disastrose che possono diventare, ammesso che non lo siano già ora, irreversibili. I nostri processi economici trasformano energia e materie prime disponibili in beni e servizi, liberando nei sistemi naturali rifiuti, inquinamenti, entropia dovuti proprio a questi stessi processi. Il nostro sistema economico e produttivo opera, in termini termodinamici, come un sistema aperto in un sistema chiuso e ciò non può aver luogo all’infinito; 2. la crescita della popolazione, la crescita continua del prodotto globale lordo, la crescita continua dei consumi non possono continuare come se nulla fosse. Oggi in meno di due settimane il nostro sistema economico e produttivo “produce” l’equivalente della massa totale dei beni fisici prodotti nell’intero anno 1900. I limiti dei sistemi naturali non sono affatto rispettati dal nostro sistema economico e produttivo. Anche se il progresso tecnologico puo cercare di ritardare il raggiungimento di soglie pericolose, non è però affatto in grado di arrestare il processo che vi conduce, a meno che non si decida di cambiare rotta; 3. non sembra ci siano più dubbi sul fatto che la stessa economia di libero mercato è oggi minacciata dalla crescita. La crescita è vista da tutti i leader politici e dalla stragrande maggioranza degli economisti come il motore fondamentale dell’economia o ogni assenza di crescita è considerata un declino economico. Oggi invece è diventato un vero imperativo categorico riesaminare e ridefinire il concetto di crescita. Sappiamo ormai bene che la crescita economica non è più correlata a un aumento generale del benessere. Anzi i processi di crescita provocano uno straordinario incremento di danni sociali e ambientali che la stessa disciplina economica non ha mai considerato e che hanno raggiunto dei “costi”, anche in termini squisitamente economici, intollerabili; 4. ormai non assistiamo solo a un “restringimento” delle risorse disponibili, quindi a una scarsità in termini assoluti di risorse fondamentali per i nostri sistemi produttivi, come ad esempio, il petrolio, ma, soprattutto, una riduzione delle capacità globali dei sistemi naturali di produrre risorse, sopportare il nostro impatto, assorbire i nostri rifiuti. È evidente a tutti che alla popolazione attuale di oltre 6 miliardi di esseri umani, ai 7 previsti già per la fine di questo primo decennio del nuovo secolo e agli 8 previsti per la fine del secondo decennio sarà impossibile garantire un livello di consumo e uno stile di vita simili a quelli di un nordamericano od un europeo occidentale medio. È ormai sempre più evidente che il nostro futuro si giuocherà sulla capacità che le nostre società e i sistemi politici ed economici che li rappresentano, avranno di individuare, con rapidità e concretezza, nuovi modelli di sviluppo sociale ed economico. Purtroppo il mondo economico, finanziario e politico internazionale continua a far trionfare un sistema di economia di libero mercato, fondamentalmente senza regole e controlli, che sta mettendo a seria prova gli equilibri dinamici dei sistemi naturali e gli equilibri dinamici delle nostre società, profondamente scosse dal punto di vista etico e di responsabilità per le generazioni future. Agire concretamente vuol dire attivare politiche che consentano di avviare modelli di sviluppo socio-economico meno insostenibili dell’attuale e, certamente, che modifichino, anche in profondità, il sistema di economia di mercato libero, oggi dominante. L’incapacità di governo degli effetti provocati da questo sistema sono sotto gli occhi di tutti e hanno prodotto devastazioni ambientali profondissime, ineguaglianze sociali intollerabili, crescita della povertà e dell’indigenza, crescita della corruzione, crescita dell’incontrollabilità di crisi politiche, finanziarie e sociali. Gli organismi delle Nazioni Unite, i maggiori centri di ricerca internazionali, le più prestigiose accademie scientifiche ci ammoniscono, da anni, sugli effetti drammatici del nostro impatto sui sistemi naturali e sulle difficoltà, sempre crescenti, che essi hanno di reagire e di recuperare agli stress continuamente inferti. Il Worldwatch Institute, da questo punto di vista, ha svolto un ruolo encomiabile, ponendosi da sempre come pioniere nelle analisi della situazione in cui versiamo e nelle proposte per cercare di avviare percorsi economici e sociali diversi dagli attuali. In questi mesi Lester Brown sta lavorando al suo nuovo libro che si intitolerà Eco-economy destinato proprio a far comprendere l’ineludibilità di un sistema economico che deve “connettersi” con i sistemi naturali e da essi deve farsi ispirare e guidare invece di cercare di dominarli. Nessuno può oggettivamente ritenere sostenibile l’attuale sistema economico dominante ed è di tutta evidenza che questo sistema deve essere profondamente modificato e rinnovato se si voglia dare una prospettiva seria di esistenza dignitosa, nel rispetto del principio di equità, a ogni essere umano, presente e futuro. La Terra è un sistema finito Il grande dibattito planetario avviato sul concetto di sviluppo sostenibile, le cui origini più recenti risalgono già alla preparazione della conferenza Onu sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel giugno del 1972 (allora si parlava soprattutto di ecosviluppo) (Ward e Dubos, 1972) e si è andato poi sempre più ufficializzando nell’agenda politica internazionale con il rapporto Brundtland (Commissione internazionale per l’ambiente e lo sviluppo, 1988) e la conferenza Onu su ambiente e sviluppo del giugno 1992, necessita di grande chiarezza. Infatti l’ampia vaghezza che ha accompagnato le definizioni ufficiali di sviluppo sostenibile, in primis quella del rapporto Brundtland, ha creato non solo confusione ma anche mistificazione. Spesso, ancora oggi, chi parla di sviluppo sostenibile, parla, indifferentemente, di crescita sostenibile. La crescita si riferisce a un incremento materiale e quantitativo, mentre lo sviluppo si riferisce a un incremento qualitativo (Daly e Cobb, 1989). La Terra è un sistema finito, non suscettibile di ulteriore crescita, quindi qualsiasi suo sottosistema fisico non può che interrompere, a un certo punto, la propria crescita. Pertanto quest’ultima diventa prima o poi insostenibile e l’espressione crescita sostenibile è una contraddizione in termini. Il concetto di sostenibilità si applica a una realtà molto dinamica e ancora poco nota che è quella dei sistemi naturali e delle loro interazioni con il nostro sottosistema economico e produttivo. Quindi, quando arriviamo a definire un nostro intervento come “sostenibile”, lo facciamo solo sulla base di quanto conosciamo al momento. Non siamo in grado di avere nessuna garanzia di sostenibilità nel lungo termine perché sono troppi i fattori a noi ignoti o impredicibili e imprevedibili. È quindi fondamentale avere un approccio conservativo in tutte le azioni che possano recare danno all’ambiente ed è importantissimo analizzare le azioni che hanno su di esso un impatto, studiando con attenzione gli effetti percebili di queste azioni e diventando rapidamente reattivi nel trarre esperienza dagli errori fatti. Il processo di revisione e analisi dei risultati dell’applicazione dell’Agenda 21, il master plan del Ventunesimo secolo per avviare le nostre società sulla strada della sostenibilità, approvato alla conferenza Onu di Rio de Janeiro del 1992 (processo che culminerà con la conferenza Onu del 2002 che dovrebbe tenersi a Johannesburg e già oggi nota come Rio + 10), non potrà non tener conto degli importanti avanzamenti concettuali e operativi, avutisi in questi dieci anni sul concetto di sostenibilità, sui quali il Worldwatch Institute ha svolto un ruolo certamente significativo. In un quadro di incertezza e di scarse conoscenze la ricerca sulla “sostenibilità” è andata molto avanti in questi anni, condotta da numerosi studiosi, centri di ricerca, organizzazioni non governative ecc. I principi dello sviluppo sostenibile Un esempio molto affascinante relativo alle riflessioni e le indagini teoriche e applicate sul concetto di sostenibilità proviene senza dubbio dall’avventura intellettuale dell’International Society for Ecological Economics (Isee), un’organizzazione scientifica internazionale, nata nel 1987, durante un workshop tra illustri ecologi ed economisti, tenutosi a Barcellona. Questa società, attraverso le sue conferenze biennali che riuniscono molti di coloro che lavorano all’avanguardia sull’innovativa frontiera ecologica-economica e gli studi e le ricerche pubblicate sulla sua rivista Ecological Economics nata nel 1989, costituisce una punta molto avanzata delle riflessioni su queste problematiche così centrali per il futuro di noi tutti. Attorno a questa organizzazione si sono riunite alcune tra le menti che hanno prodotto le idee più avanzate in questi ambiti interdisciplinari (diversi di questi personaggi sono stati anche tra i fondatori della società stessa). Tra di essi possiamo ricordare Herman Daly, forse il più famoso bioeconomista oggi vivente, dell’università del Maryland, vincitore nel 1996 anche del cosiddetto premio Nobel alternativo per il suo ruolo pionieristico nella nuova disciplina dell’economia ecologica e anche membro del Board of Directors del Worldwatch Institute, Robert Costanza, ecologo dell’università del Maryland, Karl-Henrik Robèrt, dell’Institute of Physical Resource Theory dell’Università di Goteborg e animatore della fondazione The Natural Step che ha elaborato quattro principi fondamentali per una società ecologica, Carl Folke del Beijer International Institute of Ecological Economics della Royal Swedish Academy of Sciences, Juan Martinez-Alier dell’Università Autonoma di Barcellona, Robert Goodland, famoso ecologo e “environmental advisor” della Banca Mondiale, Richard Norgaard dell’Università di California a Berkeley (si veda Costanza, Cumberland, Daly, Goodland e Norgaard, 1997). Tutte queste ricerche ci consentono oggi di individuare dei “paletti” che permettono di definire meno insostenibili delle attuali, le politiche da intraprendere per una “società sostenibile”. Herman Daly (1991) ha individuato cinque principi per lo sviluppo sostenibile: 1. l’intervento umano dovrebbe essere limitato a un livello che rientri nella capacità di carico dei sistemi naturali, 2. il progresso tecnologico per lo sviluppo sostenibile dovrebbe essere teso all’incremento di efficienza piuttosto che all’ incremento dell ‘input di energia e materie prime; 3. i tassi di utilizzo non dovrebbero eccedere i tassi di rigenerazione delle risorse, 4. le emissioni inquinanti non dovrebbero eccedere la capacità di assimilazione dei sistemi naturali, 5. le risorse non rinnovabili dovrebbero essere utilizzate solo a un livello in cui sia possibile creare una sostituzione delle stesse. Karl-Henrik Robèrt (1996) ha elaborato un quadro di riferimento per la sostenibilità che è basato su principi scientifici e definisce quattro condizioni minime per una società sostenibile: 1. le sostanze presenti nella crosta terrestre non possono essere sistematicamente trasferite nei cicli della biosfera (combustibili fossili, metalli e altri minerali non possono essere estratti a un ritmo più veloce rispetto alla capacità di ridepositarsi nella crosta terrestre), 2. le sostanze prodotte dalla società umana non possono essere sistematicamente trasferite nella biosfera (le sostanze di sintesi dovute alla nostra attività industriale non possono essere prodotte a un tasso che supera la capacità di integrazione nei cicli della natura), 3. le basi fisiche necessarie alla produttività e diversità della natura non possono essere sistematicamente diminuite (non possiamo utilizzare o manipolare i sistemi naturali in maniera tale da diminuirne sistematicamente la capacità produttiva e la diversità in essi presente), 4. l’utilizzo delle risorse deve essere equo ed efficiente nel rispetto dei bisogni umani di base. Se analizziamo con calma le indicazioni di Daly e Robert ci rendiamo perfettamente conto che l’attuale modello economico e produttivo è senza dubbio al di fuori di esse. Lo sforzo quindi che ci attende all’inizio del nuovo millennio per avviare le nostre società sulla strada della sostenibilità è immenso e, come più volte, hanno scritto Lester Brown e gli altri ricercatori del Worldwatch Institute, ciò di cui necessitiamo è una vera e propria rivoluzione culturale. È indispensabile aprire le nostre menti a nuove forme di organizzazione economica e tecnologica delle nostre società. La posta in gioco è altissima. Questa sfida non può essere persa e oggi, si tratta, certamente, della sfida più importante che abbiamo di fronte a noi.
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