verso l'eco - economia



da boiler.it di venerdi 6 aprile 2001

 

ANTICIPAZIONE
Verso l’eco-economia

di Gianfranco Bologna
prefazione allo State of the World 2001 del Worldwatch Institute (Edizioni
Ambiente, 40 mila lire)   


 La nostra impronta ecologica

Nell’ottobre 2000 il Wwf Internazionale in collaborazione con il World
Conservation Monitoring Centre del Programma Ambiente dell’Onu (Unep), con
Redefining Progress e con il Centre for Sustainability Studies ha
pubblicato il suo rapporto Living Planet Report 2000. In esso vengono
presentati i dati relativi a due indicatori aggregati relativi allo stato
ambientale del pianeta, uno relativo allo stato di salute della
biodiversità, l’indice del pianeta vivente e l’altro relativo allo stato di
pressione umana sui sistemi naturali, l’impronta ecologica, indicatore
aggregato elaborato originariamente da William Rees e Mathis Wackernagel e
che è ben noto a livello internazionale (Wackernagel e Rees, 1996 e
Chambers, Simmons e Wackernagel, 2000).

L’indice del pianeta vivente è un indicatore dello stato di salute di tre
ecosistemi planetari, quello di foresta, quello delle acque dolci e quello
degli oceani e dei mari che misura i cambiamenti che si verificano nel
corso del tempo nelle popolazioni di un numero selezionato di specie
animali caratteristiche di tali ecosistemi. L’indice è calcolato dal 1970
al 1999 e complessivamente mostra una diminuzione di circa il 33 per cento.
Per quanto riguarda gli ambienti forestali l’indice include 319 specie
animali che mostrano un declino medio di circa il 12 per cento nel periodo
considerato; per gli ambienti delle acque interne include 194 specie che
sono diminuite con una media del 50 per cento, sempre dal 1970 a oggi, e
per gli ambienti marini include 217 specie animali che sono diminuite di
circa il 35 per cento in media nello stesso periodo.

L’impronta ecologica misura il consumo alimentare, materiale ed energetico
della popolazione umana sulla superficie terrestre o marina necessaria per
produrre le risorse naturali o, nel caso dell’energia, sulla superficie
terrestre necessaria ad assorbire le emissioni di anidride carbonica.
L’impronta ecologica di una persona è data dalla somma di sei diverse
componenti: la superficie di terra coltivata necessaria per produrre gli
alimenti, l’area di pascolo necessaria per produrre i prodotti animali, la
superficie di foreste necessaria per produrre legname e carta, la
superficie marina necessaria per produrre pesci e “frutti” di mare, la
superficie di terra necessaria per ospitare infrastrutture edilizie e la
superficie forestale necessaria per assorbire le emissioni di anidride
carbonica risultanti dal consumo energetico dell’individuo considerato.
L’impronta ecologica è misurata in “unità di superficie”. Un’unità di
superficie equivale a un ettaro della produttività media del pianeta.

L’impronta ecologica globale dal 1960 al 1996, ci dice il Living Planet
Report 2000 (che per questa parte è stato curato proprio da Mathis
Wackernagel e la sua equipe), è aumentata di circa il 50 per cento, un
incremento di circa l’1,5 per cento l’anno. La crescita dell’impronta
ecologica globale della specie umana sui sistemi naturali nel periodo
considerato, indica che, intorno alla metà degli anni Settanta, l’umanità
ha sorpassato il punto in cui viveva entro i limiti della capacità
rigenerativa globale degli ambienti del pianeta. Nel 1996, l’anno più
recente per il quale sono disponibili i dati per il calcolo dell’impronta
ecologica, vi erano 12,6 miliardi di ettari di terra biologicamente
produttiva che coprivano appena un quarto della superficie terrestre.
Questi erano formati da 1,3 miliardi di ettari di terra coltivata, 4,6
miliardi di ettari di pascolo, 3,3 miliardi di ettari di foreste, 3,2
miliardi di ettari di superficie marina disponibile per le attività di
pesca e 0,2 miliardi di ettari di terreno edificato. Questa disponibilità
equivale a 2,2 ettari per ognuna delle 5,7 miliardi di persone che
popolavano la Terra nel 1996 (nel 1999 abbiamo superato i 6 miliardi di
abitanti). Se consideriamo che almeno il 10 per cento di tutto lo spazio
biologicamente produttivo dovrebbe essere lasciato indisturbato per il
resto delle altre specie che con noi dividono l’avventura della vita su
questo pianeta, lo spazio disponibile si restringe da 2,2 a 2,0 unità di
superficie a persona.

L’impronta ecologica media mondiale era di 2,85 unità di superficie a
persona nel 1996. Questo dato supera di circa il 30 per cento l’attuale
spazio biologicamente produttivo disponibile per ogni individuo o anche di
più, se parte dello spazio è lasciato esclusivamente alle altre specie. In
altre parole l’impronta ecologica dell’umanità, già nel 1996, era di circa
il 30 per cento superiore dell’area disponibile. Questa eccedenza porta
inevitabilmente a un graduale esaurimento delle risorse naturali della
Terra, come si può osservare dal contestuale declino dell’indice del
pianeta vivente. Il Living Planet Report 2000 riporta, per la prima volta,
il calcolo dell’impronta ecologica di tutti i paesi del mondo. L’Italia
presenta un’impronta ecologica pari a 5,51 unità di superficie a persona
(con una popolazione al 1996, di 57 milioni e 366 mila abitanti) a fronte
di una sua capacità biologica di 1,92 unità di superficie a persona, il che
significa che questa non basta a soddisfare l’attuale consumo di risorse
degli italiani. Registriamo pertanto un deficit ecologico di 3,59 unità di
superficie a persona. In pratica per mantenere la nostra popolazione ai
nostri livelli di consumo ci servono altre due Italie. Dati simili si
riscontrano per numerosi paesi industrializzati (basti pensare che gli
Stati Uniti hanno un impronta ecologica di 12,22 unità di superficie pro
capite con una capacità biologica di 5,57 unità di superficie e un deficit
ecologico di 6,66 unità di superficie pro capite) mentre i paesi poveri, in
particolare quelli dell’Africa subsahariana, presentano impronte ecologiche
molto basse (l’Etiopia ha un’impronta ecologica di 0,85 unità di superficie
pro capite).

Trenta lingue, un milione di copie

I dati presentati nel Living Planet Report 2000 non fanno che confermare
quanto da decenni con grande capacità di analisi interdisciplinare, Lester
Brown e la sua equipe di ricercatori del Worldwatch Institute (l’istituto
di Washington che Brown fondò nel 1975) vanno analizzando e pubblicando in
una serie di volumi che ormai costituiscono un punto di riferimento
ineludibile per chiunque desideri conoscere il più possibile sulla nostra
relazione con i sistemi naturali. Di questi volumi la serie dei rapporti
State of the World, inaugurata nel 1984, costituisce senza dubbio il
riferimento più chiaro, documentato e aggiornato a disposizione di tutti,
dagli specialisti al grande pubblico. Non è un caso che il rapporto annuale
viene ormai pubblicato in oltre trenta lingue con oltre un milione di copie
vendute ogni anno ed è certamente il testo ambientale più diffuso nel mondo.

Personalmente ho l’enorme piacere di curare l’edizione italiana da
quattordici anni e la profonda amicizia che mi lega a Lester Brown e a
tanti ricercatori del Worldwatch la considero una delle più affascinanti
avventure umane e intellettuali della mia vita. Brown ci ha sempre ammonito
sul fatto che, con ogni probabilità, la nostra pressione sui sistemi
naturali, che ormai quotidianamente possiamo constatare come sia
insostenibile, ci abbia condotto oltre le capacità di sopportazione e di
rigenerazione dei sistemi stessi. I dati dei lavori di Wackernagel e della
sua equipe di ricercatori oggi ci indicano, come abbiamo sopra ricordato,
che per quanto riguarda il calcolo dell’impronta ecologica, intorno alla
metà degli anni Settanta, abbiamo sorpassato il punto in cui vivevamo entro
le capacità rigenerative degli ambienti della Terra. Certamente l’impronta
ecologica è solo un indicatore aggregato, che peraltro fornisce un’
indicazione per difetto del nostro impatto e, come tale, non considera
numerosi elementi che dovrebbero invece essere tenuti in conto per avere un
quadro più completo del nostro impatto (si pensi, ad esempio, agli
inquinanti che emettiamo quotidianamente nell’aria, nell’acqua e nel suolo,
ai rifiuti solidi urbani, alle sostanze chimiche tossiche da noi prodotte
ecc., non considerate nel calcolo dell’impronta).

Ulteriori chiare documentazioni dello stato di sofferenza dei sistemi
naturali della Terra ci provengono dal rapporto biennale World Resources
2000-2001 realizzato dal World Resources Institute, dall’Unep, dall’Undp e
dalla Banca Mondiale, dedicato proprio allo stato di salute degli
ecosistemi e intitolato People and Ecosystems: The Fraying Web of Life. Il
rapporto rende noto i risultati del progetto Page (Pilot Analysis of Global
Ecosystems) dedicato ad analizzare lo stato dei cinque maggiori ecosistemi
planetari (foreste, acque dolci, coste e mare, praterie e aree agricole).
Il progetto Page costituisce l’avvio di un vasto Millennium Ecosystem
Assessment che vuole cercare di rispondere alla domanda chiave del secolo:
cosa sta accadendo alla capacità della Terra di supportare la natura e la
nostra civiltà? Il Page rileva che tutti gli ecosistemi planetari
presentano segni di sofferenza, declino e difficoltà di ripresa rispetto
alla pressione esercitata dalla specie umana. Metà delle zone umide del
pianeta sono state perdute nello scorso secolo, il 58 per cento delle
barriere coralline sono minacciate dalle attività umane, l’80 per cento
delle praterie soffre di degrado dei suoli, il 20 per cento delle zone
aride sono in procinto di trasformarsi in deserti, le acque dolci sono
minacciate dappertutto, le foreste continuano ad essere distrutte a ritmi
allarmanti.

Giustizia sociale e sostenibilità ambientale

È ormai palese che la nostra azione quotidiana non fa che indebolire la
capacità di sopportazione e rigenerazione dei sistemi naturali e di questo
dato di fatto esiste una consapevolezza diffusa che stenta ancora a
tramutarsi in azione diretta e consapevole, tesa a far cambiare rotta ai
nostri attuali modelli di sviluppo sociale ed economico. Non solo ma gli
effetti concreti della globalizzazione economica e finanziaria delle
società umane in tutto il pianeta non fanno che esacerbare e aggravare la
situazione. Il decimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite sullo
Sviluppo Umano dedicato alla globalizzazione (1999) ci ricorda che il 20
per cento più ricco della popolazione mondiale possiede l’86 per cento del
prodotto globale lordo, mentre il 20 per cento più povero possiede solo l’1
per cento del prodotto globale lordo e che il divario di reddito tra il
quinto degli individui che vive nei paesi più ricchi e il quinto che vive
nei paesi più poveri è passato da 30 a 1 del 1960, a 60 a 1 nel 1990, a 74
a 1 nel 1997. La Banca Mondiale (2000) ci ricorda che 2,8 miliardi di
persone sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno, 1,2 miliardi con meno
di 1 dollaro al giorno e 1,1 miliardo di persone sono denutrite.

Non a caso Sandra Postel, per anni ricercatrice al Worldwatch e poi
direttrice del Global Water Policy Project, ha scritto nello State of the
World 1992: «Detto semplicemente, il sistema economico mondiale è incapace
di affrontare insieme il problema della povertà e quello della protezione
ambientale. Curare i mali ecologici della Terra separatamente dai problemi
legati a situazioni debitorie, squilibri commerciali, sperequazioni nei
livelli di reddito e di consumo è come cercare di curare una malattia
cardiaca senza combattere l’obesità del paziente e la sua dieta carica di
colesterolo: non esiste la possibilità di successo finale». Il già citato
rapporto Undp sulla globalizzazione ricorda che è necessario intervenire
sui fenomeni di globalizzazione prestando grande attenzione a sei
componenti fondamentali che sono:
1. etica: diminuire le violazioni dei diritti umani, non aumentarle;
2. equità: diminuire le disparità all’interno e tra le nazioni, non
aumentarle;
3. integrazione: diminuire la marginalizzazione di individui e paesi, non
aumentarle;
4. sicurezza umana: diminuire l’instabilità delle società e la
vulnerabilità degli individui, non aumentarle;
5. sostenibilità ambientale: diminuire il degrado ambientale, non aumentarlo;
6. sviluppo: diminuire la povertà e la deprivazione, non aumentarle.

Purtroppo oggi non si sta intervenendo seriamente su queste sei componenti
e, drammaticamente, gli effetti negativi stanno aumentando. Scrive Susan
George nel suo volume Il Rapporto Lugano (2000): «I difensori dell’ordine
neoliberista affermano che in ultima analisi questo creerà molti più
vincenti che perdenti, perché la crescita economica un giorno arriverà a
provvedere a tutti e tutti saranno oggetto della sua generosità. Tutti ne
beneficeremo. Questa frase ricorre continuamente in letteratura, viene
pronunciata dal Fondo Monetario Internazionale alla Camera di commercio
internazionale e viene usata come giustificazione di politiche severe, di
licenziamenti e in generale della sofferenza umana che verrà ricompensata
in un radioso futuro. Questa affermazione è falsa. La politica del
ventunesimo secolo non si occuperà della spartizione della torta come è
avvenuto nel dopoguerra durante l’era dello stato assistenziale, né di chi
riceverà quali risorse, quando e come; non si occuperà nemmeno di chi può
dare ordini a chi: la politica si baserà sulla questione serissima della
sopravvivenza… Non si può avere un’economia globale che arricchisca poche
persone oltre ogni precedente, che spinga la ricchezza inesorabilmente
verso l’alto e che crei decine di milioni di perdenti, il tutto mantenendo
la natura vergine e immacolata e la coscienza pulita».

In tutto il mondo è ormai sempre più ampio un movimento di opinione che
riunisce tantissime organizzazioni non governative del Nord e del Sud del
mondo e tantissimi singoli individui, impegnati nella difesa dei diritti
civili, nel commercio equo e solidale, nella difesa dell’ambiente e nella
promozione di uno sviluppo meno insostenibile dell’attuale, che hanno ben
compreso lo stato attuale dell’economia, della finanza e della politica e
degli intrecci che stanno conducendo a una globalizzazione con effetti
devastanti per la salute degli ambienti e degli abitanti del pianeta.
Questo movimento sta lavorando alacremente per controllare l’azione delle
grandi istituzioni internazionali, finanziarie e commerciali (Fondo
Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del
Commercio), per elaborare proposte concrete di cambiamento e per far capire
che l’opinione pubblica comincia ad essere sensibile e informata su
problematiche complesse che sono sempre state appannaggio, sino a qualche
anno fa, solo di paludate riunioni di esperti finanziari ed economici
internazionali. In Italia un ruolo molto importante in questo senso lo
hanno le diverse organizzazioni e campagne (dal Centro Nuovo Modello di
Sviluppo a Mani Tese, dai Bilanci di Giustizia alle Botteghe del Commercio
equo e solidale, da Pax Christi al Wwf) che si sono riunite nella Rete di
Lilliput elaborando anche un progetto per “Un’Italia capace di futuro”
(vedasi Bologna, 2000). L’accurato lavoro svolto da decenni dal Worldwatch
Institute costituisce una base preziosa per l’acquisizione di elementi di
analisi interdisciplinare che chiariscono meglio la comprensione del
complesso quadro attuale e la ricerca di soluzioni innovative rispetto allo
status quo.

Economia e sistemi naturali

Con l’entrata nel nuovo secolo penso e mi auguro che siano ormai abbastanza
consolidate alcune consapevolezze che nascono dall’evidenza dei fatti:
1. il nostro sistema economico e produttivo è un sottosistema del più ampio
sistema naturale, grazie al quale vive, e non viceversa. Considerare
l’economia come il sistema principale non solo non riflette la realtà ma ci
conduce a situazioni disastrose che possono diventare, ammesso che non lo
siano già ora, irreversibili. I nostri processi economici trasformano
energia e materie prime disponibili in beni e servizi, liberando nei
sistemi naturali rifiuti, inquinamenti, entropia dovuti proprio a questi
stessi processi. Il nostro sistema economico e produttivo opera, in termini
termodinamici, come un sistema aperto in un sistema chiuso e ciò non può
aver luogo all’infinito;
2. la crescita della popolazione, la crescita continua del prodotto globale
lordo, la crescita continua dei consumi non possono continuare come se
nulla fosse. Oggi in meno di due settimane il nostro sistema economico e
produttivo “produce” l’equivalente della massa totale dei beni fisici
prodotti nell’intero anno 1900. I limiti dei sistemi naturali non sono
affatto rispettati dal nostro sistema economico e produttivo. Anche se il
progresso tecnologico puo cercare di ritardare il raggiungimento di soglie
pericolose, non è però affatto in grado di arrestare il processo che vi
conduce, a meno che non si decida di cambiare rotta;
3. non sembra ci siano più dubbi sul fatto che la stessa economia di libero
mercato è oggi minacciata dalla crescita. La crescita è vista da tutti i
leader politici e dalla stragrande maggioranza degli economisti come il
motore fondamentale dell’economia o ogni assenza di crescita è considerata
un declino economico. Oggi invece è diventato un vero imperativo categorico
riesaminare e ridefinire il concetto di crescita. Sappiamo ormai bene che
la crescita economica non è più correlata a un aumento generale del
benessere. Anzi i processi di crescita provocano uno straordinario
incremento di danni sociali e ambientali che la stessa disciplina economica
non ha mai considerato e che hanno raggiunto dei “costi”, anche in termini
squisitamente economici, intollerabili;
4. ormai non assistiamo solo a un “restringimento” delle risorse
disponibili, quindi a una scarsità in termini assoluti di risorse
fondamentali per i nostri sistemi produttivi, come ad esempio, il petrolio,
ma, soprattutto, una riduzione delle capacità globali dei sistemi naturali
di produrre risorse, sopportare il nostro impatto, assorbire i nostri rifiuti.




È evidente a tutti che alla popolazione attuale di oltre 6 miliardi di
esseri umani, ai 7 previsti già per la fine di questo primo decennio del
nuovo secolo e agli 8 previsti per la fine del secondo decennio sarà
impossibile garantire un livello di consumo e uno stile di vita simili a
quelli di un nordamericano od un europeo occidentale medio. È ormai sempre
più evidente che il nostro futuro si giuocherà sulla capacità che le nostre
società e i sistemi politici ed economici che li rappresentano, avranno di
individuare, con rapidità e concretezza, nuovi modelli di sviluppo sociale
ed economico. Purtroppo il mondo economico, finanziario e politico
internazionale continua a far trionfare un sistema di economia di libero
mercato, fondamentalmente senza regole e controlli, che sta mettendo a
seria prova gli equilibri dinamici dei sistemi naturali e gli equilibri
dinamici delle nostre società, profondamente scosse dal punto di vista
etico e di responsabilità per le generazioni future.

Agire concretamente vuol dire attivare politiche che consentano di avviare
modelli di sviluppo socio-economico meno insostenibili dell’attuale e,
certamente, che modifichino, anche in profondità, il sistema di economia di
mercato libero, oggi dominante. L’incapacità di governo degli effetti
provocati da questo sistema sono sotto gli occhi di tutti e hanno prodotto
devastazioni ambientali profondissime, ineguaglianze sociali intollerabili,
crescita della povertà e dell’indigenza, crescita della corruzione,
crescita dell’incontrollabilità di crisi politiche, finanziarie e sociali.
Gli organismi delle Nazioni Unite, i maggiori centri di ricerca
internazionali, le più prestigiose accademie scientifiche ci ammoniscono,
da anni, sugli effetti drammatici del nostro impatto sui sistemi naturali e
sulle difficoltà, sempre crescenti, che essi hanno di reagire e di
recuperare agli stress continuamente inferti. Il Worldwatch Institute, da
questo punto di vista, ha svolto un ruolo encomiabile, ponendosi da sempre
come pioniere nelle analisi della situazione in cui versiamo e nelle
proposte per cercare di avviare percorsi economici e sociali diversi dagli
attuali.

In questi mesi Lester Brown sta lavorando al suo nuovo libro che si
intitolerà Eco-economy destinato proprio a far comprendere l’ineludibilità
di un sistema economico che deve “connettersi” con i sistemi naturali e da
essi deve farsi ispirare e guidare invece di cercare di dominarli. Nessuno
può oggettivamente ritenere sostenibile l’attuale sistema economico
dominante ed è di tutta evidenza che questo sistema deve essere
profondamente modificato e rinnovato se si voglia dare una prospettiva
seria di esistenza dignitosa, nel rispetto del principio di equità, a ogni
essere umano, presente e futuro.

La Terra è un sistema finito

Il grande dibattito planetario avviato sul concetto di sviluppo
sostenibile, le cui origini più recenti risalgono già alla preparazione
della conferenza Onu sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel giugno
del 1972 (allora si parlava soprattutto di ecosviluppo) (Ward e Dubos,
1972) e si è andato poi sempre più ufficializzando nell’agenda politica
internazionale con il rapporto Brundtland (Commissione internazionale per
l’ambiente e lo sviluppo, 1988) e la conferenza Onu su ambiente e sviluppo
del giugno 1992, necessita di grande chiarezza. Infatti l’ampia vaghezza
che ha accompagnato le definizioni ufficiali di sviluppo sostenibile, in
primis quella del rapporto Brundtland, ha creato non solo confusione ma
anche mistificazione. Spesso, ancora oggi, chi parla di sviluppo
sostenibile, parla, indifferentemente, di crescita sostenibile. La crescita
si riferisce a un incremento materiale e quantitativo, mentre lo sviluppo
si riferisce a un incremento qualitativo (Daly e Cobb, 1989).

La Terra è un sistema finito, non suscettibile di ulteriore crescita,
quindi qualsiasi suo sottosistema fisico non può che interrompere, a un
certo punto, la propria crescita. Pertanto quest’ultima diventa prima o poi
insostenibile e l’espressione crescita sostenibile è una contraddizione in
termini. Il concetto di sostenibilità si applica a una realtà molto
dinamica e ancora poco nota che è quella dei sistemi naturali e delle loro
interazioni con il nostro sottosistema economico e produttivo. Quindi,
quando arriviamo a definire un nostro intervento come “sostenibile”, lo
facciamo solo sulla base di quanto conosciamo al momento. Non siamo in
grado di avere nessuna garanzia di sostenibilità nel lungo termine perché
sono troppi i fattori a noi ignoti o impredicibili e imprevedibili. È
quindi fondamentale avere un approccio conservativo in tutte le azioni che
possano recare danno all’ambiente ed è importantissimo analizzare le azioni
che hanno su di esso un impatto, studiando con attenzione gli effetti
percebili di queste azioni e diventando rapidamente reattivi nel trarre
esperienza dagli errori fatti.

Il processo di revisione e analisi dei risultati dell’applicazione
dell’Agenda 21, il master plan del Ventunesimo secolo per avviare le nostre
società sulla strada della sostenibilità, approvato alla conferenza Onu di
Rio de Janeiro del 1992 (processo che culminerà con la conferenza Onu del
2002 che dovrebbe tenersi a Johannesburg e già oggi nota come Rio + 10),
non potrà non tener conto degli importanti avanzamenti concettuali e
operativi, avutisi in questi dieci anni sul concetto di sostenibilità, sui
quali il Worldwatch Institute ha svolto un ruolo certamente significativo.
In un quadro di incertezza e di scarse conoscenze la ricerca sulla
“sostenibilità” è andata molto avanti in questi anni, condotta da numerosi
studiosi, centri di ricerca, organizzazioni non governative ecc.

I principi dello sviluppo sostenibile

Un esempio molto affascinante relativo alle riflessioni e le indagini
teoriche e applicate sul concetto di sostenibilità proviene senza dubbio
dall’avventura intellettuale dell’International Society for Ecological
Economics (Isee), un’organizzazione scientifica internazionale, nata nel
1987, durante un workshop tra illustri ecologi ed economisti, tenutosi a
Barcellona. Questa società, attraverso le sue conferenze biennali che
riuniscono molti di coloro che lavorano all’avanguardia sull’innovativa
frontiera ecologica-economica e gli studi e le ricerche pubblicate sulla
sua rivista Ecological Economics nata nel 1989, costituisce una punta molto
avanzata delle riflessioni su queste problematiche così centrali per il
futuro di noi tutti. Attorno a questa organizzazione si sono riunite alcune
tra le menti che hanno prodotto le idee più avanzate in questi ambiti
interdisciplinari (diversi di questi personaggi sono stati anche tra i
fondatori della società stessa).

Tra di essi possiamo ricordare Herman Daly, forse il più famoso
bioeconomista oggi vivente, dell’università del Maryland, vincitore nel
1996 anche del cosiddetto premio Nobel alternativo per il suo ruolo
pionieristico nella nuova disciplina dell’economia ecologica e anche membro
del Board of Directors del Worldwatch Institute, Robert Costanza, ecologo
dell’università del Maryland, Karl-Henrik Robèrt, dell’Institute of
Physical Resource Theory dell’Università di Goteborg e animatore della
fondazione The Natural Step che ha elaborato quattro principi fondamentali
per una società ecologica, Carl Folke del Beijer International Institute of
Ecological Economics della Royal Swedish Academy of Sciences, Juan
Martinez-Alier dell’Università Autonoma di Barcellona, Robert Goodland,
famoso ecologo e “environmental advisor” della Banca Mondiale, Richard
Norgaard dell’Università di California a Berkeley (si veda Costanza,
Cumberland, Daly, Goodland e Norgaard, 1997).

Tutte queste ricerche ci consentono oggi di individuare dei “paletti” che
permettono di definire meno insostenibili delle attuali, le politiche da
intraprendere per una “società sostenibile”. Herman Daly (1991) ha
individuato cinque principi per lo sviluppo sostenibile:
1. l’intervento umano dovrebbe essere limitato a un livello che rientri
nella capacità di carico dei sistemi naturali,
2. il progresso tecnologico per lo sviluppo sostenibile dovrebbe essere
teso all’incremento di efficienza piuttosto che all’ incremento dell ‘input
di energia e materie prime;
3. i tassi di utilizzo non dovrebbero eccedere i tassi di rigenerazione
delle risorse,
4. le emissioni inquinanti non dovrebbero eccedere la capacità di
assimilazione dei sistemi naturali,
5. le risorse non rinnovabili dovrebbero essere utilizzate solo a un
livello in cui sia possibile creare una sostituzione delle stesse.

Karl-Henrik Robèrt (1996) ha elaborato un quadro di riferimento per la
sostenibilità che è basato su principi scientifici e definisce quattro
condizioni minime per una società sostenibile:
1. le sostanze presenti nella crosta terrestre non possono essere
sistematicamente trasferite nei cicli della biosfera (combustibili fossili,
metalli e altri minerali non possono essere estratti a un ritmo più veloce
rispetto alla capacità di ridepositarsi nella crosta terrestre),
2. le sostanze prodotte dalla società umana non possono essere
sistematicamente trasferite nella biosfera (le sostanze di sintesi dovute
alla nostra attività industriale non possono essere prodotte a un tasso che
supera la capacità di integrazione nei cicli della natura),
3. le basi fisiche necessarie alla produttività e diversità della natura
non possono essere sistematicamente diminuite (non possiamo utilizzare o
manipolare i sistemi naturali in maniera tale da diminuirne
sistematicamente la capacità produttiva e la diversità in essi presente),
4. l’utilizzo delle risorse deve essere equo ed efficiente nel rispetto dei
bisogni umani di base.

Se analizziamo con calma le indicazioni di Daly e Robert ci rendiamo
perfettamente conto che l’attuale modello economico e produttivo è senza
dubbio al di fuori di esse. Lo sforzo quindi che ci attende all’inizio del
nuovo millennio per avviare le nostre società sulla strada della
sostenibilità è immenso e, come più volte, hanno scritto Lester Brown e gli
altri ricercatori del Worldwatch Institute, ciò di cui necessitiamo è una
vera e propria rivoluzione culturale. È indispensabile aprire le nostre
menti a nuove forme di organizzazione economica e tecnologica delle nostre
società. La posta in gioco è altissima. Questa sfida non può essere persa e
oggi, si tratta, certamente, della sfida più importante che abbiamo di
fronte a noi.