[Disarmo] Ilan Pappé: «Se si risolve la questione palestinese, il Medio Oriente cambierà faccia»
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- From: "rossana123 at libero.it" <rossana123 at libero.it>
- Date: Thu, 19 Feb 2015 23:36:54 +0100 (CET)
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3 articoli dal Manifesto di ieri
Ilan Pappé: «Se si risolve la questione palestinese, il Medio Oriente cambierà faccia»
Israele/Palestina. Intervista allo storico israeliano Ilan Pappé: «L'Isis pesca adepti tra i marginalizzati dell'Occidente. Non è una questione religiosa, ma socio-economica. E Tel Aviv lo sfrutta per avere supporto dall'Europa»
Alla fine Ilan Pappé ha parlato. Scavalcando la cancellazione della conferenza «Europa e Medio Oriente oltre gli identitarismi», che avrebbe dovuto essere ospitata dall’Università di Roma Tre, il professore dell’Università di Exter, uno dei più noti storici israeliani, ha incontrato il pubblico romano lunedì al Centro Congressi Frentani su iniziativa di AssoPace.
Lo abbiamo incontrato e discusso con lui del concetto di identità e del suo utilizzo da parte occidentale e israeliana.
L’avanzata dello Stato Islamico viene strumentalizzata in Occidente per dare fondamento al cosiddetto scontro di civiltà, in chiave neo-colonialista. Israele, Stato nato come bastione occidentale in Medio Oriente, otterrà maggiore supporto a scapito delle aspirazioni palestinesi?
Assolutamente sì. Lo Stato Islamico è la miglior cosa che potesse capitare a Israele. Con il califfato si risolleva la voce di coloro per i quali esiste un solo Stato illuminato in Medio Oriente, Israele, baluardo contro l’avanzata dell’estremismo islamico. Spero che in Occidente la gente non cada in un trucco tanto meschino: non si tratta affatto di uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira giovani musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più oppressi e marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione culturale e religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si assistesse ad una trasformazione democratica, se si impedisse a ideologie razziste e pratiche capitaliste di determinare l’esistenza della gente, gruppi come l’Isis non troverebbero spazio. L’Isis non ha terreno fertile dove la gente si sente integrata, dove è uguale a livello sociale e economico.
Per questo è necessaria un’analisi approfondita dell’imperialismo occidentale e del movimento sionista per combattere le simpatie che musulmani europei accordano a gruppi radicali. Se sei un marginalizzato o un escluso trovi nell’identità musulmana lo strumento per migliorare la tua esistenza. La stragrande maggioranza degli oppressi non reagisce così, ma alcuni individui optano per la violenza, in ogni caso minima rispetto a quella dell’oppressore. Così si allarga lo Stato Islamico, questo mostro che l’Occidente ha fabbricato, novello Frankenstein che si ribella al suo creatore.
La prolungata occupazione della Palestina e di un simbolo religioso e identitario come Gerusalemme rappresenta un mezzo di radicamento di gruppi come lo Stato Islamico? Che ruolo ha nella propaganda islamista la Palestina?
Se il conflitto israelo-palestinese venisse risolto in modo giusto, il Medio Oriente cambierebbe faccia. L’occupazione della Palestina è una delle principali giustificazioni per chi ha simpatie islamiste, perché è il simbolo del doppio standard che l’Occidente applica a chi viola i diritti umani fondamentali. Un cambiamento dell’approccio europeo verso il popolo palestinese intaccherebbe il potere della propaganda islamista. Senza Palestina la giustificazione dell’esistenza dell’Isis non sarebbe tanto forte.
Il premier israeliano Netanyahu ha messo sul tavolo 46 milioni di dollari per spingere ebrei di Francia, Danimarca e Ucraina a immigrare in Israele, sfruttando i recenti attacchi e la guerra a Kiev. Un nuovo video per la campagna elettorale del Likud usa la minaccia Isis per accaparrarsi voti. Un chiaro utilizzo dell’identità in contrasto per rafforzarsi all’interno?
Netanyahu è un cinico, sfrutta tali eventi in chiave elettorale per costringere la sua opinione pubblica a focalizzare l’attenzione sul nemico esterno, invece che sulle questioni economiche e sociali. È ovvio che il messaggio non è diretto agli ebrei europei, ma all’interno, ai cittadini israeliani. Purtroppo può funzionare: Netanyahu ha deluso buona parte del suo elettorato storico, ma è probabilmente l’unico in grado di guidare una coalizione composta di tanti partitini. Forse non subito, ma poco dopo le elezioni sarà scelto di nuovo come premier.
Il sionismo, da prima la nascita di Israele, punta sull’identità ebraica per cancellare quella palestinese ma anche per tenere insieme una società frammentata. Quali sono oggi le caratteristiche della società israeliana?
Ciò che è cambiato rispetto al passato è che le caratteristiche più profonde della società israeliana, che prima erano meno palesi, oggi sono uscite allo scoperto: razzismo e polarizzazione economica e sociale sono cresciuti come mai prima. Il gap socio-economico è il terreno migliore per ideologie estremiste. I gruppi più marginalizzati, in particolare gli ebrei originari del Medio Oriente e dell’Africa, sono più facilmente reclutabili dalla destra. Ed infatti cuore del dibattito elettorale non è la questione sociale e economica, ma lo scontro tra identità. La società è più razzista, più estremista, priva di solidarietà interna anche verso altri ebrei, fondata sull’odio verso il diverso. È un veleno per le future generazioni.
Lei ha definito l’ultimo attacco contro Gaza «genocidio incrementale». Perché Israele colpisce Gaza, enclave impoverita, terra che Israele non vuole annettere? Volontà di spezzare la resistenza o mero strumento di caccia al consenso tramite la paura?
Se la gente di Gaza accettasse di vivere in un ghetto, Israele la dimenticherebbe. Ma Gaza resiste e quando Israele decide che è tempo di reagire a tale resistenza mette in campo la forza militare, che in un’enclave come la Striscia significa genocidio. In secondo luogo, c’è l’immenso business dell’industria militare, con Gaza a fare da laboratorio per le armi da vendere fuori. Terzo, la convinzione dell’esercito israeliano per cui il mondo arabo non prende sul serio la macchina da guerra di Tel Aviv: attaccando Gaza Israele manda un messaggio a Iran, Siria, Hezbollah.
Qual era l’obiettivo dell’attacco israeliano a Hezbollah nel sud della Siria il 18 gennaio? Aprire un nuovo fronte o inviare, appunto, un messaggio all’asse sciita, che sta – con l’esercito di Damasco, pasdaran e Hezbollah – avanzando a sud e con l’Iran che intreccia nuove relazioni con Hamas?
Il governo ha camminato lungo quella linea rossa, sottilissima, che separa la guerra dalla non guerra. Ha finto di voler attaccare, sapendo benissimo di non volerlo fare. Netanyahu punta sulla paura della guerra, non sulla guerra: la prima fa prendere voti, la seconda no. Israele non ha il potere di sradicare Hezbollah dal Libano, intende solo alzare la tensione, togliere l’attenzione dal prezzo delle case, del latte, della vita.
Pare che l’Università di Roma Tre abbia annullato l’incontro di lunedì dietro presunte pressioni della comunità ebraica. La censura è lo strumento di chi teme il confronto: perché si ha paura di parlare della questione israelo-palestinese?
Sospettiamo che ci sia stata una pressione, seppure non abbiamo
prove dirette. In Europa ci si sente ancora responsabili
dell’Olocausto e i palestinesi ne pagano il prezzo. Il sionismo ha
offerto all’Europa la migliore soluzione: invece di aprire una
discussione sincera sulla questione ebraica, si è preferito
puntare sul progetto sionista e la colonizzazione della
Palestina. Inoltre la lobby ebraica è potente: non si parla di
Palestina per timore di perdere aiuti economici o politici.
C’è però un elemento positivo: la società civile italiana e europea
ha modificato l’approccio alla questione, distanziandosi dalle
élite politiche. Molti sanno cosa accade in Palestina e sostengono
la sua causa perché si tratta di una causa semplice: lotta al
colonialismo e difesa dei diritti umani.
Un approccio che manca invece all’interno di buona parte della sinistra italiana e europea.
La sinistra in Francia, Italia e Germania è sionista perché non intende affrontare – seppur ne abbia il dovere – la questione ebraica. Avendo paura di farlo, preferisce nascondersi sotto l’ala confortevole del sionismo, ergerlo a soluzione negando i diritti del popolo palestinese, per loro sacrificabili. È vero anche che la sinistra si scopre razzista quando affronta culture non europee, per cui è meglio l’ebraismo del mondo arabo o dell’Islam. Eppure oggi centrale non è il giudaismo, ma l’islamofobia, ovvero la paura di popoli che l’Europa ha oppresso e colonizzato per secoli. Affrontare tale dibattito, all’interno di un contesto di sano multiculturalismo, non è un processo facile ma va fatto. Ed invece no, si continua sul sentiero del colonialismo. Con altri mezzi.
Hamas contro l’Is: «La strage di coopti contro Islam e pace tra le religioni» di Michele Giorgio
Il comunicato da Gaza. «Ma l’azione militare occidentale e dell’Italia in Libia apparirebbe come una crociata»
La leadership di Hamas lunedì da Gaza ha diffuso un comunicato di netta condanna della decapitazione dei 21 egiziani copti da parte dei jihadisti libici. E lo stesso aveva fatto di fronte alla barbara esecuzione del pilota giordano e di altri ostaggi nelle mani dei miliziani dello Stato Islamico. Questo comunicato, riportato con evidenza dall’agenzia d’informazione palestinese Maannews (peraltro vicina a Fatah) è stato ignorato dai media italiani. Ieri invece sono state riferire, peraltro solo in parte, le dichiarazioni rilasciate da un dirigente islamista, Salah Bardawil, che hanno offerto lo spunto a giornali, radio, televisioni per accusare Hamas di minacciare l’Italia, proprio come fa l’Isis. Bardawil si è espresso contro le ingerenze in Libia «da parte di alcuni Paesi, come l’Italia» con «il pretesto di combattere il terrorismo». E ha sottolineato che un nuovo intervento militare internazionale in quel Paese sarebbe considerato da milioni di arabi «una nuova crociata contro Paesi arabi e musulmani».
Bardawil non ha minacciato l’Italia ma, come hanno indicato anche alcuni analisti e giornalisti occidentali in questi giorni, ha detto che le popolazioni arabe non guarderanno con favore a una campagna militare contro la Libia condotta dai Paesi occidentali e che, pertanto, la interpreteranno come una «crociata».
Le azioni armate e le posizioni di Hamas sono da anni al centro di un dibattito. Molti le condannano. Ma opinioni a parte, da un punto di vista storico ed ideologico Hamas non è l’Isis, Hamas non è al Qaeda. Basterebbero a confermarlo le pesanti accuse di «tradimento» dell’Islam, di aver rinunciato alla «guerra santa», che il movimento islamico palestinese ha ricevuto dallo Stato islamico e soprattutto da al Qaeda. O anche la sua politica repressiva nei confronti dei gruppetti salafiti che a Gaza si richiamano all’Isis. Nel 2009 le unità scelte di Hamas uccisero decine di seguaci (armati) di un leader salafita che aveva proclamato un «emirato» islamico a Rafah.
Nel comunicato dell’altro giorno, ignorato dai media, il movimento islamico palestinese ha condannato con forza le decapitazioni in Libia, sottolineando che «violano i principi dell’Islam e distruggono le relazioni tra i cittadini arabi cristiani e musulmani, che hanno vissuto insieme per centinaia di anni».
Il leader Hezbollah contro l'IS. Nashrallah andiamo a combattere in Siria di Michele Giorgio
http://nena-news.it/nasrallah-esorta-libanesi-a-combattere-isis-in-siria-avversari-lo-contestano/
Ha reagito con sdegno il ministro della giustizia libanese Ashraf Rifi al discorso pronunciato martedì da Hassan Nasrallah, segretario generale del movimento sciita libanese Hezbollah. «Non abbiamo parlato finora dell’Iraq, ma abbiamo una limitata presenza (nel Paese) a causa della fase delicata che l’Iraq sta attraversando», ha detto Nasrallah. Secondo Rifi questa ammissione e l’esortazione del leader sciita a tutto il Libano ad unirsi alla battaglia in Siria contro l’Isis e i qaedisti di al Nusra – «A coloro che ci chiedono di ritirarci dalla Siria – ha affermato il leader di Hezbollah — io dico: Andiamo insieme in Siria e in Iraq e in ogni altro posto dove vi sia una minaccia per il futuro delle nostra nazione» — confermerebbe un totale asservimento del movimento sciita agli interessi strategici dell’Iran. Il commento di Rifi si unisce all’appello a ritirarsi dalla Siria che l’ex premier sunnita e leader del partito antisiriano Mustaqbal, Saad Hariri, ha rivolto a Hezbollah al suo rientro in Libano, in occasione dell’assassinio del padre, Rafik, avvenuto 10 anni fa sul lungomare di Beirut. E anche alla dura condanna del discorso di Nasrallah pronunciata ieri dal deputato, sempre di Mustaqbal, Ahmad Fatfat. Commenti che fanno sorridere. Come se il Libano, senza Hezbollah, fosse un paese libero dal controllo straniero. Come se, una volta rientrati a casa i combattenti sciiti, non ci fossero in Siria tanti altri libanesi, pagati da generosi finanziatori del Golfo, che combattono contro l’esercito governativo nei ranghi al Nusra, dell’Esercito siriano libero e anche dell’Isis.
Hariri e il suo partito sono l’espressione politica più compiuta della longa manus dell’Arabia saudita sul Paese dei Cedri. Rappresentano gli interessi di Riyadh in Libano. E nonostante le sue recenti condanne del salafismo radicale, a Tripoli, storica roccaforte sunnita, Hariri con i suoi soldi ha contribuito a tenere aperte non poche delle moschee e delle scuole coraniche che hanno allevato gli avversari (armati) degli alawiti libanesi e di non pochi jihadisti poi finiti in Siria, nelle milizie schierate contro le forze armate governative. L’attuale premier libanese Tammam Salam non avrebbe potuto sedersi sulla poltrona che occupa senza l’appoggio dell’Arabia saudita. E non si può dimenticare l’influenza degli Stati Uniti e della Francia sulle scelte delle forze politiche libanesi dello schieramento filo-occidentale “14 marzo”. Non pochi libanesi descrivevano come “il vero primo ministro” Jeffrey Feltman, ex ambasciatore degli Usa a Beirut tra il 2004 e il 2008 (anni caldissimi per il Libano), poi assistente del Segretario di Stato per il Medio Oriente. Da parte sua l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy impartiva veri e propri ordini agli amici libanesi, su cosa fare o non fare nei confronti di Bashar Assad che, a sua volta, manovra tante pedine nel Paese dei Cedri – ben oltre l’appoggio che gli garantisce Hezbollah — nonostante le difficoltà enormi che deve affrontare in casa a causa della guerra civile.
Le perenni rivalità, l’abituale scambio di accuse che segna da 10–12 anni la scena politica libanese, hanno messo in ombra passaggi del discorso di Nasrallah altrettanto interessanti di quello sulla presenza dei combattenti sciiti libanesi anche in Iraq (peraltro nota da tempo). Il segretario generale di Hezbollah ha parlato «di cancelli di una soluzione politica che dovrebbero essere aperti..l’opposizione non estremista…deve entrare in un accordo con il regime, perché il regime è pronto per una soluzione». Già in un precedente discorso, qualche mese fa, Nasrallah aveva avanzato, sebbene in modo vago, l’idea di un processo di cambiamento a Damasco nei prossimi anni. Nel quadro di una soluzione ampia, di lungo termine e condivisa, e senza l’uscita di scena immediata di Assad come chiede con insistenza l’opposizione siriana. D’altronde anche l’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan De Mistura, ora parla di Assad come parte della soluzione per la Siria, almeno in una fase transitoria.
- See more at: http://nena-news.it/nasrallah-esorta-libanesi-a-combattere-isis-in-siria-avversari-lo-contestano/#sthash.6GNynvmv.dpufdi Michele Giorgio – Il Manifesto
Roma, 18 febbraio 2015, Nena News – Ha reagito con sdegno il ministro della giustizia libanese Ashraf Rifi al discorso pronunciato martedì da Hassan Nasrallah, segretario generale del movimento sciita libanese Hezbollah. «Non abbiamo parlato finora dell’Iraq, ma abbiamo una limitata presenza (nel Paese) a causa della fase delicata che l’Iraq sta attraversando», ha detto Nasrallah. Secondo Rifi questa ammissione e l’esortazione del leader sciita a tutto il Libano ad unirsi alla battaglia in Siria contro l’Isis e i qaedisti di al Nusra – «A coloro che ci chiedono di ritirarci dalla Siria – ha affermato il leader di Hezbollah — io dico: Andiamo insieme in Siria e in Iraq e in ogni altro posto dove vi sia una minaccia per il futuro delle nostra nazione» — confermerebbe un totale asservimento del movimento sciita agli interessi strategici dell’Iran. Il commento di Rifi si unisce all’appello a ritirarsi dalla Siria che l’ex premier sunnita e leader del partito antisiriano Mustaqbal, Saad Hariri, ha rivolto a Hezbollah al suo rientro in Libano, in occasione dell’assassinio del padre, Rafik, avvenuto 10 anni fa sul lungomare di Beirut. E anche alla dura condanna del discorso di Nasrallah pronunciata ieri dal deputato, sempre di Mustaqbal, Ahmad Fatfat. Commenti che fanno sorridere. Come se il Libano, senza Hezbollah, fosse un paese libero dal controllo straniero. Come se, una volta rientrati a casa i combattenti sciiti, non ci fossero in Siria tanti altri libanesi, pagati da generosi finanziatori del Golfo, che combattono contro l’esercito governativo nei ranghi al Nusra, dell’Esercito siriano libero e anche dell’Isis.
Hariri e il suo partito sono l’espressione politica più compiuta della longa manus dell’Arabia saudita sul Paese dei Cedri. Rappresentano gli interessi di Riyadh in Libano. E nonostante le sue recenti condanne del salafismo radicale, a Tripoli, storica roccaforte sunnita, Hariri con i suoi soldi ha contribuito a tenere aperte non poche delle moschee e delle scuole coraniche che hanno allevato gli avversari (armati) degli alawiti libanesi e di non pochi jihadisti poi finiti in Siria, nelle milizie schierate contro le forze armate governative. L’attuale premier libanese Tammam Salam non avrebbe potuto sedersi sulla poltrona che occupa senza l’appoggio dell’Arabia saudita. E non si può dimenticare l’influenza degli Stati Uniti e della Francia sulle scelte delle forze politiche libanesi dello schieramento filo-occidentale “14 marzo”. Non pochi libanesi descrivevano come “il vero primo ministro” Jeffrey Feltman, ex ambasciatore degli Usa a Beirut tra il 2004 e il 2008 (anni caldissimi per il Libano), poi assistente del Segretario di Stato per il Medio Oriente. Da parte sua l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy impartiva veri e propri ordini agli amici libanesi, su cosa fare o non fare nei confronti di Bashar Assad che, a sua volta, manovra tante pedine nel Paese dei Cedri – ben oltre l’appoggio che gli garantisce Hezbollah — nonostante le difficoltà enormi che deve affrontare in casa a causa della guerra civile.
Le perenni rivalità, l’abituale scambio di accuse che segna da 10–12 anni la scena politica libanese, hanno messo in ombra passaggi del discorso di Nasrallah altrettanto interessanti di quello sulla presenza dei combattenti sciiti libanesi anche in Iraq (peraltro nota da tempo). Il segretario generale di Hezbollah ha parlato «di cancelli di una soluzione politica che dovrebbero essere aperti..l’opposizione non estremista…deve entrare in un accordo con il regime, perché il regime è pronto per una soluzione». Già in un precedente discorso, qualche mese fa, Nasrallah aveva avanzato, sebbene in modo vago, l’idea di un processo di cambiamento a Damasco nei prossimi anni. Nel quadro di una soluzione ampia, di lungo termine e condivisa, e senza l’uscita di scena immediata di Assad come chiede con insistenza l’opposizione siriana. D’altronde anche l’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan De Mistura, ora parla di Assad come parte della soluzione per la Siria, almeno in una fase transitoria.
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