Una guerra locale e mondiale
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- Date: Sun, 25 Aug 2013 17:45:34 +0200 (CEST)
di Alberto Negri 25 agosto 2013
Due anni e mezzo dopo le illusioni della Primavera araba, nel pieno
dell'estate della Restaurazione egiziana, Usa e Occidente sono di fronte
al dilemma della Siria, anzi dell'ex Siria, perché il Paese, come un
tempo l'ex Jugoslavia, non esiste più.
Con la morte chimica e le sue
stragi (335 le vittime secondo Medici senza frontiere) è diventata uno
spaventoso campo di battaglia e di crimini contro l'umanità che contagia
tutta la regione.
La Siria, dove si triturano anche le vestigia di grandi civiltà, sta
perdendo oltre al suo passato, il suo futuro e quello delle prossime
generazioni.
Che fare? Gli americani muovono la flotta verso il
Mediterraneo orientale facendo pensare a un intervento militare. Con
quali conseguenze? Le stanno soppesando in queste ore mentre i Cruise
forse sono già puntati sul palazzo di Assad, in cima alle alture di
Damasco. Perché questa potrebbe diventare - e in parte lo è già - una
sorta di guerra mondiale su scala locale. Non sappiamo cosa accadrà, se
gli Usa agiranno da soli o con alleati come fu in Kosovo con la Nato
schierata contro la Serbia di Milosevic; se aspetteranno o meno un
capello internazionale e le indagini dell'Onu. Ma una cosa è certa: la
lontana guerra di Siria ora è più vicina all'Occidente, è un caso
scottante, non rinviabile.
La Siria è nel cuore del Medio Oriente. Confina con Israele, che
occupa dal 1967 il Golan; con il Libano, travolto da una
contrapposizione settaria che riecheggia gli incubi della guerra civile;
con l'Iraq, a sua volta dilaniato da ondate di attentati micidiali; con
la Turchia, alle prese con l'eterno problema dei curdi dentro e fuori i
suoi confini; con la Giordania, fragile nazione di profughi palestinesi
e adesso anche siriani, governata da una monarchia che Churchill
condannò al ruolo di eterno stato-cuscinetto. È qui che domani si
riuniscono i capi di Stato maggiore di diversi Paesi occidentali e
musulmani - ci sarà anche l'Italia - per discutere la situazione
siriana.
Questo è il maggiore conflitto per procura del Medio
Oriente. Con dimensioni mondiali perché coinvolge la Russia e l'Iran,
insieme ai fedeli Hezbollah libanesi, sempre al fianco del regime di
Damasco, sostenuto anche dal Governo sciita dell'Iraq. È una guerra
civile e settaria che oppone sciiti e sunniti, ma proiettata su uno
scacchiere internazionale.
Dall'altra parte, a foraggiare il
frammentato fronte dei ribelli, ci sono la Turchia, l'Arabia Saudita, il
Qatar e le monarchie del Golfo che hanno puntato quasi subito sulla
caduta di Bashar Assad: un calcolo sbagliato che potrebbe costare caro
se il regime resistesse ancora.
Proviamo a pensare per un momento se Assad fosse il temporaneo
vincitore: certo non potrebbe controllare che una parte del Paese, ma
quale Siria avremmo? Forse un territorio ancora più anarchico e percorso
da una violenza brutale. Il caso siriano potrebbe durare un altro
decennio: o bisogna forse ricordare il precedente dell'Iraq? Gli
americani sicuramente non se ne scordano.
Per la verità a sbagliare
le previsioni non sono stati soltanto arabi e turchi. Anche americani e
francesi, i cui ambasciatori in Siria nel luglio 2011 andarono ad Hama
tra i ribelli, pensavano che il figlio di Hafez avrebbe fatto la stessa
rapida fine di Ben Alì o Mubarak. Sta invece resistendo più di Gheddafi
perché questa è una partita geopolitica vitale: gli alauiti di Siria
combattono per la sopravvivenza, così come gli Hezbollah che non
abbandoneranno le armi neppure se Bashar fosse ucciso. Nella posta in
gioco immediata ovviamente non c'è soltanto la Siria ma anche il Libano.
E pure i confini della Turchia - potenza della Nato - se i curdi
siriani, collegati a quelli iracheni e turchi, ottenessero l'autonomia
che reclamano con le armi in pugno. Per non parlare di Teheran che se
perdesse la Siria sacrificherebbe un anello fondamentale della Mezzaluna
sciita.
La Russia e l'Iran continuano a sostenere Assad perché nessuno ha
proposto un'alternativa politica concreta alla caduta del regime.
Vladimir Putin e il capo dell'intelligence saudita, il principe Bandar
bin Sultan, hanno avuto a Mosca un incontro di quattro ore. I sauditi
hanno ammesso di sponsorizzare la guerriglia cecena, attivissima anche
in Siria, e hanno proposto a Putin di rinunciare al sostegno a Damasco
in cambio della protezione degli interessi russi in Siria (basi
militari, forniture di armi). Ma il principe è stato assai poco
convincente quando, anche a nome degli Stati Uniti, ha tentato di
delineare un possibile futuro Governo: «No grazie - ha risposto Putin -
ci teniamo Assad».
I russi sanno cosa vogliono a Damasco, una
transizione controllata, non gli americani che pure condividono in parte
le preoccupazioni Mosca. Al Congresso, pochi giorni fa, il capo di
stato maggiore americano Martin Dempsey è stato esplicito: «Nessuno nel
fronte dei ribelli è in grado di garantire i nostri interessi. Qui non
ci sono moderati che possono prendere il potere». È un dato di fatto: il
Free Syrian Army sponsorizzato dai turchi è un ombrello di formazioni
variegate e litigiose mentre imperversano i gruppi jihadisti di al-Qaida
e di Jabat al Nusra.
Se sarà guerra sarà una guerra al buio, ha spiegato il comandante in capo Dempsey, veterano del Golfo e dell'Iraq. «Un intervento Usa - ha detto - non risolverebbe i problemi religiosi, tribali e settari della Siria». E neppure quelli del Medio Oriente intorno. Forse la Siria merita qualche cosa di meglio di uno sparo nel buio.
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