Re: Le ragioni inconfessabili della guerra



Grazie Ross,
come sempre.
Ciao
Elio

-----Messaggio Originale-----
Da: "rossana" <rossana at comodinoposta.org>
A: <disarmo at peacelink.it>
Data invio: domenica 27 febbraio 2005 9.14
Oggetto: Le ragioni inconfessabili della guerra


>
> Bush, 30 Agosto 2004: - questa guerra non può essere vinta -
> Un articolo sul nuovo modello di guerra. Da "il manifesto" del 26 Febbraio
> 2005
>
> Le ragioni inconfessabili della guerra
>
> Il conflitto bellico iracheno non risponde a una logica militare, ma
> economica. Per favorire le imprese private e per governare il prezzo del
> petrolio. La tesi provocatoria del volume «The Iraq War» dello storico
> militare inglese John Keegan
> ENZO MODUGNO,
> Il nuovo libro dello storico militare inglese John Keegan (The Iraq war,
> Utchinson, London) può contribuire a chiarire un punto di vista più volte
> affiorato nella discussione del movimento per la pace sull'Iraq come «caos
> programmato dagli Usa», un'interpretazione fondata sulle teorie sull'uso
> economico della guerra e delle spese militari come strumenti di politiche
> economiche. Infatti, quando il governatore della Banca d'Italia afferma
che
> «con la politica di stampo keynesiano condotta dal 2001 l'economia Usa è
> tornata a crescere», sta dicendo in realtà che la guerra ha salvato gli
> Stati uniti. Di keynesiano sono rimaste infatti quasi solo le spese
> militari. Spese che, prima e dopo Keynes, hanno sempre sostenuto la
domanda
> nei periodi di crisi economica.
>
> Il movimento operaio ha sempre contestato la gestione militare del ciclo
> economico e le ingenti commesse militari all'industria denunciando il
> militarismo e le sue due funzioni. La prima più evidente è quella più
> propriamente militare: l'uso della forza per la repressione all'interno e
> la guerra di rapina all'esterno (l'imperialismo come fase «suprema» del
> capitalismo). Già negli anni Trenta e più diffusamente negli decenni
> successivi, l'economista Michal Kalecki ha infatti sottolineato che per
> sopravvivere alle ricorrenti crisi economiche il capitalismo ha bisogno di
> dominare mercati e campi di investimento per procurarsi «profitti
esterni».
> Li realizza ricevendo per le sue esportazioni di capitali e di merci più
di
> ciò che paga per le sue importazioni, con l'indebitamento degli altri
paesi.
>
> L'altra importante funzione del militarismo è la funzione economica di
> sostegno alla domanda delle spese militari. Ne la Teoria della dinamica
> economica sempre Kalecki ha affermato che la formazione artificiale di
> «profitti esterni» si attua mediante il disavanzo del bilancio, cioè con
> l'indebitamento dello stato verso il settore privato. Il militarismo
dunque
> è indispensabile al capitalismo perché assicura sia l'una che l'altra
fonte
> dei «profitti esterni». Ora si capisce che la sinistra neoliberista abbia
> abbandonato l'analisi di entrambe queste funzioni, ma non si riesce a
> capire perché sinistre più radicali abbiano invece abbandonato l'analisi
> della funzione economica del militarismo, interpretando quindi ogni
> intervento bellico come guerra di rapina e politica di potenza. Questi
> evidenti motivi invece vengono spesso dilatati fino a diventare un
> travestimento che cela l'urgenza di contrastare la crisi economica e
> l'inconfessabile necessità di sostenere il settore privato con un enorme
> disavanzo del bilancio.
>
> Per questo l'antimilitarismo non ha mai smesso di denunciare la
> manipolazione della stampa e dei parlamenti da parte del complesso
> militare-industriale per ottenere sempre maggiori commesse militari.
> Fenomeno che ha segnato tutto il Novecento, dalla Krupp accusata di
> corruzione di un ministro nei primi venti anni del secolo scorso a Kennedy
> che vinse le elezioni con un rapporto Cia che giudicava l'armamento
> nucleare sovietico di ben trenta volte superiore alla sua effettiva
> consistenza, alle menzogne sull'incidente del Golfo del Tonchino che nel
> 1964 giustificò l'intervento militare in Vietnam, fino alle recenti
> menzogne della Cia sull'Iraq. Ma è questa «necessità economica della
> guerra» che è all'origine delle bugie di guerra, volte ad ingannare non i
> nemici ma i propri cittadini, come ha più volte notato Hannah Arendt nei
> suoi appassionati interventi sull'intervento statunitense in Vietnam.
>
> Ma questi interventi bellici lasciano sbigottiti gli analisti militari
come
> John Keegan perché in realtà sono più interventi di politica economica che
> operazioni militari, non tendono alla vittoria ma al prolungamento dello
> scontro, non annientano il nemico ma lo evocano, lo enfatizzano, lo
> costruiscono se non c'è. La guerra in Iraq sembra essere un intervento di
> questo tipo, che si presenta come militare ma si rivela militarmente privo
> di senso: «misterioso» secondo John Keegan.
>
> Le operazioni degli invasori quindi più che a una logica militare
rimandano
> a ciò che von Clausewitz definiva «scopi e condizioni politiche che
> appartengono ad un insieme più vasto». In realtà quella pratica
> capitalistica che Joan Robinson, economista tra i maggiori del `900, ha
> sintetizzato con queste parole in un saggio uscito nel 1962 ne la «New
Left
> Review»: «la guerra fredda ha provato che le recessioni non si possono
> evitare se non con le spese militari e poiché per giustificare gli
> armamenti si deve tenere viva la tensione internazionale, risulta che la
> cura è molto peggiore del male».
>
> Dunque quando la crisi economica si aggrava, compito principale delle
> amministrazioni Usa diventa quello di «tenere viva la tensione
> internazionale». E con una crisi così grave come quella iniziata a marzo
> del 2001, l'amministrazione Bush ha dovuto ravvivare la tensione.
>
> Un riarmo in grande stile tuttavia determina la ripresa generale
> dell'economia se a trarne vantaggio non sono solo le industrie degli
> armamenti ma anche altre industrie collaterali. Per questo era prevedibile
> che gli Usa cercassero in Iraq un «conflitto prolungato», che
giustificasse
> l'invio massiccio di mezzi di ogni tipo per un tempo significativo: ma è
> stato Augusto Graziani a prevederlo in un articolo apparso ne il manifesto
> ben due anni fa (31\12\2002). La ripresa dell'economia infatti si verifica
> quando, «con l'occupazione del territorio, occorrono forniture di ogni
> genere, e se la guerra si trasforma in guerriglia - scriveva Graziani -
non
> vi sono tecnologie o equipaggiamenti che possano avere ragione con
certezza
> della resistenza delle popolazioni attaccate. I conflitti prolungati
> esercitano un influsso sull'attività economica di tutti i paesi che,
> direttamente o indirettamente vi sono coinvolti».
>
> E' comunque facile supporre che questo «prolungamento» del conflitto sia
> stato previsto non solo da Graziani. Ma in assenza di documenti ufficiali
> non è altrettanto facile stabilire come si sia ottenuto. Interpretarlo
come
> fallimento dell'invasione è generoso con le popolazioni attaccate ma non
> corrisponde alla situazione reale. Si può quindi interpretarlo come
> attuazione di un intervento programmato che utilizza come nemico la
> guerriglia irachena. D'altronde Wolfowitz ha assicurato le industrie
> interessate che «la guerriglia in Iraq durerà altri cinque anni».
> Rientrerebbe dunque nei piani d'attacco provocare la popolazione che è
> stata lasciata in condizioni di totale insicurezza, bombardata, torturata,
> spinta continuamente sulla linea del fuoco. Rientrerebbe nelle previsioni
> anche un aumento considerevole del prezzo del petrolio - nello stile dei
> Bush - con quello iracheno fuori dal mercato ancora per molti anni, e con
> il Medio oriente in guerra permanente anche il controllo dei rifornimenti
> per Europa, Cina e Giappone.
>
> E così il riapparire di ex ufficiali di Saddam e di mujaheddin già al
soldo
> degli Usa che alternano taglie e taglio delle teste: perché l'Occidente
non
> sa vivere senza nemici e quindi continua a ricercare e a provocare
> conflitti tra civiltà con nemici debolissimi, se paragonati ai missili
> atomici sovietici, e che proprio per questo «devono indossare maschere
> mostruose per diventare credibili» (Daniele Archibugi, il manifesto
> 8/5/2004). E' la dottrina Bush, che Ramonet ha riassunto così:
> «L'anticomunismo vi era piaciuto? L'antislamismo vi entusiasmerà».
>
> In assenza di documenti ufficiali si può però procedere ex suppositione
> sulla scorta del saggio di John Keegan. Storico militare molto noto nel
suo
> paese a cui alterna il ruolo di columnist sul quotidiano The Guardian,
> Keegan elenca una lunga serie di «misteri» - «una strana parola per un
> analista militare» si scusa l'autore, che non nasconde il suo appoggio a
> Tony Blair -. Innanzitutto la stessa guerra che l'amministrazione Bush ha
> combattuto «secondo parametri convenzionali non è stata affatto una
> guerra». Il primo capitolo infatti si intitola «una guerra misteriosa» e
> nel primo mistero si contempla la durata, tre settimane, «la guerra più
> breve della storia»: «come hanno ottenuto la sparizione dell'esercito
> iracheno forte di 400.000 uomini e migliaia di carri armati e di cannoni,
> dove sono finiti?». Forse non esisteva, forse non ha combattuto.
>
> Nel dopoguerra poi i misteri si infittiscono perché «gli Americani
> commettono ora, tra i tanti, i due errori più gravi», lo sbandamento
> dell'esercito iracheno e l'assenza di polizia, che sommati alla misteriosa
> assenza di controllo ai confini «hanno permesso la formazione di
> combattenti con l'infiltrazione di estremisti islamici da altri paesi
arabi
> che si sono aggiunti ai miliziani di Saddam e del partito Baath».
>
> Queste dunque le premesse della guerriglia rilevate da Keegan, a cui si
> aggiungono i Fundamental Errors of Inflexible Army rilevati dal
> commentatore del Guardian (13/4/2004). Potremmo concludere che gli Usa
> hanno invaso l'Iraq senza combattere determinando le condizioni per una
> guerriglia almeno quinquennale condotta con armi leggere. Ma forse siamo
> già all'interno del programma della «guerra trentennale al terrorismo»
> voluto dall'amministrazione Bush, che ha però bisogno di nemici per
«tenere
> viva la tensione internazionale» e così rilanciare l'economia
statunitense.
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