Le ragioni inconfessabili della guerra



Bush, 30 Agosto 2004: - questa guerra non può essere vinta -
Un articolo sul nuovo modello di guerra. Da "il manifesto" del 26 Febbraio 2005
Le ragioni inconfessabili della guerra

Il conflitto bellico iracheno non risponde a una logica militare, ma economica. Per favorire le imprese private e per governare il prezzo del petrolio. La tesi provocatoria del volume «The Iraq War» dello storico militare inglese John Keegan
ENZO MODUGNO,
Il nuovo libro dello storico militare inglese John Keegan (The Iraq war, Utchinson, London) può contribuire a chiarire un punto di vista più volte affiorato nella discussione del movimento per la pace sull'Iraq come «caos programmato dagli Usa», un'interpretazione fondata sulle teorie sull'uso economico della guerra e delle spese militari come strumenti di politiche economiche. Infatti, quando il governatore della Banca d'Italia afferma che «con la politica di stampo keynesiano condotta dal 2001 l'economia Usa è tornata a crescere», sta dicendo in realtà che la guerra ha salvato gli Stati uniti. Di keynesiano sono rimaste infatti quasi solo le spese militari. Spese che, prima e dopo Keynes, hanno sempre sostenuto la domanda nei periodi di crisi economica.
Il movimento operaio ha sempre contestato la gestione militare del ciclo 
economico e le ingenti commesse militari all'industria denunciando il 
militarismo e le sue due funzioni. La prima più evidente è quella più 
propriamente militare: l'uso della forza per la repressione all'interno e 
la guerra di rapina all'esterno (l'imperialismo come fase «suprema» del 
capitalismo). Già negli anni Trenta e più diffusamente negli decenni 
successivi, l'economista Michal Kalecki ha infatti sottolineato che per 
sopravvivere alle ricorrenti crisi economiche il capitalismo ha bisogno di 
dominare mercati e campi di investimento per procurarsi «profitti esterni». 
Li realizza ricevendo per le sue esportazioni di capitali e di merci più di 
ciò che paga per le sue importazioni, con l'indebitamento degli altri paesi.
L'altra importante funzione del militarismo è la funzione economica di 
sostegno alla domanda delle spese militari. Ne la Teoria della dinamica 
economica sempre Kalecki ha affermato che la formazione artificiale di 
«profitti esterni» si attua mediante il disavanzo del bilancio, cioè con 
l'indebitamento dello stato verso il settore privato. Il militarismo dunque 
è indispensabile al capitalismo perché assicura sia l'una che l'altra fonte 
dei «profitti esterni». Ora si capisce che la sinistra neoliberista abbia 
abbandonato l'analisi di entrambe queste funzioni, ma non si riesce a 
capire perché sinistre più radicali abbiano invece abbandonato l'analisi 
della funzione economica del militarismo, interpretando quindi ogni 
intervento bellico come guerra di rapina e politica di potenza. Questi 
evidenti motivi invece vengono spesso dilatati fino a diventare un 
travestimento che cela l'urgenza di contrastare la crisi economica e 
l'inconfessabile necessità di sostenere il settore privato con un enorme 
disavanzo del bilancio.
Per questo l'antimilitarismo non ha mai smesso di denunciare la 
manipolazione della stampa e dei parlamenti da parte del complesso 
militare-industriale per ottenere sempre maggiori commesse militari. 
Fenomeno che ha segnato tutto il Novecento, dalla Krupp accusata di 
corruzione di un ministro nei primi venti anni del secolo scorso a Kennedy 
che vinse le elezioni con un rapporto Cia che giudicava l'armamento 
nucleare sovietico di ben trenta volte superiore alla sua effettiva 
consistenza, alle menzogne sull'incidente del Golfo del Tonchino che nel 
1964 giustificò l'intervento militare in Vietnam, fino alle recenti 
menzogne della Cia sull'Iraq. Ma è questa «necessità economica della 
guerra» che è all'origine delle bugie di guerra, volte ad ingannare non i 
nemici ma i propri cittadini, come ha più volte notato Hannah Arendt nei 
suoi appassionati interventi sull'intervento statunitense in Vietnam.
Ma questi interventi bellici lasciano sbigottiti gli analisti militari come 
John Keegan perché in realtà sono più interventi di politica economica che 
operazioni militari, non tendono alla vittoria ma al prolungamento dello 
scontro, non annientano il nemico ma lo evocano, lo enfatizzano, lo 
costruiscono se non c'è. La guerra in Iraq sembra essere un intervento di 
questo tipo, che si presenta come militare ma si rivela militarmente privo 
di senso: «misterioso» secondo John Keegan.
Le operazioni degli invasori quindi più che a una logica militare rimandano 
a ciò che von Clausewitz definiva «scopi e condizioni politiche che 
appartengono ad un insieme più vasto». In realtà quella pratica 
capitalistica che Joan Robinson, economista tra i maggiori del `900, ha 
sintetizzato con queste parole in un saggio uscito nel 1962 ne la «New Left 
Review»: «la guerra fredda ha provato che le recessioni non si possono 
evitare se non con le spese militari e poiché per giustificare gli 
armamenti si deve tenere viva la tensione internazionale, risulta che la 
cura è molto peggiore del male».
Dunque quando la crisi economica si aggrava, compito principale delle 
amministrazioni Usa diventa quello di «tenere viva la tensione 
internazionale». E con una crisi così grave come quella iniziata a marzo 
del 2001, l'amministrazione Bush ha dovuto ravvivare la tensione.
Un riarmo in grande stile tuttavia determina la ripresa generale 
dell'economia se a trarne vantaggio non sono solo le industrie degli 
armamenti ma anche altre industrie collaterali. Per questo era prevedibile 
che gli Usa cercassero in Iraq un «conflitto prolungato», che giustificasse 
l'invio massiccio di mezzi di ogni tipo per un tempo significativo: ma è 
stato Augusto Graziani a prevederlo in un articolo apparso ne il manifesto 
ben due anni fa (31\12\2002). La ripresa dell'economia infatti si verifica 
quando, «con l'occupazione del territorio, occorrono forniture di ogni 
genere, e se la guerra si trasforma in guerriglia - scriveva Graziani - non 
vi sono tecnologie o equipaggiamenti che possano avere ragione con certezza 
della resistenza delle popolazioni attaccate. I conflitti prolungati 
esercitano un influsso sull'attività economica di tutti i paesi che, 
direttamente o indirettamente vi sono coinvolti».
E' comunque facile supporre che questo «prolungamento» del conflitto sia 
stato previsto non solo da Graziani. Ma in assenza di documenti ufficiali 
non è altrettanto facile stabilire come si sia ottenuto. Interpretarlo come 
fallimento dell'invasione è generoso con le popolazioni attaccate ma non 
corrisponde alla situazione reale. Si può quindi interpretarlo come 
attuazione di un intervento programmato che utilizza come nemico la 
guerriglia irachena. D'altronde Wolfowitz ha assicurato le industrie 
interessate che «la guerriglia in Iraq durerà altri cinque anni». 
Rientrerebbe dunque nei piani d'attacco provocare la popolazione che è 
stata lasciata in condizioni di totale insicurezza, bombardata, torturata, 
spinta continuamente sulla linea del fuoco. Rientrerebbe nelle previsioni 
anche un aumento considerevole del prezzo del petrolio - nello stile dei 
Bush - con quello iracheno fuori dal mercato ancora per molti anni, e con 
il Medio oriente in guerra permanente anche il controllo dei rifornimenti 
per Europa, Cina e Giappone.
E così il riapparire di ex ufficiali di Saddam e di mujaheddin già al soldo 
degli Usa che alternano taglie e taglio delle teste: perché l'Occidente non 
sa vivere senza nemici e quindi continua a ricercare e a provocare 
conflitti tra civiltà con nemici debolissimi, se paragonati ai missili 
atomici sovietici, e che proprio per questo «devono indossare maschere 
mostruose per diventare credibili» (Daniele Archibugi, il manifesto 
8/5/2004). E' la dottrina Bush, che Ramonet ha riassunto così: 
«L'anticomunismo vi era piaciuto? L'antislamismo vi entusiasmerà».
In assenza di documenti ufficiali si può però procedere ex suppositione 
sulla scorta del saggio di John Keegan. Storico militare molto noto nel suo 
paese a cui alterna il ruolo di columnist sul quotidiano The Guardian, 
Keegan elenca una lunga serie di «misteri» - «una strana parola per un 
analista militare» si scusa l'autore, che non nasconde il suo appoggio a 
Tony Blair -. Innanzitutto la stessa guerra che l'amministrazione Bush ha 
combattuto «secondo parametri convenzionali non è stata affatto una 
guerra». Il primo capitolo infatti si intitola «una guerra misteriosa» e 
nel primo mistero si contempla la durata, tre settimane, «la guerra più 
breve della storia»: «come hanno ottenuto la sparizione dell'esercito 
iracheno forte di 400.000 uomini e migliaia di carri armati e di cannoni, 
dove sono finiti?». Forse non esisteva, forse non ha combattuto.
Nel dopoguerra poi i misteri si infittiscono perché «gli Americani 
commettono ora, tra i tanti, i due errori più gravi», lo sbandamento 
dell'esercito iracheno e l'assenza di polizia, che sommati alla misteriosa 
assenza di controllo ai confini «hanno permesso la formazione di 
combattenti con l'infiltrazione di estremisti islamici da altri paesi arabi 
che si sono aggiunti ai miliziani di Saddam e del partito Baath».
Queste dunque le premesse della guerriglia rilevate da Keegan, a cui si 
aggiungono i Fundamental Errors of Inflexible Army rilevati dal 
commentatore del Guardian (13/4/2004). Potremmo concludere che gli Usa 
hanno invaso l'Iraq senza combattere determinando le condizioni per una 
guerriglia almeno quinquennale condotta con armi leggere. Ma forse siamo 
già all'interno del programma della «guerra trentennale al terrorismo» 
voluto dall'amministrazione Bush, che ha però bisogno di nemici per «tenere 
viva la tensione internazionale» e così rilanciare l'economia statunitense.