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La politica di sicurezza europea è già nelle mani dei colossi industriali?
- Subject: La politica di sicurezza europea è già nelle mani dei colossi industriali?
- From: Marco Trotta <matro at bbs.olografix.org>
- Date: Mon, 8 Nov 1999 12:13:01 +0100
Salve a tutti, ricevo da Achille Lodovisi e mando in lista il seguente articolo che uscità nel prossimo numero di "Guerra&Pace" A presto. Marco Trotta. ---------------------- La politica di sicurezza europea è già nelle mani dei colossi industriali? I cannoni della fortezza europa Dopo la moneta l'esercito Entro l'anno 2000 il vertice politico dell'Unione Europea dovrebbe adottare tutte le decisioni atte a far sì che dopo l'adesione alla moneta unica si giunga alla costituzione delle forze armate europee. Questo obiettivo, ufficializzato nel corso del vertice dei Ministri degli Esteri dell'Unione svoltosi a Colonia a fine maggio, era già presente nel dibattito politico da anni. Tuttavia esso ha acquisito un rilievo del tutto particolare con l'adesione alla NATO dei paesi dell'Europa orientale ed in seguito alla guerra contro la Iugoslavia, cioè in concomitanza con il manifestarsi e l'acuirsi delle contraddizioni in seno alla NATO, originate dalla crisi di identità politica e militare cui l'Alleanza è andata incontro dopo la fine della Guerra Fredda. Il commento più calzante al riguardo emerge da un articolo di Michael Mandelbaum, relativo al bilancio della guerra della NATO nei Balcani, icasticamente intitolato Un eccellente disastro. Quasi a voler rimarcare l'importanza del problema, il nuovo Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, ha legato l'esito positivo del suo mandato alla concreta realizzazione di una politica estera e di sicurezza comune basata su di uno strumento militare credibile. È del tutto evidente - e dovrebbe esserlo per antonomasia a tutti coloro che operano per la pace e la democrazia, al movimento non violento ed alle organizzazioni non governative che lavorano nella sfera sociale e sono intervenute ed intervengono nelle zone di conflitto - che questo è un passaggio troppo importante nella vita di centinaia di milioni di europei e per i popoli degli altri continenti per affidarne gli esiti ai patteggiamenti tra politici, generali ed industriali. I desiderata di Washington e le baruffe europee Il possibile status autonomo dell'Europa dal punto di vista militare e geopolitico potrebbe trasferire in un settore dall'importanza decisiva le dinamiche conflittuali e le contraddizioni da tempo esistenti in campo economico, finanziario e commerciale tra USA ed Unione Europea. La nuova autonomia europea all'interno della NATO è stata ufficialmente riconosciuta nel corso delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell'Alleanza; tuttavia un conto sono le dichiarazioni di principio adottate con squilli di trombe e sottofondo di bombardamenti 'umanitari', altro è la concreta realtà. Per dirla con le parole di Zbigniew Brzezinski, uno degli ispiratori della linea politica attualmente prevalente nel Dipartimento di Stato, per gli USA l'Europa è un testa di ponte essenziale sul continente euroasiatico, dal controllo del quale trae origine il rango di potenza globale che spetta agli Stati Uniti. L'autonomia europea diviene allora un processo condivisibile alla condizione irrinunciabile che non metta in discussione gli stretti legami transatlantici. Una sorta di libertà vigilata - per la quale gli USA sono disposti a spendere la loro influenza nella composizione dei contrasti emersi tra i paesi europei a proposito di politica estera e di sicurezza - che comporterebbe una suddivisione degli oneri associati a tale 'condominio' politico e militare su scala mondiale, eliminando il cinismo europeo sempre pronto a comportarsi come alleato subdolo ed inaffidabile salvo poi rifugiarsi sotto l'ombrello protettivo statunitense. I profondi contrasti emersi all'interno della NATO in occasione della guerra aerea contro la Iugoslavia hanno dimostrato, tra l'altro, come il richiamo ad un 'destino comune' atlantico abbia perso oggi gran parte della sua forza per lasciare semmai campo libero ad una strisciante competizione tra USA ed Europa e tra gli stessi paesi europei, al fine di ottenere i maggiori vantaggi possibili dall'apertura alla globalizzazione finanziaria, produttiva e culturale degli spazi orientali. In sostanza, se l'Eurasia è davvero la 'chiave dell'egemonia mondiale' non si vede la ragione per la quale gli europei - divenuti potenza economica di levatura mondiale - dovrebbero limitarsi ad agire come semplici proconsoli di Washington. L'Europa autosufficiente e nel contempo legata agli Stati Uniti potrebbe trasformarsi in una creatura chimerica e a poco varrebbero eventuali altri conflitti suscitati ad arte alle frontiere dell'Unione con l'intento di promuovere un fronte comune euro-statunitense. Il rischio sarebbe quello di ottenere il risultato esattamente opposto. Non si deve dimenticare infatti come soprattutto in Germania il mondo finanziario e industriale viva con grande apprensione l'eventuale destabilizzazione dell'Europa orientale e della Russia, regioni che hanno attratto una quantità notevole di investimenti finanziari e produttivi di grandi società tedesche. Dal canto suo il governo e i dirigenti dell'industria a produzione militare francesi si sono apertamente schierati a favore dell'assunzione, da parte dell'Unione Europea, di un ruolo politico militare autonomo rispetto agli Stati Uniti, con un grado di indipendenza che va ben oltre la capacità di condurre in proprio operazioni di peacekeeping e missioni umanitarie. Inoltre i contrasti tra francesi, tedeschi e britannici sulla titolarità della leadership della struttura militare-industriale europea, le resistenze dei paesi neutrali ad accettare la giurisdizione comunitaria sulla politica di difesa territoriale e la pretesa inglese di essere investiti della guida politica di un processo di integrazione atlantica del tutto simile a quello auspicato dagli USA, costituiscono altrettanti fattori di forte turbolenza ed incertezza. Le grandi manovre dell'industria europea Non può esistere una difesa comune senza una base industriale-militare transnazionale europea, è questo l'unico assioma, nella costellazione di dichiarazioni spesso contrastanti a proposito della politica militare europea, che pare riscuotere i maggiori consensi. Se si presta attenzione a quanto sta accadendo da alcuni anni nelle industrie europee del settore aerospaziale e degli armamenti emerge però un quadro assai contrastato e conflittuale che per certi versi riproduce la conflittualità esistente in materia di politica di sicurezza comune. Il processo di razionalizzazione basato sull'integrazione verticale del comparto produttivo è iniziato in Europa, anche di riflesso a quanto stava già accadendo negli USA, nei primi anni Novanta. Nei maggiori paesi europei, quale risultato di questa iniziale ristrutturazione, costata centinaia di migliaia di posti di lavoro, sono emerse grandi aggregazioni industriali, tecnologiche e finanziarie, capaci di divenire gli unici referenti dei governi per quel che concerne la definizione delle strategie nazionali volte alla produzione, alla ricerca e sviluppo ed all'acquisizione di sistemi nel settore degli armamenti e della logistica militare. In Italia a 'consolidamento' completato l'intero comparto è dominato da quattro gruppi: Finmeccanica (con attività nei settori aeronautico, dei sistemi terrestri e navali, spaziale ed elicotteristico), Fincantieri (attiva nella cantieristica) - entrambe aziende con prevalenza del capitale pubblico - Fiat (veicoli per il trasporto terrestre, mezzi corazzati, attività spaziali, motoristica aeronautica e navale, munizionamento) e Marconi Group (elettronica e comunicazione). In Inghilterra la scena è dominata dal colosso British Aerospace (Bae), rafforzatosi enormemente con l'acquisizione della Marconi, mentre in Francia si sono creati due grandi poli: Aérospatiale-Matra e Thomson-Csf. In Germania è emersa la grande potenza industriale, tecnologica e finanziaria del gruppo tedesco-statunitense DaimlerChrysler Aerospace AG (DASA). La frenetica corsa al gigantismo, che si è sperimentato non essere sinonimo di efficienza, ha in seguito travalicato le frontiere nazionali con una pronunciata tendenza all'integrazione orizzontale di tipo transnazionale volta alla ridefinizione dei settori d'intervento e delle dimensioni del mercato in cui si opera. Come ha scritto l'International Institute for Strategic Studies di Londra le due possibili strade che può percorrere l'industria europea degli armamenti sono da un lato l'allargamento della collaborazione tra l'industria statunitense e quella europea al fine di costruire una efficiente base tecnologica e industriale comune, all'opposto la creazione di due fortezze industriali-militari indipendenti ed anche in competizione. Tale scelta si presenta non più a livello nazionale ma nell'ambito della nuova entità politica sovranazionale europea, ponendo la questione dei possibili condizionamenti esercitati sull'operato degli esponenti di governo dalle strategie contrapposte dei grandi schieramenti industriali che si vanno formando. L'ipotesi di una sempre maggiore collaborazione tra le due sponde dell'Atlantico è caldeggiata dalla dirigenza dell'industria britannica per difendere i numerosi e cospicui investimenti che nel corso degli anni Ottanta e nel decennio successivo i grandi gruppi inglesi hanno realizzato nel comparto militare industriale statunitense e canadese, ottenendo anche un accesso limitato allo know-how statunitense. Oggi tali attività corrispondono ad un giro d'affari di 4,5 miliardi di dollari annui, un patrimonio che verrebbe messo a repentaglio da una eventuale adesione alla politica della completa autonomia europea dagli USA. Ciononostante, gli stessi manager inglesi sono convinti che la collaborazione con i colossi statunitensi non potrà avvenire su di un terreno di parità se a Washington e nei consigli d'amministrazione delle grandi aziende militari-industriali d'oltre oceano si vorrà perseguire l'obiettivo del mantenimento dell'attuale supremazia tecnologica statunitense. Sul fronte opposto si colloca la posizione del gruppo dirigente francese, favorevole ad una pronunciata autonomia dell'Europa, mentre la Germania ha mantenuto sino all'ottobre di quest'anno un atteggiamento sostanzialmente ambiguo e molto più attento a consolidare le proprie posizioni piuttosto che a scegliere tra le due vie. Tutti gli attori di primo piano tuttavia mirano alla leadership politica, tecnologica e industriale nel processo di integrazione dell'industria aerospaziale europea, una posizione che si assocerebbe alla possibilità di condizionare gli investimenti e le linee di programmazione strategica di gran parte del settore ad elevato contenuto tecnologico del vecchio continente. Come ha rilevato recentemente Vally Koubi la natura delle armi moderne fa sì che mutamenti significativi nella tecnologia militare possano provocare cambiamenti repentini e profondi negli equilibri di potere a livello internazionale. Si tratta di un fenomeno che oggi e in misura sempre maggiore nel futuro andrà ad influenzare in modo determinante i rapporti di forza tra gli stati e/o tra le grandi regioni economiche e politiche del mondo. L'apertura delle frontiere ai capitali ed alle tecnologie ha creato sinergie crescenti tra produzione e ricerca militare e civile, tali da rendere difficile la distinzione tra i due settori nell'industria elettronica, ad alta tecnologia, dei mezzi di trasporto e della logistica. Sembra dunque assai improbabile che i colossi statunitensi ed il governo USA siano disposti a condividere il costoso primato in questo settore con l'Europa, pur in presenza di una tendenza transnazionale per quel che concerne la produzione e la commercializzazione dei sistemi d'arma e della componentistica. Si stima che per sostenere la competizione con gli Stati Uniti i paesi europei dovrebbero aumentare di più di 20 miliardi di dollari all'anno i loro investimenti in programmi di ricerca, un esborso che andrebbe a completo beneficio delle industrie del settore con ricadute per il settore civile tutte da verificare. La lotta per l'egemonia nell'industria degli armamenti europea La guerra contro la Iugoslavia ha incentivato il processo di consolidamento dell'industria a produzione militare: a giugno la DASA ha annunciato un accordo con la spagnola CASA ed è iniziata, da parte tedesca, la ricerca di una alleanza che permettesse di contrastare il gruppo inglese sorto dalla fusione tra Bae e Marconi. Falliti i negoziati per cercare partners negli USA nell'ottica di quell'asse politico, industriale e militare statunitense-germanico che, secondo Richard Holbrooke, rappresenterebbe la più importante collaborazione per gli Usa nel prossimo secolo, il 14 ottobre la DASA e la Aérospatiale-Matra hanno annunciato la fusione delle loro attività nel settore aerospaziale e degli armamenti ed hanno dato vita, sotto l'egida politica dei primi ministri francese e tedesco, alla European Aeronautic, Defense and Space (EADS). Un colosso che vale un fatturato potenziale di più di 25 miliardi di dollari, il primo in Europa ed il terzo al mondo. È tramontato definitivamente il progetto di fusione tra la Bae e Aérospatiale che avrebbe dovuto dare vita, sin dal 1998, alla European Aerospace and Defence Company. Oggi in Europa esistono due grandi poli caratterizzati da strategie e disegni politici diversi e per i gruppi industriali degli altri paesi, Italia inclusa, si tratterà di scegliere la posizione ancillare più conveniente; tuttavia l'asse Berlino-Parigi sembra avere un progetto politico ed industriale più articolato e 'globalizzato' come dimostra la vicenda del consorzio Airbus A400M operativo sin dal febbraio 1999. Lo scopo di questa società è quello di realizzare il Future Large Aircraft, l'aereo militare da trasporto europeo alla cui costruzione parteciperanno Bae, Aérospatiale, DASA, CASA, Finmeccanica, Flabel (Belgio) e la TUSAS Aerospace Industries turca. L'industria tedesca vedrebbe di buon occhio l'allargamento del consorzio alle industrie aerospaziali russa ed ucraina, una mossa che orienterebbe il processo di integrazione in una direzione 'eurasiatica'. Un'industria anomala La forma che va assumendo oggi l'allargamento dei mercati su scala planetaria fa sì che gli apparati dirigenti delle imprese multinazionali intendano rendere irreversibile la loro egemonia economica e finanziaria variando, ove necessario, il quadro normativo stabilito dagli stati sovrani. Nel settore militare-industriale, che a detta di molti analisti anche nella temperie imperante del liberismo sfrenato difficilmente diverrà un'industria normale, tale politica finisce per generare una serie di tensioni che hanno al centro una questione di sovranità legata al controllo dello stato sulle tecnologie e sui processi produttivi ritenuti di interesse vitale per la sicurezza ed il prestigio militare ed economico di un paese. Per tentare di risolvere la contraddizione originata dalla necessità delle aziende di cercare all'estero gli accordi che garantiscano la diminuzione dei costi di produzione, la massima libertà d'azione per i capitali e la conquista di posizioni di forza nei mercati internazionali, da più parti si propone di sottoporre a controllo nazionale ferreo tutta l'attività di Ricerca e Sviluppo, affidando magari il compito ad una collaborazione tra apparati dello stato ed aziende. In sostanza i processi legati alla globalizzazione, con le caratteristiche proprie del settore civile, sono accettabili per quanto concerne la produzione ed il marketing ma non per il know-how e la conoscenza tecnologica, i due fattori che consentono di conservare la supremazia commerciale garantendo un maggiore valore aggiunto ai prodotti. Non siamo di fronte a soluzioni nuove, infatti anche nel settore civile le grandi multinazionali decentrano la produzione ed il marketing ma tengono ancora legate al paese d'origine del gruppo di comando le funzioni che presiedono all'innovazione dei prodotti. Le richieste dei grandi gruppi industriali Cosa chiedono le aziende europee ai rispettivi governi ed all'esecutivo dell'Unione, che dal canto loro, indipendentemente dalla loro coloritura politica e dalla quota di partecipazione ai capitali sociali, si sono sinora impegnati per assecondarle in questa fase di transizione? Innanzitutto continuare, incrementandolo, il sostegno ai programmi di ricerca e sviluppo ed alla produzione. Tale appoggio si deve concretare su tutti i mercati da quello nazionale, al costituendo mercato europeo sino ai mercati mondiali. Per quel che concerne questi ultimi le diplomazie e gli esecutivi dovrebbero rendersi politicamente disponibili per favorire la conquista di nuove commesse: offrendo garanzie finanziarie per affrontare un rischio oggi comunissimo, quello dell'insolvenza, coprendo i costi correlati ai programmi di compensazione industriale messi a punto per allettare l'acquirente con un insieme di offerte che, integrando il contratto concernente i sistemi di uso militare con investimenti e agevolazioni finanziarie e commerciali, consentano di vincere la concorrenza soprattutto nei paesi extraeuropei. Si ritiene ovviamente indispensabile anche la revisione in direzione di un allentamento dei vincoli - qualora esista un regime di controllo sulle esportazioni di materiali d'armamento e di tecnologie ad uso duale - che sottopongono l'autorizzazione ai trasferimenti a criteri di verifica politica sulla destinazione finale dei sistemi, in relazione alla presenza di situazioni di conflitto, di violazione dei diritti umani e di tensioni connesse a corse regionali al riarmo. Nella logica della globalizzazione commerciale del settore tali criteri sono d'ostacolo e vanno sostituiti - nelle legislazioni nazionali ma soprattutto nei regolamenti comunitari, come è in parte avvenuto con l'adozione del Codice di Condotta Europeo - con quelli che invece agevolano la libertà d'azione tramite l'espansione delle attività aziendali oltre confine, sia con vendite dirette che con le modalità assai più flessibili e 'sfuggenti' della partecipazione a progetti transnazionali. È indubbio che una simile evoluzione renderà assai difficile l'esercizio di un controllo democratico in questo delicato settore mentre si accresceranno i rischi, già oggi enormi, associati alla corsa agli armamenti. Per quel che concerne la domanda interna il processo di ristrutturazione e razionalizzazione in atto porta i grandi gruppi industriali a esercitare pressioni sul mondo politico per poter disporre di un portafoglio ordini pianificato, ma soprattutto esente da repentine variazioni e cancellazioni. La razionalizzazione della politica delle acquisizioni deve avvenire in concomitanza con la ristrutturazione del bilancio per la funzione difesa attraverso una forte diminuzione dei costi associati alla gestione del personale e delle infrastrutture e un costante aumento delle risorse destinate agli investimenti in armamenti e logistica. L'obiettivo politico è quello di trasformare il settore a produzione militare e duale nel cardine della strategia industriale complessiva del paese tramite l'adozione ed il continuo rifinanziamento di leggi per la ristrutturazione del comparto, per i progetti aerospaziali, per le tecnologie di punta e per i programmi di acquisizione legati alla partecipazione a consorzi transnazionali (ad esempio EFA). Nel corso del convegno ASPEN svoltosi a Taormina nel giugno di quest'anno il Ministro della Difesa italiano ha dichiarato che nei prossimi cinque anni occorrerà aumentare le spese per la difesa portandole dall'1,1% all'1,5% del Prodotto interno lordo con un esborso di circa 8000 miliardi. Il presidente del consiglio ha confermato questa impostazione dichiarando la disponibilità dell'esecutivo ad aumentare il bilancio militare nel caso in cui si concretizzi una iniziativa comune europea nel settore degli armamenti e della difesa. Il documento di previsione della legge finanziaria già prevede per il prossimo esercizio una maggiore spesa per l'acquisto di armamenti. Questa strategia è comune a tutte le realtà nazionali europee ed è estremamente probabile il verificarsi del suo trasferimento su scala continentale nell'eventualità di una definitiva integrazione politica, industriale e militare. Per un'Europa democratica e pacifica Dagli scenari fortemente contrastati che si è cercato di delineare in precedenza è puntualmente assente quello che dovrebbe essere il protagonista ed il giudice principale delle scelte da operarsi in tema di sicurezza: la popolazione europea. Come è accaduto con l'unificazione monetaria il rischio estremamente concreto che si palesa è duplice: da una parte la litigiosa élite europea raggiungerà faticosamente un compromesso tra interessi ed aspirazioni contrastanti, che tuttavia gravitano su una concezione della politica estera e di difesa giocata tra sudditanza subdola nei confronti degli Stati Uniti ed aneliti da 'superpotenza' pronta alle sfide globali. Il tutto si tramuterà in scelte calate dall'alto che ripercorreranno vecchie strade i cui esiti appartengono già alla storia drammatica del Novecento. D'altro canto si farà di tutto per non coinvolgere i cittadini europei in un dibattito aperto sulle possibili alternative ad una concezione della sicurezza incentrata esclusivamente sulla forza degli apparati militari-industriali. Lo 'stato' europeo ha dunque ottime probabilità di nascere già pericolosamente desueto, incapace di affrontare in termini nuovi la realtà ineludibile rappresentata dalle aspirazioni alla democrazia ed al benessere di miliardi di esseri umani, immiseriti da un meccanismo di ridistribuzione delle risorse mondiali dominato da pochi centri di potere finanziario, industriale, commerciale e militare. Se davvero il destino della 'fortezza Europa' sarà quello di trasformarsi in una sorta di commissariato di polizia con funzioni di ordine pubblico interno ed internazionale, necessario a mandare avanti gli affari, tutti coloro che operano per una evoluzione democratica, pacifica e sostenibile della società avranno perso una occasione storica. È necessario agire con immediatezza per evitare tale esito, al momento non sembra esistere un'opinione pubblica largamente favorevole alla costituzione di un esercito europeo che consenta all'Unione di dotare di 'muscoli' la propria impalcatura finanziaria ed economica. Stando ad un sondaggio realizzato nel maggio di quest'anno in Italia oltre il 70% degli interpellati non sarebbe disposto a pagare un contributo per creare un pilastro di difesa europeo integrato nella NATO. Questo atteggiamento è perfettamente comprensibile dal momento che il cittadino ha visto, in nome dei parametri stabiliti per accedere al mercato unico, decurtare in misura notevole gli investimenti pubblici in settori quali la protezione sociale, la sanità e la pubblica istruzione. Tuttavia la jacquerie contro l'ennesimo tributo per procurare i cannoni alla 'Fortezza Europa' resterebbe fine a se stessa se non si trasformasse in un vasto movimento politicamente cosciente, capace di avanzare in tutti i paesi dell'Unione proposte alternative per affrontare i problemi basilari per lo stesso esercizio del diritto di cittadinanza quali quello della difesa e delle relazioni internazionali. Achille Lodovisi
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