La politica di sicurezza europea è già nelle mani dei colossi industriali?



Salve a tutti,
ricevo da Achille Lodovisi e mando in lista il seguente articolo che uscità
nel prossimo numero di "Guerra&Pace"

A presto. Marco Trotta.
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La politica di sicurezza europea è già nelle mani dei colossi industriali? 

I cannoni della fortezza europa

Dopo la moneta l'esercito

Entro l'anno 2000 il vertice politico dell'Unione Europea dovrebbe adottare
tutte le decisioni atte a far sì che dopo l'adesione alla moneta unica si
giunga alla costituzione delle forze armate europee. Questo obiettivo,
ufficializzato nel corso del vertice dei Ministri degli Esteri dell'Unione
svoltosi a Colonia a fine maggio, era già presente nel dibattito politico da
anni. Tuttavia esso ha acquisito un rilievo del tutto particolare con
l'adesione alla NATO dei paesi dell'Europa orientale ed in seguito alla
guerra contro la Iugoslavia, cioè in concomitanza con il manifestarsi e
l'acuirsi delle contraddizioni in seno alla NATO, originate dalla crisi di
identità politica e militare cui l'Alleanza è andata incontro dopo la fine
della Guerra Fredda. Il commento più calzante al riguardo emerge da un
articolo di Michael Mandelbaum, relativo al bilancio della guerra della NATO
nei Balcani, icasticamente intitolato Un eccellente disastro.

Quasi a voler rimarcare l'importanza del problema, il nuovo Presidente della
Commissione Europea, Romano Prodi, ha legato l'esito positivo del suo
mandato alla concreta realizzazione di una politica estera e di sicurezza
comune basata su di uno strumento militare credibile. È del tutto evidente -
e dovrebbe esserlo per antonomasia a tutti coloro che operano per la pace e
la democrazia, al movimento non violento ed alle organizzazioni non
governative che lavorano nella sfera sociale e sono intervenute ed
intervengono nelle zone di conflitto - che questo è un passaggio troppo
importante nella vita di centinaia di milioni di europei e per i popoli
degli altri continenti per affidarne gli esiti ai patteggiamenti tra
politici, generali ed industriali.


I desiderata di Washington e le baruffe europee

Il possibile status autonomo dell'Europa dal punto di vista militare e
geopolitico potrebbe trasferire in un settore dall'importanza decisiva le
dinamiche conflittuali e le contraddizioni da tempo esistenti in campo
economico, finanziario e commerciale tra USA ed Unione Europea. La nuova
autonomia europea all'interno della NATO è stata ufficialmente riconosciuta
nel corso delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario
dell'Alleanza; tuttavia un conto sono le dichiarazioni di principio adottate
con squilli di trombe e sottofondo di bombardamenti 'umanitari', altro è la
concreta realtà. Per dirla con le parole di Zbigniew Brzezinski, uno degli
ispiratori della linea politica attualmente prevalente nel Dipartimento di
Stato, per gli USA l'Europa è un testa di ponte essenziale sul continente
euroasiatico, dal controllo del quale trae origine il rango di potenza
globale che spetta agli Stati Uniti. L'autonomia europea diviene allora un
processo condivisibile alla condizione irrinunciabile che non metta in
discussione gli stretti legami transatlantici. Una sorta di libertà vigilata
- per la quale gli USA sono disposti a spendere la loro influenza nella
composizione dei contrasti emersi tra i paesi europei a proposito di
politica estera e di sicurezza - che comporterebbe una suddivisione degli
oneri associati a tale 'condominio' politico e militare su scala mondiale,
eliminando il cinismo europeo sempre pronto a comportarsi come alleato
subdolo ed inaffidabile salvo poi rifugiarsi sotto l'ombrello protettivo
statunitense. 

I profondi contrasti emersi all'interno della NATO in occasione della guerra
aerea contro la Iugoslavia hanno dimostrato, tra l'altro, come il richiamo
ad un 'destino comune' atlantico abbia perso oggi gran parte della sua forza
per lasciare semmai campo libero ad una strisciante competizione tra USA ed
Europa e tra gli stessi paesi europei, al fine di ottenere i maggiori
vantaggi possibili dall'apertura alla globalizzazione finanziaria,
produttiva e culturale degli spazi orientali. In sostanza, se l'Eurasia è
davvero la 'chiave dell'egemonia mondiale' non si vede la ragione per la
quale gli europei - divenuti potenza economica di levatura mondiale -
dovrebbero limitarsi ad agire come semplici proconsoli di Washington.
L'Europa autosufficiente e nel contempo legata agli Stati Uniti potrebbe
trasformarsi in una creatura chimerica e a poco varrebbero eventuali altri
conflitti suscitati ad arte alle frontiere dell'Unione con l'intento di
promuovere un fronte comune euro-statunitense. Il rischio sarebbe quello di
ottenere il risultato esattamente opposto. Non si deve dimenticare infatti
come soprattutto in Germania il mondo finanziario e industriale viva con
grande apprensione l'eventuale destabilizzazione dell'Europa orientale e
della Russia, regioni che hanno attratto una quantità notevole di
investimenti finanziari e produttivi di grandi società tedesche. Dal canto
suo il governo e i dirigenti dell'industria a produzione militare francesi
si sono apertamente schierati a favore dell'assunzione, da parte dell'Unione
Europea, di un ruolo politico militare autonomo rispetto agli Stati Uniti,
con un grado di indipendenza che va ben oltre la capacità di condurre in
proprio operazioni di peacekeeping e missioni umanitarie. Inoltre i
contrasti tra francesi, tedeschi e britannici sulla titolarità della
leadership della struttura militare-industriale europea, le resistenze dei
paesi neutrali ad accettare la giurisdizione comunitaria sulla politica di
difesa territoriale e la pretesa inglese di essere investiti della guida
politica di un processo di integrazione atlantica del tutto simile a quello
auspicato dagli USA, costituiscono altrettanti fattori di forte turbolenza
ed incertezza.


Le grandi manovre dell'industria europea

Non può esistere una difesa comune senza una base industriale-militare
transnazionale europea, è questo l'unico assioma, nella costellazione di
dichiarazioni spesso contrastanti a proposito della politica militare
europea, che pare riscuotere i maggiori consensi. Se si presta attenzione a
quanto sta accadendo da alcuni anni nelle industrie europee del settore
aerospaziale e degli armamenti emerge però un quadro assai contrastato e
conflittuale che per certi versi riproduce la conflittualità esistente in
materia di politica di sicurezza comune. Il processo di razionalizzazione
basato sull'integrazione verticale del comparto produttivo è iniziato in
Europa, anche di riflesso a quanto stava già accadendo negli USA, nei primi
anni Novanta. Nei maggiori paesi europei, quale risultato di questa iniziale
ristrutturazione, costata centinaia di migliaia di posti di lavoro, sono
emerse grandi aggregazioni industriali, tecnologiche e finanziarie, capaci
di divenire gli unici referenti dei governi per quel che concerne la
definizione delle strategie nazionali volte alla produzione, alla ricerca e
sviluppo ed all'acquisizione di sistemi nel settore degli armamenti e della
logistica militare. In Italia a 'consolidamento' completato l'intero
comparto è dominato da quattro gruppi: Finmeccanica (con attività nei
settori aeronautico, dei sistemi terrestri e navali, spaziale ed
elicotteristico), Fincantieri (attiva nella cantieristica) - entrambe
aziende con prevalenza del capitale pubblico - Fiat (veicoli per il
trasporto terrestre, mezzi corazzati, attività spaziali, motoristica
aeronautica e navale, munizionamento) e Marconi Group (elettronica e
comunicazione). In Inghilterra la scena è dominata dal colosso British
Aerospace (Bae), rafforzatosi enormemente con l'acquisizione della Marconi,
mentre in Francia si sono creati due grandi poli: Aérospatiale-Matra e
Thomson-Csf. In Germania è emersa la grande potenza industriale, tecnologica
e finanziaria del gruppo tedesco-statunitense DaimlerChrysler Aerospace AG
(DASA). La frenetica corsa al gigantismo, che si è sperimentato non essere
sinonimo di efficienza, ha in seguito travalicato le frontiere nazionali con
una pronunciata tendenza all'integrazione orizzontale di tipo transnazionale
volta alla ridefinizione dei settori d'intervento e delle dimensioni del
mercato in cui si opera. 

Come ha scritto l'International Institute for Strategic Studies di Londra le
due possibili strade che può percorrere l'industria europea degli armamenti
sono da un lato l'allargamento della collaborazione tra l'industria
statunitense e quella europea al fine di costruire una efficiente base
tecnologica e industriale comune, all'opposto la creazione di due fortezze
industriali-militari indipendenti ed anche in competizione.

Tale scelta si presenta non più a livello nazionale ma nell'ambito della
nuova entità politica sovranazionale europea, ponendo la questione dei
possibili condizionamenti esercitati sull'operato degli esponenti di governo
dalle strategie contrapposte dei grandi schieramenti industriali che si
vanno formando. L'ipotesi di una sempre maggiore collaborazione tra le due
sponde dell'Atlantico è caldeggiata dalla dirigenza dell'industria
britannica per difendere i numerosi e cospicui investimenti che nel corso
degli anni Ottanta e nel decennio successivo i grandi gruppi inglesi hanno
realizzato nel comparto militare industriale statunitense e canadese,
ottenendo anche un accesso limitato allo know-how statunitense. Oggi tali
attività corrispondono ad un giro d'affari di 4,5 miliardi di dollari annui,
un patrimonio che verrebbe messo a repentaglio da una eventuale adesione
alla politica della completa autonomia europea dagli USA. Ciononostante, gli
stessi manager inglesi sono convinti che la collaborazione con i colossi
statunitensi non potrà avvenire su di un terreno di parità se a Washington e
nei consigli d'amministrazione delle grandi aziende militari-industriali
d'oltre oceano si vorrà perseguire l'obiettivo del mantenimento dell'attuale
supremazia tecnologica statunitense. Sul fronte opposto si colloca la
posizione del gruppo dirigente francese, favorevole ad una pronunciata
autonomia dell'Europa, mentre la Germania ha mantenuto sino all'ottobre di
quest'anno un atteggiamento sostanzialmente ambiguo e molto più attento a
consolidare le proprie posizioni piuttosto che a scegliere tra le due vie.
Tutti gli attori di primo piano tuttavia mirano alla leadership politica,
tecnologica e industriale nel processo di integrazione dell'industria
aerospaziale europea, una posizione che si assocerebbe alla possibilità di
condizionare gli investimenti e le linee di programmazione strategica di
gran parte del settore ad elevato contenuto tecnologico del vecchio continente.

Come ha rilevato recentemente Vally Koubi la natura delle armi moderne fa sì
che mutamenti significativi nella tecnologia militare possano provocare
cambiamenti repentini e profondi negli equilibri di potere a livello
internazionale. Si tratta di un fenomeno che oggi e in misura sempre
maggiore nel futuro andrà ad influenzare in modo determinante i rapporti di
forza tra gli stati e/o tra le grandi regioni economiche e politiche del
mondo. L'apertura delle frontiere ai capitali ed alle tecnologie ha creato
sinergie crescenti tra produzione e ricerca militare e civile, tali da
rendere difficile la distinzione tra i due settori nell'industria
elettronica, ad alta tecnologia, dei mezzi di trasporto e della logistica.
Sembra dunque assai improbabile che i colossi statunitensi ed il governo USA
siano disposti a condividere il costoso primato in questo settore con
l'Europa, pur in presenza di una tendenza transnazionale per quel che
concerne la produzione e la commercializzazione dei sistemi d'arma e della
componentistica. Si stima che per sostenere la competizione con gli Stati
Uniti i paesi europei dovrebbero aumentare di più di 20 miliardi di dollari
all'anno i loro investimenti in programmi di ricerca, un esborso che
andrebbe a completo beneficio delle industrie del settore con ricadute per
il settore civile tutte da verificare.


La lotta per l'egemonia nell'industria degli armamenti europea

La guerra contro la Iugoslavia ha incentivato il processo di consolidamento
dell'industria a produzione militare: a giugno la DASA ha annunciato un
accordo con la spagnola CASA ed è iniziata, da parte tedesca, la ricerca di
una alleanza che permettesse di contrastare il gruppo inglese sorto dalla
fusione tra Bae e Marconi. Falliti i negoziati per cercare partners negli
USA nell'ottica di quell'asse politico, industriale e militare
statunitense-germanico che, secondo Richard Holbrooke, rappresenterebbe la
più importante collaborazione per gli Usa nel prossimo secolo, il 14 ottobre
la DASA e la Aérospatiale-Matra hanno annunciato la fusione delle loro
attività nel settore aerospaziale e degli armamenti ed hanno dato vita,
sotto l'egida politica dei primi ministri francese e tedesco, alla European
Aeronautic, Defense and Space (EADS). Un colosso che vale un fatturato
potenziale di più di 25 miliardi di dollari, il primo in Europa ed il terzo
al mondo. È tramontato definitivamente il progetto di fusione tra la Bae e
Aérospatiale che avrebbe dovuto dare vita, sin dal 1998, alla European
Aerospace and Defence Company. Oggi in Europa esistono due grandi poli
caratterizzati da strategie e disegni politici diversi e per i gruppi
industriali degli altri paesi, Italia inclusa, si tratterà di scegliere la
posizione ancillare più conveniente; tuttavia l'asse Berlino-Parigi sembra
avere un progetto politico ed industriale più articolato e 'globalizzato'
come dimostra la vicenda del consorzio Airbus A400M operativo sin dal
febbraio 1999. Lo scopo di questa società è quello di realizzare il Future
Large Aircraft, l'aereo militare da trasporto europeo alla cui costruzione
parteciperanno Bae, Aérospatiale, DASA, CASA, Finmeccanica, Flabel (Belgio)
e la TUSAS Aerospace Industries turca. L'industria tedesca vedrebbe di buon
occhio l'allargamento del consorzio alle industrie aerospaziali russa ed
ucraina, una mossa che orienterebbe il processo di integrazione in una
direzione 'eurasiatica'.


Un'industria anomala

La forma che va assumendo oggi l'allargamento dei mercati su scala
planetaria fa sì che gli apparati dirigenti delle imprese multinazionali
intendano rendere irreversibile la loro egemonia economica e finanziaria
variando, ove necessario, il quadro normativo stabilito dagli stati sovrani.
Nel settore militare-industriale, che a detta di molti analisti anche nella
temperie imperante del liberismo sfrenato difficilmente diverrà un'industria
normale, tale politica finisce per generare una serie di tensioni che hanno
al centro una questione di sovranità legata al controllo dello stato sulle
tecnologie e sui processi produttivi ritenuti di interesse vitale per la
sicurezza ed il prestigio militare ed economico di un paese. Per tentare di
risolvere la contraddizione originata dalla necessità delle aziende di
cercare all'estero gli accordi che garantiscano la diminuzione dei costi di
produzione, la massima libertà d'azione per i capitali e la conquista di
posizioni di forza nei mercati internazionali, da più parti si propone di
sottoporre a controllo nazionale ferreo tutta l'attività di Ricerca e
Sviluppo, affidando magari il compito ad una collaborazione tra apparati
dello stato ed aziende. In sostanza i processi legati alla globalizzazione,
con le caratteristiche proprie del settore civile, sono accettabili per
quanto concerne la produzione ed il marketing ma non per il know-how e la
conoscenza tecnologica, i due fattori che consentono di conservare la
supremazia commerciale garantendo un maggiore valore aggiunto ai prodotti.
Non siamo di fronte a soluzioni nuove, infatti anche nel settore civile le
grandi multinazionali decentrano la produzione ed il marketing ma tengono
ancora legate al paese d'origine del gruppo di comando le funzioni che
presiedono all'innovazione dei prodotti. 


Le richieste dei grandi gruppi industriali

Cosa chiedono le aziende europee ai rispettivi governi ed all'esecutivo
dell'Unione, che dal canto loro, indipendentemente dalla loro coloritura
politica e dalla quota di partecipazione ai capitali sociali, si sono sinora
impegnati per assecondarle in questa fase di transizione? Innanzitutto
continuare, incrementandolo, il sostegno ai programmi di ricerca e sviluppo
ed alla produzione. Tale appoggio si deve concretare su tutti i mercati da
quello nazionale, al costituendo mercato europeo sino ai mercati mondiali.
Per quel che concerne questi ultimi le diplomazie e gli esecutivi dovrebbero
rendersi politicamente disponibili per favorire la conquista di nuove
commesse: offrendo garanzie finanziarie per affrontare un rischio oggi
comunissimo, quello dell'insolvenza, coprendo i costi correlati ai programmi
di compensazione industriale messi a punto per allettare l'acquirente con un
insieme di offerte che, integrando il contratto concernente i sistemi di uso
militare con investimenti e agevolazioni finanziarie e commerciali,
consentano di vincere la concorrenza soprattutto nei paesi extraeuropei. Si
ritiene ovviamente indispensabile anche la revisione in direzione di un
allentamento dei vincoli - qualora esista un regime di controllo sulle
esportazioni di materiali d'armamento e di tecnologie ad uso duale - che
sottopongono l'autorizzazione ai trasferimenti a criteri di verifica
politica sulla destinazione finale dei sistemi, in relazione alla presenza
di situazioni di conflitto, di violazione dei diritti umani e di tensioni
connesse a corse regionali al riarmo. Nella logica della globalizzazione
commerciale del settore tali criteri sono d'ostacolo e vanno sostituiti -
nelle legislazioni nazionali ma soprattutto nei regolamenti comunitari, come
è in parte avvenuto con l'adozione del Codice di Condotta Europeo - con
quelli che invece agevolano la libertà d'azione tramite l'espansione delle
attività aziendali oltre confine, sia con vendite dirette che con le
modalità assai più flessibili e 'sfuggenti' della partecipazione a progetti
transnazionali. È indubbio che una simile evoluzione renderà assai difficile
l'esercizio di un controllo democratico in questo delicato settore mentre si
accresceranno i rischi, già oggi enormi, associati alla corsa agli armamenti.

Per quel che concerne la domanda interna il processo di ristrutturazione e
razionalizzazione in atto porta i grandi gruppi industriali a esercitare
pressioni sul mondo politico per poter disporre di un portafoglio ordini
pianificato, ma soprattutto esente da repentine variazioni e cancellazioni.
La razionalizzazione della politica delle acquisizioni deve avvenire in
concomitanza con la ristrutturazione del bilancio per la funzione difesa
attraverso una forte diminuzione dei costi associati alla gestione del
personale e delle infrastrutture e un costante aumento delle risorse
destinate agli investimenti in armamenti e logistica. L'obiettivo politico è
quello di trasformare il settore a produzione militare e duale nel cardine
della strategia industriale complessiva del paese tramite l'adozione ed il
continuo rifinanziamento di leggi per la ristrutturazione del comparto, per
i progetti aerospaziali, per le tecnologie di punta e per i programmi di
acquisizione legati alla partecipazione a consorzi transnazionali (ad
esempio EFA). Nel corso del convegno ASPEN svoltosi a Taormina nel giugno di
quest'anno il Ministro della Difesa italiano ha dichiarato che nei prossimi
cinque anni occorrerà aumentare le spese per la difesa portandole dall'1,1%
all'1,5% del Prodotto interno lordo con un esborso di circa 8000 miliardi.
Il presidente del consiglio ha confermato questa impostazione dichiarando la
disponibilità dell'esecutivo ad aumentare il bilancio militare nel caso in
cui si concretizzi una iniziativa comune europea nel settore degli armamenti
e della difesa. Il documento di previsione della legge finanziaria già
prevede per il prossimo esercizio una maggiore spesa per l'acquisto di
armamenti.

Questa strategia è comune a tutte le realtà nazionali europee ed è
estremamente probabile il verificarsi del suo trasferimento su scala
continentale nell'eventualità di una definitiva integrazione politica,
industriale e militare. 


Per un'Europa democratica e pacifica

Dagli scenari fortemente contrastati che si è cercato di delineare in
precedenza è puntualmente assente quello che dovrebbe essere il protagonista
ed il giudice principale delle scelte da operarsi in tema di sicurezza: la
popolazione europea. Come è accaduto con l'unificazione monetaria il rischio
estremamente concreto che si palesa è duplice: da una parte la litigiosa
élite europea raggiungerà faticosamente un compromesso tra interessi ed
aspirazioni contrastanti, che tuttavia gravitano su una concezione della
politica estera e di difesa giocata tra sudditanza subdola nei confronti
degli Stati Uniti ed aneliti da 'superpotenza' pronta alle sfide globali. Il
tutto si tramuterà in scelte calate dall'alto che ripercorreranno vecchie
strade i cui esiti appartengono già alla storia drammatica del Novecento.
D'altro canto si farà di tutto per non coinvolgere i cittadini europei in un
dibattito aperto sulle possibili alternative ad una concezione della
sicurezza incentrata esclusivamente sulla forza degli apparati
militari-industriali. Lo 'stato' europeo ha dunque ottime probabilità di
nascere già pericolosamente desueto, incapace di affrontare in termini nuovi
la realtà ineludibile rappresentata dalle aspirazioni alla democrazia ed al
benessere di miliardi di esseri umani, immiseriti da un meccanismo di
ridistribuzione delle risorse mondiali dominato da pochi centri di potere
finanziario, industriale, commerciale e militare. Se davvero il destino
della 'fortezza Europa' sarà quello di trasformarsi in una sorta di
commissariato di polizia con funzioni di ordine pubblico interno ed
internazionale, necessario a mandare avanti gli affari, tutti coloro che
operano per una evoluzione democratica, pacifica e sostenibile della società
avranno perso una occasione storica. È necessario agire con immediatezza per
evitare tale esito, al momento non sembra esistere un'opinione pubblica
largamente favorevole alla costituzione di un esercito europeo che consenta
all'Unione di dotare di 'muscoli' la propria impalcatura finanziaria ed
economica. Stando ad un sondaggio realizzato nel maggio di quest'anno in
Italia oltre il 70% degli interpellati non sarebbe disposto a pagare un
contributo per creare un pilastro di difesa europeo integrato nella NATO.
Questo atteggiamento è perfettamente comprensibile dal momento che il
cittadino ha visto, in nome dei parametri stabiliti per accedere al mercato
unico, decurtare in misura notevole gli investimenti pubblici in settori
quali la protezione sociale, la sanità e la pubblica istruzione. Tuttavia la
jacquerie contro l'ennesimo tributo per procurare i cannoni alla 'Fortezza
Europa' resterebbe fine a se stessa se non si trasformasse in un vasto
movimento politicamente cosciente, capace di avanzare in tutti i paesi
dell'Unione proposte alternative per affrontare i problemi basilari per lo
stesso esercizio del diritto di cittadinanza quali quello della difesa e
delle relazioni internazionali.

Achille Lodovisi