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Bowling for Colombine



CINEMA E VERITA'.
CRISTINA PAPA: BOWLING FOR COLOMBINE

[Ringraziamo Cristina Papa (per contatti: womenews@womenews.net) per aver
scritto questo articolo. Cristina Papa e' tra le animatrici del sito "Il
paese delle donne" (www.womenews.net), un punto di riferimento per tutte e
tutti]

Il 20 aprile 1999, due ragazzi di un normale liceo della profonda provincia
americana entrano nella loro scuola e iniziano a sparare sulla folla di
quelli che, probabilmente, potrebbero essere considerati loro amici/che.
Quando la polizia arriva conta 900 bossoli e alcuni giovani corpi.
Da questo episodio, che ha turbato profondamente l'America, prede spunto il
film di Philip Moore, Bowling for Colombine, premio speciale a Cannes 2002,
che procede, con la curiosita' di un entomologo, all'osservazione
dell'americano maschio bianco possessore di armi.
I volti di giovani e meno giovani americani che raccontano il loro rapporto
con fucili e pistole si alternano al ricordo di agghiaccianti episodi di
cronaca nera, il piu' tremendo forse quello di un bambino di sei anni che ha
ucciso una sua compagna di classe con un colpo di pistola.
In un veloce montaggio di interviste si susseguono, come in un teatrino,
delle maschere che producono in chi guarda  un effetto spesso tragicamente
esilarante: un ragazzo cieco che imbraccia il suo fucile e posa orgoglioso
davanti alla sagoma del tiro al bersaglio su cui ha messo a segno colpi
tutti mortali (impossibile non chiedersi come avra' fatto) e che
accarezzando la canna del fucile dice "quando sono con lui mi sento al
sicuro"; un ragazzo che la polizia della sua citta' ha a lungo considerato
come il pericolo pubblico numero due, purtroppo non il numero uno aggiunge,
e che vezzosamente spiega che in effetti non ha mai prodotto le cose grosse
che avrebbe potuto realizzare seguendo le ricette di un manuale che ha a
casa, si e' infatti limitato a produrre "solo" un ordigno da 20 chili
utilizzando del napalm, ma, specifica con una punta di orgoglio, napalm
fatto in casa, e via via in un crescendo dall'effetto sempre piu' surreale.
"Moore sembra un idiota e fa l'indiano, ed e' questo che gli permette di
fare domande a cui nessuno si sogna piu' di rispondere, come quando chiede a
un poliziotto se a Los Angeles si potrebbe arrestare qualcuno per il grande
inquinamento atmosferico".
Nella sua opera di decostruzione di luoghi comuni Moore ci conduce prima
all'interno delle piu' importanti fabbriche di armi, dove un direttore con
una faccia serena e tranquillizzante cerca di convincere chi ascolta che la
sua azienda e' poco piu'  pericolosa di una fabbrica di marmellate, e poi
sui luoghi del degrado sociale e ambientale, sfatando via via l'idea che la
violenza sia come un virus che si trasmette per contagio guardando film
violenti o vivendo in una famiglia appena appena dissimile da quella di
Barbie.
Ed e' dopo aver fatto giustizia di questi che sono solo banali luoghi comuni
che Moore, famoso in America per il suo decennale lavoro di denuncia delle
speculazioni e licenziamenti dell'ex presidente della General Motors Roger
Smith, che il film dimostra l'originalita' del suo approccio.
Con l'innocenza di un bambino il regista si pone infatti una domanda
cruciale: come mai nel vicino Canada circolano molte piu' armi che negli Usa
ma nello scorso anno i morti per armi da fuoco si contano sulle dita? Forse
nel Canada non ci sono famiglie povere o disgregate? Forse nel Canada i
giovani non hanno ragione di essere incerti del loro futuro o motivi per
essere arrabbiati?
Ed ha senso dire che la violenza e' una caratteristica intrinseca alla
cultura americana, o questa violenza non deve essere invece attribuita al
fatto che tutto negli USA sembra contribuire all'affermarsi della cultura
del nemico, con il suo inevitabile strascico di paura?
E basta a spiegare questa paura il bombardamento, in senso quasi letterale,
che l'american@ medi@ subisce da tutti i media, anche quando, apparentemente
trasmettono spettacoli di intrattenimento?
Si', basta, e' la tesi di Moore, che noi non possiamo non condividere. Per
averne conferma basta guardare in successione un notiziario canadese, dove
la guerra viene presentata come una cosa da scongiurare a tutti i costi, e
uno americano, o ascoltare le esperienze di vita degli abitanti dei due
stati.
Sereni e sorridenti canadesi, uomini e donne, raccontano di come l'aver
subito furti o aggressioni non abbia per loro significato automaticamente
avvertire "l'altro" come minaccia, le porte continuano a rimanere aperte.
Non la poverta', dunque, o la disoccupazione, maggiore in Canada che negli
USA, non il numero di armi, proporzionalmente piu' diffuse in Canada, non la
visione di film violenti che anche i ragazzini canadesi sembrano seguire con
entusiasmo, fa la differenza.
Quel che veramente rende il popolo americano violento e' l'essere totalmente
in balia della propria paura, l'incertezza di un sistema sociale che rende
la vita di ciascun@ un percorso ad ostacoli, un campo minato in cui una
banale malattia, un imprevisto, possono significare la fine di un'esistenza
tranquilla. E non v'e' dubbio che chi guadagna da questa paura e' la potente
industria bellica che questa paura fomenta e rende, se possibile, sempre
piu' irrazionale e bestiale.
Un film complesso e bellissimo, ironico e didattico senza mai essere
didascalico, un documentario multimediale che intreccia diversi generi,
cartoni animati, telegiornali, fiction, spot pubblicitari e testimonianze
orali, per dare vita ad un solo messaggio: "non dar retta a chi ti dice che
l'unico modo per sopravvivere alle presunte minacce del mondo che ti
circonda e' renderlo sempre piu' armato e minaccioso. Se vuoi la pace
costruisci la pace, sociale, ambientale, esistenziale".
Un film da vedere per ricordarci quanto, nonostante i nostri sforzi, sia
facile cadere nella trappola di chi vuole che la paura ci trasformi in
animali senza testa guidati solo dall'istinto di morte.
Michael Moore infatti diserta davvero quando, presentandosi in giro come un
idiota e un ignorante, mostra come in realta' idiota sia chiunque continui a
trovare finte scuse per accettare di vivere nella paura e nell'odio.
Un film che, purtroppo, Bush e i suoi elettori non andranno mai a vedere.