SOTTO IL CAMICE



SOTTO IL CAMICE

Prima è toccato a Kante, la giovane ivoriana denunciata mentre era in un ospedale di Napoli per partorire. Poi è successo a Baccan Ba, un ragazzo senegalese che, dopo aver sofferto per 4 giorni per un mal di denti, si è rivolto ad un ospedale di Brescia e che si è ritrovato in commissariato senza nemmeno essere curato. Poi è venuto il turno di Carlos, un boliviano che si è rivolto ad un ospedale di Pavia per un dolore addominale che poteva essere curato facilmente se non avesse aspettato dieci giorni per paura di essere denunciato: ora invece, a causa di quel ritardo fatale, si trova in rianimazione in fin di vita. L'ultimo episodio riguarda una ragazza nigeriana che si è rivolta ad un ospedale di Conegliano per un malore e che, dopo essere stata trattenuta in osservazione per un paio d'ore, è stata denunciata dal medico di turno, trasportata in commissariato, sottoposta ad un processo per direttissima dopo aver passato una notte in carcere e quindi espulsa dal territorio italiano.

Dopo 18 anni passati nei reparti ospedalieri e negli ambulatori, prima come infermiere e poi come medico, devo confessare che questi episodi, pur suscitando la mia più profonda indignazione, non mi meravigliano affatto. Dopo 18 anni ho imparato che ciò che conta non è il camice, ma la persona che lo veste. Senza mettere in dubbio la loro competenza in medicina, bisogna ammettere che ci sono colleghi che non hanno alcuna competenza in materia di contatto con l'umanità dell'altro. Che cos'è, in fondo, la discriminazione se non una drammatica carenza di comprensione dell'umanità dell'altro?

Sia il collega di Napoli che quello di Conegliano non si offendano se parlo loro con sincerità. Purtroppo devo constatare che in queste occasioni, a dispetto di ogni rapporto medico-paziente che si rispetti, avete percepito l'essere umano che si era rivolto a voi per essere curato solo come un oggetto. Una sorta di anestesia vi ha impedito di percepire l'umanità dell'altro, ma, nel trasformare l'altro in una cosa, avete trasformato voi stessi in una cosa. Come avete chiuso l'orizzonte dell'altro, così avete chiuso il vostro orizzonte. Non avete saputo approfittare di una meravigliosa occasione: quella di contribuire al superamento, da parte dell'altro che si era rivolto a voi, non solo del suo dolore fisico, ma anche della sua sofferenza. Venendo in contatto con voi questa persona poteva forse riacquistare un minimo di fiducia. Finalmente poteva affidarsi alle cure di qualcuno senza correre il rischio di essere rigettato nella sofferenza da cui stava fuggendo. Peccato, cari colleghi. Peccato, perché potevate conoscere dell'altro non solo i suoi organi, ma anche la sua vita. Che cosa pensavate in quel momento? Che cosa sentivate in quel momento? Probabilmente avete vissuto un momento di disumanizzazione. Spero per voi e per le persone che dovrete curare che sia stato solo un momento e non rappresenti la base della vostra vita. Spero per voi e per le persone che dovrete curare che non scopriate un giorno che sotto il vostro camice non c'è più una persona, ma solo un oggetto.

Roma, 15 aprile 2009

Carlo Olivieri
medico umanista