تونس: معركة الحجاب تحجب معركة الإرهاب
11/01/2007
di George al-Rasi *
Il 2007 rappresenta un doppio appuntamento per la Tunisia: la
festa dei 50 anni dall’indipendenza, ed il 20° anniversario della presa del
potere da parte del presidente Zine el-Abidine Ben Ali. In coincidenza con le
celebrazioni di questo evento si sono levati gli appelli di molti esponenti del
“Raggruppamento Costituzionale Democratico” (il partito al potere) che
invitavano candidare il presidente Ben Ali ad un nuovo mandato di 5 anni, al
termine del mandato attuale che scadrà nel 2009. In questo modo Ben Ali
rimarrebbe in carica fino al 2014. Non vi è alcun ostacolo costituzionale che
impedisca la ricandidatura del presidente, dopo che l’emendamento del 2002
eliminò qualsiasi limitazione al numero dei mandati presidenziali. L’unica
condizione che rimane – cioè che il candidato abbia un’età non superiore ai 75
anni – non impensierisce Ben Ali, che nel 2009 avrà 73 anni. L’emendamento
costituzionale, che fu sottoposto a referendum popolare, eliminò l’articolo che
prevedeva un limite massimo di 3 mandati, e ciò permise al presidente di
ottenere il suo quarto mandato nel 2004.
Ora, il portavoce della presidenza e
consigliere personale del presidente, Abdelaziz Ben Dya, ha annunciato alla
Camera dei Consiglieri – la seconda camera, creata nel 2005 – che il presidente
acconsente alla sua ricandidatura.
Ma l’evento del giorno in Tunisia è
rappresentato dalla comparsa del terrorismo armato in una forma che non ha
precedenti negli ultimi 20 anni. Tra il 23 dicembre ed il 4 gennaio scorso sono
avvenuti scontri armati fra le forze dell’ordine ed una formazione terroristica,
che hanno portato all’uccisione di 12 estremisti ed all’arresto di altri 15,
secondo quanto affermano le fonti ufficiali. Gli scontri sono avvenuti presso i
centri abitati di Soliman, 30 Km a sud della capitale, (una cittadina in cui
risiedono dalle 15.000 alle 20.000 persone) e di Hammam Lif, a 20 Km dalla
capitale. Si tratta di centri abitati vicini alla regione turistica di
Hammamet, alla città di Nabeul, ed ai monti Boukornine.
Due sono le versioni
in merito a questi fatti. Secondo la prima, quella dei servizi di sicurezza, i
“criminali” in questione rappresenterebbero un gruppo attivo all’interno di una
banda internazionale di trafficanti di droga, che sarebbe riuscito ad introdurre
illegalmente nel Paese un ingente quantitativo di armi. Secondo altre
informazioni, tuttavia, ci troviamo di fronte ad un movimento islamico jihadista
i cui elementi sono giunti dall’Algeria attraverso le montagne. E’ noto che il
confine tra i due Paesi si estende per più di 1.000 Km, attraversando zone
montuose ed impervie, spesso utilizzate per ogni tipo di contrabbando. Se è vera
la seconda tesi – che sicuramente sembra essere più fondata – siamo di fronte ad
un segno tangibile della connessione dei movimenti terroristici in tutto il
Maghreb, sotto il patrocinio del “Gruppo Salafita per la Predicazione ed il
Combattimento”, di origine algerina, che da due anni ormai è il rappresentante
“unico e legittimo” di al-Qaeda nel Maghreb. Questa organizzazione ha firmato
l’attentato alla sinagoga di Djerba nel 2002, in cui rimasero uccise 22 persone,
fra cui 14 turisti tedeschi. In passato i servizi di sicurezza algerini hanno
fermato numerosi tunisini giunti in Algeria per entrare al servizio del gruppo
salafita, mentre più volte le autorità marocchine avevano denunciato l’esistenza
di solidi legami fra i movimenti jihadisti marocchini ed il gruppo algerino.
Questo fatto ha trovato conferma anche nel sanguinoso attacco lanciato da un
gruppo armato mauritano contro la base militare di Lamghiti, poco prima del
colpo di stato che ha rovesciato il presidente Ould Taya il 3 agosto
2005.
Tutti questi elementi suggeriscono che, dopo l’offensiva lanciata
dall’esercito algerino nei suoi confronti, l’organizzazione centrale in Algeria
ha cambiato la propria strategia, decidendo di espandere le proprie attività a
tutto il Maghreb e nelle regioni del Sahara.
Tuttavia, ciò che è interessante
notare a proposito dell’episodio tunisino è che esso è avvenuto in concomitanza
con il rilascio condizionato di un elevato numero di leader islamici, condannati
nel 1992 con l’accusa di cospirazione ai danni dello Stato. Alla vigilia delle
celebrazioni del 7 gennaio scorso, infatti, è stata promulgata un’amnistia
presidenziale nei confronti di 55 di loro. Fra essi vi erano alcuni esponenti
del movimento “al-Nahda” condannati al carcere a vita, che avevano trascorso 15
anni dietro le sbarre. E’ noto che il loro leader Rashid al-Ghanoushi vive
in esilio volontario a Londra. Nel suo discorso del 7 gennaio, il presidente
aveva accennato alla possibilità di tornare allo spirito del “patto nazionale”
proclamato nel 1988, all’indomani della sua salita al potere, che era stato
accettato dai partiti, dalle organizzazioni di massa, e da tutti i
rappresentanti politici. Il patto era stato personalmente firmato anche da uno
dei leader del movimento “al-Nahda”. Ma la pericolosità di questo movimento
aveva successivamente fatto propendere per la sospensione del patto fino ad
oggi.
E’ in questa atmosfera che è scoppiata la bufera sul velo, quando il
governo tunisino, a partire dalla metà dell’ottobre scorso, ha lanciato una
campagna su vasta scala contro la diffusione del velo islamico, definito come un
“costume intollerante ed estraneo” alla cultura tunisina. In una riunione del
partito di governo, il ministro degli esteri Abdel Wahhab Abdallah ha denunciato
“il pericolo costituito da questo costume intollerante ed estraneo al nostro
Paese, alla nostra cultura, ed alle nostre usanze”, definendolo poi come un
semplice “slogan politico agitato da un piccolo gruppo che si nasconde dietro la
religione per realizzare i propri obiettivi politici”. In precedenza, il
presidente Ben Ali aveva invitato a “distinguere fra questo costume settario ed
importato, e l’abito tunisino tradizionale, simbolo dell’identità nazionale”. Ma
alcuni giornali si sono spinti ancora più in là. Sulla rivista “al-Hadath”, Abd
al-Aziz al-Jaridi ha scritto che il velo è “un costume settario” ed “un simbolo
di estremismo politico”. In un altro articolo della rivista si legge che il velo
è “fonte di sporcizia e di malattie”, e che “perfino dopo la conquista islamica
della Tunisia le donne di Qayrawan andavano nei mercati e mostravano con
fierezza i propri lunghi capelli, simbolo della libertà della donna
musulmana”.
* Giornalista e scrittore libanese, esperto in questioni nordafricane