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La sindrome del governo amico


Il gruppo dirigente della Cgil pare colpito in forma acuta dalla “sindrome
del governo amico”. Solo questo spiega perché nell’ultimo direttivo sia
stata approvata a grande maggioranza la condivisione verso “l’impianto
complessivo” della legge finanziaria.
Non è normale che un sindacato si esprima come se fosse in parlamento. Non
è suo compito né concedere, né rigettare la fiducia ai governi. Una legge
finanziaria, tra l’altro nella fase nella quale entra in parlamento, non è
un accordo sindacale. Non ha bisogno di sigle o adesioni che tra l’altro,
almeno per la Cgil, richiederebbero la ratifica da parte del voto dei
lavoratori. Eppure, nonostante gli inviti alla cautela di importanti
dirigenti dell’organizzazione, la segreteria ha preteso questo voto di
fiducia verso il provvedimento del governo. In questo modo non solo si
espone ancor di più la Cgil nella posizione di sostegno esterno alla
coalizione di centrosinistra, ma si passa sopra il fatto che sull’impianto
della finanziaria, solo qualche mese fa, il sindacato aveva una posizione
ben diversa. Infatti all’epoca del Dpef Cgil, Cisl e Uil avevano sostenuto
che era necessaria una manovra più leggera, magari distribuita su più anni.
L’andamento reale della finanza pubblica, come ci ha ricordato Riccardo
Realfonzo, rafforza questa ipotesi. Ma essa è stata brutalmente sconfitta
dalla linea rigorista del governo. Ora la finanziaria è di quasi 35
miliardi, mentre il sindacato confederale auspicava una cifra molto più
bassa. Perché allora rimuovere che si chiedeva un impianto diverso, e che
non lo si è ottenuto? Perché cancellare, o rendere poco credibile, la
posizione del passato?
La finanziaria compie un’opera di revisione in senso positivo, ma limitato,
delle aliquote fiscali. Però la compensa negativamente con l’aumento della
tassazione locale, con il taglio dei servizi, con l’aumento dei contributi
pensionistici. Quest’ultima misura, sommata alla “devolution” del Tfr sui
cui rischi ha scritto Roberto Pizzuti, fa sì che le risorse del sistema
pensionistico vengano utilizzate solo per far cassa nel bilancio pubblico.
Si può naturalmente sostenere che, tra il dare e avere, l’azione sindacale
abbia condizionato la manovra. Si può giudicare diversamente l’effetto
delle diverse misure, ma appropriarsi dell’impianto della manovra significa
confondere e ribaltare il senso dell’azione sindacale.
Sempre più spesso si sentono dirigenti sindacali che chiedono di farsi
carico della debolezza politica e delle contraddizioni del governo. Non
possiamo esagerare, si fa capire, altrimenti torna Berlusconi. No, non è
così che si contrasta la ripresa della destra. Nei luoghi di lavoro non c’è
un bel clima. Tante persone chiedono ai militanti e ai rappresentanti della
Cgil se per caso non operino con due pesi e due misure. Respingendo tutto
quando governa la destra, accettando troppo quando tocca alla sinistra.
Magari tutti costoro sono negativamente influenzati dalla televisione e dai
giornali, ma prendersela con le cattive capacità di comunicazione del
proprio agire non è una buona cosa. Di solito, anzi, è un segno di
difficoltà e crisi.
Proprio la debolezza del governo di fronte ai poteri forti dell’economia e
alle pressioni del liberismo europeo e internazionale, richiederebbe un
sindacato confederale capace di esercitare una pressione per lo meno eguale
e contraria a quella della Confindustria. La quale, avendo già ottenuto
molto, riesce a diffondere la favola della finanziaria sindacale, che
necessariamente dovrà essere compensata a gennaio da nuovi tagli sulle
pensioni, dal consolidamento della legge 30, da un patto sulla produttività
che devitalizzi il contratto nazionale e, soprattutto, aumenti l’orario di
lavoro.
Che i lavoratori italiani, gli unici veri creditori, siano improvvisamente
tornati sul banco dei debitori, non può essere solo imputato agli equilibri
della politica o al destino cinico e baro. E’ evidente che questa
situazione è dovuta anche all’assenza di un’efficace mobilitazione
sindacale, sostituita dall’idea che la pressione delle interviste e la
manovra istituzionale siano sufficienti a  ottenere il massimo possibile
dal governo amico. In questo modo non solo si snatura il senso dell’azione
sindacale, che da rivendicativa e contrattuale diventa sempre di più
istituzionale e concertativa. Non solo si cancella nei fatti la pratica
della democrazia; e non a caso si firmano sempre più accordi, o memorandum,
senza farli votare da coloro che si vogliono rappresentare. Non solo il
sindacato così si istituzionalizza, diventando sempre più debitore verso la
politica della propria autorevolezza. Ma, in questo modo non si aiuta
nemmeno il governo a reggere il confronto con chi considera bolscevismo la
cauta applicazione del principio einaudiano, secondo il quale il fisco deve
correggere le ineguaglianze più brutali. L’indipendenza del sindacato non
serve solo ai lavoratori.


Giorgio Cremaschi