I gravissimi
disordini che stanno sconvolgendo la Francia, la loro ampiezza, il loro
carattere epidemico, impongono una riflessione che vada al di là delle
facili ricette politiche legate all’immediatezza delle cronache. Io vi
vedo i sintomi di una malattia planetaria. Il fatto che si manifestino con
tanta virulenza nella civilissima Francia, e che abbiano anzi preso le
mosse da quei «cento ettari» su cui più si è pensato nella storia
dell'individuo occidentale, non deve farci perdere di vista il quadro
complessivo in cui essi si iscrivono.
Se infatti si alza lo sguardo
all’orizzonte, si scoprirà che ondate di instabilità si stanno muovendo
simultaneamente in molte altre zone del mondo. Le radici del problema, io
credo, non sono da ricercare tanto - o soltanto - negli errori commessi
dai Paesi sviluppati nella gestione delle politiche migratorie, per meglio
dire delle ondate di immigrati che li stanno investendo, quanto piuttosto
nella vertiginosa crescita della disuguaglianza globale che si è
verificata, e incessantemente è cresciuta, negli ultimi venticinque anni.
L’ultima generazione è cresciuta in questa disuguaglianza crescente e i
leader dei Paesi ricchi si sono illusi che milioni e miliardi si sarebbero
adattati a questa situazione. Ora cominciamo a vedere che la crescita smodata della ricchezza di pochi non è
più accettata da masse crescenti di poveri, ovvero di
coloro che finiscono di sentirsi poveri (anche se con i metri del passato
non lo sarebbero) di fronte all’ostentazione della ricchezza dei ricchi,
che viene percepita come un’offesa. Non è un caso che vengano dati
alle fiamme i simboli della civiltà dei consumi e che, nello stesso tempo,
la lotta politica e sindacale, che in altri tempi erano la norma, siano
state scavalcate dall’esercizio di una violenza che non ha apparentemente
obiettivi se non quello della distruzione.
Diamo un’occhiata a come
è finito il recente summit pan-latino americano: un clamoroso fallimento
dopo la constatazione di contraddizioni insanabili che hanno costretto il
presidente degli Stati Uniti, George Bush, ad abbandonare la riunione
senza avere ottenuto nulla, accompagnato dal conclamato dissenso dei
dirigenti di Brasile, Argentina e Venezuela, cioè dei tre maggiori Paesi
del continente latino americano. In questo caso il contrasto tra ricchi e
poveri si è manifestato non nella forma di guerriglia urbana, ma in una
rottura politica che non ha precedenti nella storia dei rapporti
inter-americani. E stiamo parlando, comunque, sempre del mondo
occidentale, dove in apparenza sembrano essere in vigore gli stessi
principi. Ma se spingiamo lo sguardo ancora un po’ oltre, non facciamo
fatica a vedere un’area dove vivono oltre un miliardo
d’individui che si sentono - così per lo meno a loro sembra - relegati ai
margini del processo storico, respinti, umiliati, offesi. Sto parlando dei
Paesi islamici, ovviamente. Che, per giunta, sono gli eredi di
coloro che per 1500 anni esercitarono un’enorme influenza sul corso degli
eventi mondiali e sulla cultura di tutte le civiltà vicine, inclusa quella
europea.
Ho l’impressione che ciò che sta accadendo in Francia
potrebbe ripetersi e moltiplicarsi in tutta Europa. A ben vedere, sebbene
io mi auguri che ciò non accada, ve ne sono tutte le condizioni. In primo
luogo, evidentemente, questi sono i frutti amari di una grave deficienza
delle politiche di accoglimento migratorio che seguirono la fine del
sistema coloniale. La Francia, che pure aveva accumulato una vasta
esperienza dopo la tragedia della guerra algerina, sembrava aver
realizzato un modello d’integrazione adeguato e funzionante. Adesso
vediamo che le cose non stavano esattamente così e che la condizione
sociale delle masse di immigrati era rimasta molto indietro sia rispetto
alle condizioni dei cittadini di prima classe, sia rispetto alle
aspettative maturate tra i cittadini di seconda classe. Il problema della giustizia e dell'uguaglianza è
infine esploso come una bomba a scoppio ritardato.
Ma, come ho detto all’inizio, questo aspetto del
problema è solo una parte e non la maggiore. Il fatto è che il «libero
flusso dei capitali», che ha aperto e inaugurato l’era globale, non poteva
non produrre alla lunga anche un immenso flusso di uomini e donne. Assai
meno «libero», assai più obbligato, tragico, senza freni. E i nuovi
arrivati sono diversi dai vecchi: conoscono - perché lo vedono in
televisione - tutto ciò che viene reclamizzato come ottenibile, a portata
di mano, ma sperimentano di non poterlo ottenere né adesso né mai. In
questo assai simili a coloro che, nei Paesi ricchi, erano un tempo
cittadini di prima classe e che stanno perdendo la loro cittadinanza tra i
ricchi (o la speranza di ottenerla, prima o dopo). Lo prova il fatto che,
nei disordini, si trovano implicati migliaia di giovani francesi, quelli
di pelle bianca intendo dire.
E vorrei dire qualcosa anche sulla
Russia. Io credo che la Russia non sia minacciata da una guerra con il
mondo islamico. La Russia è da secoli un mondo di mondi, di popoli e di
culture. Eppure i dirigenti politici russi non possono sfuggire, neppure
loro, alla lezione dei tempi. Anche da noi si sta verificando una tensione
crescente, che si manifesta in forme di disprezzo verso altre nazionalità.
Sarebbe un errore sottovalutarle. Anche perché, in Russia come altrove, si
troveranno assai rapidamente, quando non si siano già trovati, speculatori irresponsabili che vorranno usare queste
tensioni a proprio vantaggio.
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