da Fidel a Chavez 2/2




Nell'Incontro mondiale degli intellettuali in difesa dell'umanità e nel
Congresso bolivariano dei popoli, il tema che attraversava entrambe le
manifestazioni di Caracas era l'unificazione bolivariana dell'America del
Sud e del Caribe, a concretizzazione del sogno, appunto, di Bolìvar e di
Martì. E tanta eco e passione ha già suscitato, nei sei anni di rivoluzione
bolivariana, tra le masse del continente e tra le sue avanguardie, questo
messaggio e la sua implicazione antimperialista, rivolta in primo luogo al
nemico principale, gli USA con il loro ALCA (progetto di ricolonizzazione
latinoamericana), ma anche ai succedanei neocolonialisti europei , da
costringere anche i governanti più riluttanti e filo-yankee, per quanti
retropensieri nutrissero, a sottoscrivere un impegno per la "Comunità
Sudamericana degli Stati". E' accaduto a Ayacucho, Perù (luogo della
definitiva disfatta spagnola ad opera del giovanissimo maresciallo Sucre),
nel dicembre scorso. E' sicuramente la forza del messaggio di riscatto
partito e rafforzato da Cuba e rilanciato dal Venezuela ad aver permesso al
fronte progressista (Venezuela, Argentina, Brasile, l'Uruguay con il Frente
Amplio di Tabarè Vasquez e dei gloriosi Tupamaros, il nuovo Panama di
Torrijos) di imporre la sua egemonia sullo schieramento conservatore di
Perù, Bolivia, Ecuador, le Guayane, Colombia, con nel mezzo il Cile
cerchiobottista di Lagos.



Cuba,  non ultima delle vecchie rivoluzioni impossibili, residuato di una
vicenda sconfitta nel Novecento con la caduta dell'URSS, lo sbrindellamento
del blocco est-europeo, la corruzione o disintegrazione degli Stati
progressisti della nazione araba e del Sud del mondo, la murdochizzazione
della Cina, come definiscono Cuba dirigenti della Sinistra, anche
"alternativa" ma all'orecchio della manipolazione informativa occidentale;
Cuba, invece,  prima rivoluzione socialista del Nuovo Mondo, di Nuestra
America, a cui guardano nuovi governi, nuovi movimenti, nuove volontà che
vanno ben al di là dell'"altro mondo possibile" nella Porto Alegre
significativamente sconfitta dalla Destra e dove Chavez, acclamato più di
tutti, ha rimesso all'ordine del giorno, tra chi rischiava di confinarsi nel
correttivo altermondialista, le parole "antimperialismo" e "rivoluzione".
"Un'altra rivoluzione è possibile!" si legge sui muri della città, in
alternativa a un altro slogan, più vecchio e più vago.



Di Cuba Chavez e poi Lula, con tutti i suoi ripiegamenti su altri fronti, e
Nestor Kirchner in Argentina, hanno rotto l'isolamento di mezzo secolo,
oltre al tiepido appoggio dato dal Messico e tradito dall'amerikano Fox,
Marcos o non Marcos (un personaggio fuori da questo processo). Ma il
presidente venezuelano è andato ben oltre le forniture di petrolio,
ricambiate dall'impegno internazionalista di migliaia di medici e insegnanti
cubani operanti nel grandioso processo di alfabetizzazione e
sanitarizzazione del Venezuela, modellato proprio sull'esempio cubano (che
nel mondo in via di sviluppo aveva avuto l'eguale nel solo Iraq
pre-invasione barbarica). L'ALBA, Alternativa Bolivariana per le Americhe,
lanciata da Chavez  in contrapposizione all'ALCA e ai trattati-capestro
bilaterali con cui Washington cerca di rimediare all'incipiente fallimento
dell'accordo di "libero" scambio continentale, ha avuto una prima, esemplare
prefigurazione nell'integrazione tra Venezuela e Cuba,  firmata dai due
governi nel dicembre scorso. Le colonne portanti di questa integrazione, che
impegna i settori commerciali, doganali, sociali, finanziari, tecnologici,
culturali, informativi (la famosa "Telesur", televisione satellitare per
tutta l'America Latina, che Chavez è andato a studiare nel Qatar, da Al
Jazira), sono: un'effettiva partecipazione dello Stato come regolatore e
coordinatore dell'attività economica, un Piano Continentale contro l'
analfabetismo, un piano latinoamericano di trattamento sanitario gratuito,
un piano di borse di studio nelle aree di maggiore sviluppo economico e
sociale, un Fondo di Emergenza Sociale, uno sviluppo integrato di
comunicazioni  e trasporti, sostenibilità dello sviluppo con la protezione
dell'ambiente, integrazione energetica della regione (la "Petroamerica" di
Chavez), un Fondo Latinoamericano     di Investimenti e una Banca di
Sviluppo del Sud da contrapporre all'FMI, il diritto di proprietà
intellettuale per il patrimonio dei paesi latino-americani, la lotta per la
democratizzazione e la trasparenza degli organismi internazionali oggi al
servizio dei monopoli.



Il processo va ben al di là della stretta intesa, fratellanza, tra i due
paesi rivoluzionari. Lo si è potuto constatare in occasione del Congresso
bolivariano dei popoli, tenutosi a Caracas e in altri centri del paese a
dicembre, con la partecipazione di tutti i grandi movimenti di massa
organizzati, oggi in lotta con oligarchie, tirannie ultracapitaliste e
narcodipendenti, mascherate da democrazie (Uribe in Colombia, Toledo in
Perù, Gutierrez in Ecuador), penetrazioni dei monopoli euro-nordamericani e
dell'apparato militare statunitense.C'erano proprio tutti. Tra i tanti, Evo
Morales, leader del Movimento al Socialismo (MAS), secondo alle elezioni
presidenziali in Bolivia, dopo la cacciata di Sanchez de Lozada a furor di
popolo contro le privatizzazioni e svendite di acqua e gas,  e vincitore
delle recenti elezioni amministrative; i Sem Terra, in grande offensiva dopo
la mancata riforma agraria di Lula e la ripresa delle stragi ad opera dei
latifondisti brasiliani, i sindacalisti della CUT di San Paolo, i dirigenti
del movimento indigeno dell'Ecuador, in lotta con l'indio "rinnegato" Lucio
Gutierrez, le organizzazione dei nativi peruviani e quelle antagoniste, in
armi e in lotta civile, del mafiostato Colombia.



Un momento significativamente immancabile, di grande tensione emotiva e
portato a simbolo del modello cubano, in ogni commissione di lavoro e nelle
plenarie, l'impegno per los cincos, i cinque patrioti cubani grottescamente
condannati a pene pesantissime a Miami per aver denunciato ai banditori
della "guerra mondiale al terrorismo" di Washington i complotti terroristici
della mafia cubana e, oggi cubano-venezuelana, di Miami.



Evidentemente un imperialismo nordamericano come quello che, sotto la guida
terroristica e guerrafondaia dei neonazi intorno a Bush e con la crescente
complicità dei rinascenti imperialismi europei, sta proponendosi di portare
la "democrazia" genocida, modello Ashcroft-Rumsfeld-Cheney-Rice-Sharon, ai
cinque continenti, non poteva non reagire con ogni mezzo a un processo di
portata epocale e di immense prospettive come quello innescato da Cuba e dal
Venezuela. Il timore di doversi trovare di fronte a un sommovimento che, da
resistenza incrollabile a Cuba e da Blocco del cambio in Venezuela, promette
di puntare alla creazione di un blocco continentale antagonista in quella
che da Monroe, negli anni venti dell'800, doveva essere "l'America agli
americani" (leggi "statunitensi"), costituisce, insieme alla debacle in
Iraq, la fonte della massima preoccupazione di Washington. Ne sono
espressione i multimiliardari Plan Colombia e Plan Puebla Panama, la
militarizzazione della Colombia e dell'Ecuador, lungo un asse andino che
costituisce oggi il contraltare al fronte progressista sulla costa
atlantica, con le continue incursioni, provocazioni, gli attentati
destabilizzatori  in Venezuela, la licenza concessa ad Alvaro Uribe, grazie
a un nuovo Piano Condor, di violare con imprese terroristiche e sequestri la
sovranità degli Stati vicini, il fallito colpo di Stato contro Chavez  e il
successivo sabotaggio economico, la penetrazioni di forze speciali
statunitensi (contractors, consiglieri, istruttori, commandos) e di basi
militari in tutta l'area amazzonica, le pressioni  del Pentagono, delle
transnazionali USA, del FMI e della Banca Mondiale sul governo brasiliano.



Punta di lancia della controffensiva imperialista è sempre il
narcopresidente Uribe. A lui i padrini statunitensi hanno assegnato il
compito della destabilizzazione terroristica, visto il crollo di ogni
opzione reazionaria sul piano democratico. E' dalla Colombia che veniva il
centinaio di paramilitari che furono scoperti mentre preparavano in
Venezuela un attentato a Chavez;  sono passati dalla Colombia gli esplosivi
provenienti da Miami con cui poliziotti di Caracas, al servizio della vandea
oligarchica, hanno fatto saltare in aria a novembre Danilo Anderson, il
coraggioso magistrato che era riuscito a riallacciare i fili del golpe Cia
dell'aprile 2002;  e sono stati agenti colombiani a sequestrare in piena
Caracas, insieme a militari venezuelani corrotti da Uribe con una taglia di
1,5 milioni di dollari, e a portare in Colombia Rodrigo Granda, responsabile
internazionale delle FARC-EP. Un atto piratesco, tipico del nuovo Piano
Condor, che violava grossolanamente la sovranità venezuelana e il diritto
internazionale, compiuto mentre Uribe ospitava in lussuoso esilio Pedro
Carmona, protagonista del golpe d'aprile, autoproclamatosi dittatore del
Venezuela e responsabile dell'assassinio di 70 civili che manifestavano per
il loro presidente. Il risultato è stato una tensione al calor bianco tra i
due paesi, sulla quale gli USA si sono precipitati a versare benzina, la
rottura dei rapporti commerciali e la sospensione di quelli diplomatici.



Il regime di Uribe è universalmente percepito come il peggiore praticante di
terrorismo di Stato dopo gli USA e Israele. La sua funzione in America
Latina assomiglia sempre di più a quella assegnata a Israele in Medio
oriente. Nel periodo medio, alla Colombia spetta il compito di provocare un
conflitto diretto con il Venezuela. E non ci si lasci ingannare dallo
stop-and-go che nei prossimi mesi caratterizzerà il rapporto tra i due
governi. A Uribe  serve preservare un minimo di apparenze, a Chavez
ritardare il più possibile la resa dei conti, agli USA calcolare il momento
migliore per l'escalation. Nel frattempo, per preparare il terreno,
rivendicando il diritto di intervenire ovunque per ragioni di "guerra al
terrorismo", la dottrina Uribe implicitamente rigetta confini riconosciuti e
si riserva la possibilità di violare frontiere nazionali senza consultare
gli Stati i cui diritti infrange. Non è lungo il passo dal disconoscimento
di confini statali, all'annessione di aree adiacenti per motivi di
"sicurezza", o economiche. Solo nel 1992, la Colombia rasentò la guerra
quando inviò le sue navi da  guerra nelle acque venezuelane. Oggi le mire di
Bogotà e del suo sponsor nordamericano sono apertamente puntate sullo Zulia,
stato venezuelano confinante con la Colombia, massima fonte degli
idrocarburi venezuelani e uno dei due Stati della federazione ancora
governati dall'opposizione a Chavez. Parrebbe un gioco da ragazzi provocare
incidenti di frontiere un po' più massicci di quelli che si sono susseguiti
negli ultimi tre anni, occupare almeno una parte dello Zulia, installarvi un
governo "democratico" di fuorusciti e, di fronte alla legittima reazione di
Caracas, invocare l'intervento dei marines. Non sono lontani nel tempo l'
invasione di Haiti, il rapimento del suo legittimo presidente, Aristide, e l
'occupazione dell'isola da parte di forze d'occupazione statunitensi a
sostegno di un governo di criminali.



Washington ha fornito alla Colombia aiuti militari secondi solo a quelli
regalati a Israele. Obiettivo primario - e quello che potrebbe ritardare l'
aggressione diretta alla repubblica bolivariana - è la liquidazione del
movimento guerrigliero come primo passo per consolidare la presa sulla
regione andina e il bacino superiore dell'Amazzonia. Raggiunto questo
obiettivo, si avrebbe la pista di lancio per occupare il Venezuela o,
almeno, le sue ragioni petrolifere. Di fronte a un esercito venezuelano,
auspicabilmente bonificato con l'immissione di molti quadri meticci e
indios, di appena 40.000 effettivi (ma Chavez sta rafforzando la Riserva e
punta al modello cubano di difesa territoriale universale), stanno forze
armate colombiane triplicate negli ultimi anni  fino a 267.000 effettivi.
Fortemente aumentata risulta anche la forza da combattimento aereo, mentre
sono stati introdottoti mezzi di sofisticata guerra tecnologica per
individuare e colpire la guerriglia.



In questa luce, il rapimento di Rodrigo Granda appare soltanto come la prova
di un ampio progetto di intensificazione delle provocazioni, finalizzato
anche a sondare la lealtà, disciplina, e efficacia del sistema di sicurezza
venezuelano. Contribuendo a rianimare un'opposizione fascistoide asservito
al colonialismo, che le successive avanzate della rivoluzione avevano
ridotto in coma cerebrale, gli USA stanno svolgendo un programma che punta a
constatare fino a che punto si possa spingere il Venezuela a cedere
sovranità e controllo delle proprie frontiere.



Non si conti eccessivamente, in questo scenario, su appoggi esterni al
Venezuela. L'Argentina è lontana e ha i suoi guai, l'Uruguay è ancora
diplomaticamente e militarmente irrilevante. Quanto al Brasile, l'ambiguità
dell'attuale governo si estende anche alla dimensione dei rapporti
interlatinoamericani. Al tempo dei colpi di Stato e di mano dell'oligarchia
venezuelana, il ministro degli esteri di Lula, Celso Amorin, organizzò un
cosiddetto "Gruppo di amici del Venezuela". Chavez si guardò bene dal
ricorrere alla sua mediazione: era composto da ostili dirigenti neoliberisti
ibero-americani, tra i quali Aznar di Spagna, Bush, Fox del Messico, Lagos
del Cile e un Brasile che poneva sullo stesso piano l'opposizione golpista
venezuelana e il legittimo governo di Chavez. Ora Lula ha nuovamente offerto
i suoi servizi per mediare tra Colombia, l'aggressore, e  Venezuela, l'
aggredito.



Non v'è alcun dubbio che Chavez abbia l'appoggio incondizionato della
stragrande maggioranza dei venezuelani. Sa che il popolo è disposto a
combattere per difendere la sua terra, il suo governo, la sua rivoluzione e
il diritto alla propria sovranità. La questione della sovranità venezuelana,
non è soltanto una questione di manovre diplomatiche, ma, come per Cuba e
per l'Iraq, i grandi vincitori sugli USA,  riguarda l'organizzazione delle
masse venezuelane perché diventino un deterrente militare contro ogni
aggressione armata. Altro che i disarmanti miti New Age della non-violenza.



La carta dell'aperta aggressione militare, con tanto di bombardamenti e
sbarchi di marines è certamente all'ordine del giorno, ma per il momento
risulta inapplicabile per l'eccessiva estensione della copertura militare
statunitense in Asia e Medio Oriente e, come ribadisce in ogni occasione
Hugo Chavez con sensi di riconoscenza, soprattutto per la grandiosa capacità
di paralizzare e far retrocedere l'apparato repressivo degli occupanti
dimostrata in un crescendo continuo dai partigiani iracheni.



La qual cosa non esime certo le forze antagoniste e antimperialiste europee
dal potenziare una solidarietà e, prima ancora, un'attenzione, finora
davvero inadeguate, per i protagonisti del grande processo di emancipazione
in atto in Nuestra America, a partire da Cuba e dal Venezuela (dove non
stupisce che i cosiddetti riformisti italiani, capeggiati da D'Alema, non si
peritano di continuare a esprimere il massimo sostegno alla peggiore feccia
fascistoide e golpista, responsabile del saccheggio di un paese che, al
momento dell'arrivo di Chavez, teneva l'80% della sua popolazione sotto il
livello di povertà). Rafforzare la rivolta sudamericana e del Caribe è
compito che si attua eminentemente nello scontro con i collaborazionismi
nel campo di battaglia interno a ogni paese. L'ultracapitalismo della Crisi,
tornato ad essere coalizione imperialista, imbellettato con il termine
"globalizzazione neoliberista", va combattuto, come ci ricordano sempre i
compagni cubani e venezuelani, in prima istanza nel proprio ambito. E'
questa la luce che da qui possiamo aggiungere al sorgere del sole sull'
America Latina.  Non per nulla alla fine di gennaio ci è pervenuto dal
Gruppo di Coordinamento della Solidarietà con la Rivoluzione bolivariana, a
Caracas, un appello diretto alle forze antimperialiste in tutto il mondo e
che, tra vari punti, elencava: incrementare le mobilitazione popolari in
tutte le città del mondo; sostenere la sovranità del Venezuela  e di Cuba e
il rispetto dell'autodeterminazione di questi popoli; denunciare la politica
guerrafondaia del governo USA e del suo fantoccio Uribe; denunciare l'
appoggio degli USA a gruppi terroristi a Miami e in molte parti del mondo,
nonché quello della Colombia ai gruppi paramilitari  e ai golpisti dell'11
aprile 2002; denunciare il persistente uso di rapimenti, torture, pratiche
terroriste  in violazione dei diritti umani, praticati dal governo USA in
Iraq, Afghanistan, Guantanamo e, nel proprio territorio, contro i cinque
patrioti cubani.

L'appello si chiude con la parola d'ordine: "Viva l'unità latinoamericana!"



Resta da sottolineare una sensazione forte per chi ha la fortuna di
trascorrere brani di vita nelle rivoluzioni  dell'America afro-indio-latina
e tra i suoi larghi e combattivi movimenti di massa, le sue organizzazioni
di lotta. Ascoltare le loro interpretazioni del mondo, seguire la loro
informazione di Stato o di movimento nei mezzi di comunicazione, studiarne
le analisi dei conflitti in atto tra ricchi e poveri, e non tra "democrazie
e terrorismo", è come una doccia purificante e vivificatrice su cervello e
sangue. Una disintossicazione dalle menzogne, dalle distorsioni e dagli
stereotipi, non tanto dell'informazione e disinterpretazione capitalista,
che assolve al suo compito di classe con la ferocia e il cinismo noti,
quanto della subalternità, chissà se più pigra, opportunista, o complice,
delle sinistre istituzionali e della loro comunicazione. Quello che da noi
va cercato a fatica nelle nicchie incontaminate dell'autentico antagonismo
alla borghesia, da quelle parti è verità corrente e scontata: quello che qui
è ommissione e nascondimento, là è realtà in piena luce. Così in Ucraina
quella che da noi viene esaltata come "democrazia arancione", là torna ad
assumere il suo vero carattere di colpo di Stato Cia attuato attraverso i
manutengoli serbi di Otpor; i bau-bau dell'umanità, Bin Laden e Al Zarkawi -
reali, o più verisimilmente fantasmi, che siano - riemergono nei  loro veri
panni di autentici agenti della controrivoluzione statunitense, quando
ancora in vita, e la "guerra al terrorismo" in Palestina, in Iraq e nel
mondo, è sterminio imperialista delle resistenze di popoli e classi; la
"democrazia" delle osannate primarie e del voto quinquennale nella morsa
dell'intossicazione mediatica, si rivela per dittatura della borghesia e dei
suoi sottufficiali "riformisti" o "radicali". La viscida, ma astuta
operazione "non-violenza" e del "rifiuto del potere" è smascherata per
quello che è: una subdola strategia per disarmare le vittime e lasciare il
monopolio del potere e della violenza ai carnefici. Trova una risposta
politica, ma, prima ancora, etica e biologica, nell'"Esercito del popolo
sovrano" in Venezuela,  e nella guerra di difesa del popolo tutto a Cuba. Ma
anche nei sei milioni di cittadini iracheni che, ricevuti a suo tempo
addestramenti e armi dal proprio legittimo governo, oggi sono diventati la
prima barriera contro la fine della civiltà, se non della vita, dell'unica
civiltà sopravvissuta, quella dei proletari e dei popoli del "Sud", dovunque
questo "Sud" si collochi.. Parola di Hugo Chavez.  Come mi ha detto
Francisco Gonzales, il generale Pancho del Secondo Frente di Raul Castro
nella Sierra Maestra: "Noi siamo vivi perché siamo armati".

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Pierluigi Ferrara