Dei danni e dei vantaggi del cliché "Germania"



I bruti biondi
Dei danni e dei vantaggi del cliché "Germania"
di Von Michael Naumann
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
(c) DIE ZEIT 10.07.2003 Nr.29

Qui parla l'Europa remota, più o meno annata 1914: "Noi li conosciamo bene,
questi Tedeschi·", dice Stefano Stefani, sottosegretario al Turismo nel
regno berlusconiano, "· questi biondi tutti uguali e supernazionalisti",
questi dieci milioni di turisti "carrieristi", che ogni anno "schiamazzando
si avventano sulle nostre spiagge".
Il Cancelliere delle bionde bestie da spiaggia progetta ora di rimandare le
sue progettate vacanze italiane. Questo sarebbe sbagliato. Si tratta
piuttosto di affrontare con coraggio il pregiudizio che alla fine varrebbe
come fondamento psicologico dell'Unione Europea - addomesticare gli
stereotipati tedeschi, amalgamare la inquietante potenza economica "D"
nella comunità di quelle nazioni che di fatto ci hanno conosciuti come
fracassoni, ma soprattutto muniti di elmo e di armi. Anche i pregiudizi
grotteschi sono un motivo per mettere ragionevolmente ordine nel mondo - e
precisamente allo scopo di tenere lontano dalla politica la loro forza in
grado di aizzare i popoli [l'uno contro l'altro]. Che essi sovente crescano
solamente un millimetro sotto l'impiallacciatura di contratti civilizzatori
stipulati nella comunità di popoli europea, si tratti di barzellette sui
polacchi o di aneddoti inventati di sana pianta sulle capacità guerriere
degli italiani, qui da noi non dovrebbe sorprendere.
Hitler sotto il sombrero
Può darsi che i tedeschi si siano fatti illusioni sulla loro "immagine"
all'estero, dopo anni di riflessioni sulla storia dei propri crimini. Più
ancora, rimane forse la sopravvivenza delle immagini della "Germania-
terrore "come eterno presupposto di un'Europa unificata. In ogni caso
all'estero quell'immagine, nonostante tutti i nostri sforzi per considerare
con sensi di pentimento la nostra storia, è ancora molto viva. Ciò ha anche
i suoi vantaggi: gli studenti tedeschi, che vanno all'estero con i
programmi di scambio e che in Inghilterra devono confrontarsi col cliché
del nazista, apprendono di colpo che cosa significhi essere una minoranza
disprezzata.
La cura propagandistica di immagini del nemico appartiene alla
strumentazione del nazionalismo e del totalitarismo. Essa serve a fini
politici pratici. Che Hitler vivesse ancora, da qualche parte in una
miniera di carbone nello Schwarzwald o sotto un sombrero in Argentina, fino
nei tardi anni cinquanta faceva parte del repertorio dei miti contemporanei
che circolavano in giro per il mondo. La loro funzione politica era chiara:
finché Hitler stava ancora al mondo non ci si poteva fidare dei tedeschi,
come se valesse a giustificare la frase, citata fino alla noia, di B.
Brecht - "Ancora è fertile il grembo, dal quale ciò è strisciato fuori".
La proposta populistica di Silvio Berlusconi, nello spirito che coltiva
l'immagine del nemico, di proporre il deputato europeo Martin Schulz come
secondino, come "Kapò", nel prossimo film italiano sui campi di sterminio,
di fatto era, come disse il premier mediatico, "ironica", se però la sua
ironia richiama l'arte di esporre l'avversario politico ad una generale
derisione - ad una beffa da fiera, che manipola le anime semplici
dell'Europa con il cliché della Germania. Certo, Berlusconi non ha offerto
a Schulz alcun incarico reale di sorvegliante di campo di sterminio, ma
soltanto una parte nel film. Il presidente del Consiglio di Roma ragiona
notoriamente in termini mediatici, come un tempo Ronald Reagan, vale a dire
in termini di sceneggiatura o copione: in questo modo egli ha messo insieme
il suo patrimonio e per il momento svolge una parte principale nel film
demenziale da lui stesso inscenato, "Quo vadis, Europa?". La pellicola
"Germania", che gira non soltanto nell'animo di Berlusconi, ma anche nelle
teste di molti nostri vicini, è un film sinistro. Tratta di genocidio degli
ebrei, del terrore che i soldati tedeschi, la Gestapo e le SS hanno sparso
in Europa fra il 1938 e il 1945. Così, come da centinaia d'anni i Mongoli
devono convivere con l'associazione "orrore - Gengis Khan", anche la storia
del "Terzo Reich" rimarrà attaccata molto, molto a lungo al nome "Germania".
Negli Stati Uniti vi sono più di 300 cattedre sull'Olocausto, il Memorial
dell'Olocausto a Washington fa parte dei musei più popolari della capitale
americana. Si tratta di una lezione sorprendente per il secolo del
totalitarismo. Nessuno può loro rimproverare di proiettare la storia
dell'annientamento di quel popolo sulla Germania del presente, al
contrario. Eppure il museo non può veramente nascondere una cosa: che il
genocidio fu un crimine tedesco. È il marchio della nostra nazione. Ogni
anno la nostra ambasciata a Washington raccoglie centinaia di articoli
sull'Olocausto del New York Times e di altri giornali. In Svezia ogni
scolaro riceve un esauriente libretto sull'Olocausto. Non il singolo
tedesco, ma certamente l'immagine, rielaborata, della Germania nella sua
variante bruna [= nazista ] è dovunque a disposizione. Resta
indimenticabile il seminario di fine settimana di Margaret Thatcher, nel
quale rinomati storici dovevano giustificare la violenta avversione della
signora Primo ministro contro la riunificazione [della Germania], mediante
digressioni sul "carattere tedesco" e i suoi presunti sogni di dominio
mondiale.
Unni, crauti e Gauleiter
I simbolici tentativi di riconciliazione di Helmut Kohl a Verdun (con
Mitterrand) e Bitburg (con Reagan) produssero conseguenze involontarie:
richiamarono il passato nei titoli cubitali della stampa straniera. Che nei
giornali scandalistici inglesi i "Kraut" e gli "Unni" svolgano ancora un
loro bizzarro ruolo come sanguinosi buffoni dei nostri tempi inquieta ancor
oggi ogni ambasciatore tedesco a Londra - inutilmente. Su un foglio inglese
di massa un ministro tedesco delle Finanze può essere esibito come
"Gauleiter".
Nei quotidiani conflitti politici con i partner europei dell'Unione -
secondo le esperienze di Cancellieri tedeschi - svolgono ancor oggi un
ruolo insistente i dissimulati riferimenti al "Terzo Reich". Il dramma
dell'occupazione da parte della Wehrmacht ha definito il dibattito europeo
sulla Polonia non solamente in modo subliminale. Poiché tutte le cose
stanno così, l'industria tedesca si è decisa ai suoi pagamenti per
indennità morale ritardata ai lavoratori forzati. In gioco era il commercio
di esportazione.
Naturalmente l'immagine funesta della Germania è ingiusta - se nello stile
di Berlusconi è riportata sulla Repubblica Federale e sui suoi cittadini
nel 21° secolo. Ma nello stesso tempo è un utile indicatore della vera
situazione dell'Europa. Il futuro non è concluso in una moneta unica, e
neppure in una costituzione che potrebbe regolare la convivenza delle
nazioni con criteri di libertà e giustizia, ma invece nel superamento dei
soliloqui intrisi di pregiudizi dei popoli europei. È questo un processo
che dovrebbe trascinarsi per secoli e che d'altra parte presuppone che il
vincolo unificatore del nostro continente, le nostre esperienze della
guerra, le nostre affinità normative, i nostri tesori letterari e artistici
non siano intesi come la decorazione di un'associazione di nazioni tenute
insieme da razionalizzazioni economiche. L'identità dell'Europa cresce non
grazie alle realistiche definizioni degli interessi, bensì in forza della
nostra tollerante curiosità verso gli Stati vicini, verso le loro
autointerpretazioni storiche, verso la bellezza delle loro realizzazioni
culturali. La commedia nazista dei guitti "Germania", che evidentemente
scorre nella testa di Berlusconi come un ritornello infinito, ha nulla a
che fare con una simile bellezza - proprio niente affatto con quella
dell'Italia; che il Cancelliere in vacanza non dovrebbe lasciarsi sfuggire.
Essa non può essere offuscata da un Berlusconi. Per fare questo gli manca
la statura.

Vedi dopo il testo tedesco di questo articolo una appendice .

Testo originale:

Deutsche
Die blonden Bestien
Vom Schaden und Nutzen des Deutschland-Klischees
Von Michael Naumann
(c) DIE ZEIT 10.07.2003 Nr.29

Hier spricht das uralte Europa, ungefähr Jahrgang 1914: ?Wir kennen sie
gut, diese Deutschen·", sagt Stefano Stefani, Tourismus-Staatssekretär im
Berlusconi-Reich, ?·diese einförmigen, supernationalistischen Blonden",
diese zehn Millionen touristischen ?Streber", die jedes Jahr ?lärmend über
unsere Strände herfallen".
Der Kanzler der blonden Strand-Bestien plant nun, seinen geplanten
Italien-Urlaub zu verlegen. Das wäre falsch. Vielmehr gilt es, dem
Vorurteil tapfer zu begegnen, schließlich zählte es zur psychologischen
Grundlage von Europas Union - den stereotypischen Deutschen zu zähmen, die
unheimliche Wirtschaftsmacht ?D" einzubinden in die Gemeinschaft jener
Nationen, die uns in der Tat als lärmend, vor allem aber behelmt und
bewaffnet kennen gelernt haben. Auch groteske Vorurteile sind ein Grund,
die Welt vernünftig zu ordnen - und zwar in der Absicht, ihre
volksverhetzende Macht aus der Politik fernzuhalten. Dass sie oft nur einen
Millimeter unter dem Furnier von zivilisierenden Vertragswerken der
europäischen Völkergemeinschaft weiterwuchern, ob als Polen-Witze oder als
erfundene Anekdoten über italienische Wehrhaftigkeit, sollte hierzulande
nicht überraschen.
Hitler unter dem Sombrero
Vielleicht haben sich die Deutschen nach jahrelanger Zuwendung zur eigenen
Verbrechensgeschichte Illusionen über ihr ?Image" im Ausland gemacht. Mehr
noch, vielleicht bleibt das Fortleben des Angst-Bildes ?Deutschland" ewige
Voraussetzung eines geeinten Europas. Auf jeden Fall ist jenes Bild trotz
aller Bemühungen, mit der eigenen Geschichte reumütig umzugehen, im Ausland
quicklebendig. Das hat auch seine Vorteile: Deutsche Austauschschüler, die
sich in England dem Nazi-Klischee stellen müssen, erfahren plötzlich, was
es bedeutet, eine verachtete Minderheit zu sein.
Die propagandistische Pflege von Feindbildern gehört zu den Instrumenten
von Nationalismus und Totalitarismus. Sie dient praktischen politischen
Zwecken. Dass Hitler noch lebe, irgendwo in einer Köhlerhütte im
Schwarzwald oder unter einem Sombrero in Argentinien, zählte bis in die
späten fünfziger Jahre zum Repertoire weltweit zirkulierender
zeitgeschichtlicher Mythen. Ihre politische Funktion war klar: Solange
Hitler noch existiere, sei den Deutschen nicht zu trauen, als gälte es, den
zu Tode zitierten Satz Brechts zu rechtfertigen - ?der Schoß ist fruchtbar
noch, aus dem das kroch".
Silvio Berlusconis populistischer Vorschlag im Geiste der Feindbild-Pflege,
den deutschen Europa-Abgeordneten Martin Schulz als Aufseher, als ?Kapo",
im nächsten italienischen KZ-Film zu besetzen, war in der Tat, wie der
Medienpremier sagte, ?ironisch", wenn denn seine Ironie die Kunst
bezeichnet, den politischen Gegner allgemeinem Spott auszusetzen - einem
Jahrmarkts-Spott, der mit dem Deutschlandklischee von Europas simplen
Seelen hantiert. Berlusconi hatte Schulz ja keine reale KZ-Aufsicht
angeboten, sondern nur eine Filmrolle. Der römische Ministerpräsident denkt
wie einst Ronald Reagan bekanntlich medial, das heißt in Drehbüchern: So
hat er sein Vermögen gemacht, und im Augenblick spielt er eine Hauptrolle
in dem von ihm selbst inszenierten Radau-Film ?Quo vadis, Europa?".
Der Deutschland-Streifen, der nicht nur in Berlusconis Gemüt, sondern in
den Köpfen vieler unserer Nachbarn läuft, ist ein finsterer. Er handelt vom
Völkermord an den Juden, vom Grauen, das deutsche Soldaten, das die Gestapo
und SS zwischen 1938 und 1945 über Europa gebracht haben. So, wie seit
Hunderten von Jahren die Mongolen mit der Schreckens-Assoziation ?Dschingis
Khan" leben müssen, so wird die Geschichte des ?Dritten Reichs" noch sehr,
sehr lange am Namen ?Deutschland" haften.
In den Vereinigten Staaten gibt es mehr als 300 Holocaust-Lehrstühle, das
Holocaust Memorial Museum in Washington zählt zu den populärsten Museen der
amerikanischen Hauptstadt. Es ist eine überzeugende Lehrstätte zum
Jahrhundert des Totalitarismus. Niemand kann ihm vorwerfen, die Geschichte
des Völkermords auf Deutschlands Gegenwart zu projizieren, im Gegenteil.
Doch eines kann das Museum wirklich nicht verschweigen: dass der Genozid
ein deutsches Verbrechen war. Es ist das Stigma unserer Nation. Jährlich
heftet unsere Botschaft in Washington Hunderte von Holocaust-Artikeln der
New York Times und anderer Zeitungen ab. In Schweden erhält jedes Schulkind
eine ausführliche Holocaust-Broschüre. Nicht der einzelne Deutsche, wohl
aber das Deutschlandbild in seiner braunen Variante steht allenthalben
abrufbereit zur Verfügung. Unvergessen ist das Wochenend-Seminar Margaret
Thatchers, in dem namhafte Historiker die heftige Abneigung der
Premierministerin gegen die Wiedervereinigung mit Exkursen über den
?deutschen Charakter" und seine angeblichen Weltherrschaftsträume
rechtfertigen sollten.
Hunnen, Krauts und Gauleiter
Helmut Kohls symbolische Versöhnungsversuche in Verdun (mit Mitterrand) und
Bitburg (mit Reagan) zeitigten unbeabsichtigte Folgen: Sie riefen die
Vergangenheit in die Schlagzeilen der ausländischen Presse zurück. Dass die
?Krauts" und ?Huns" in den Boulevardzeitungen Englands weiterhin eine
bizarre Rolle als blutige Narren der Gegenwart spielen, erregt noch jeden
deutschen Botschafter in London - vergebens. Ein deutscher Finanzminister
kann in einem englischen Massenblatt durchaus als ?Gauleiter" vorgeführt
werden.
Bei politischen Alltagskonflikten mit den europäischen Bündnispartnern
spielen - so die Erfahrungen deutscher Kanzler - verdeckte Hinweise auf das
?Dritte Reich" immer noch eine nötigende Rolle. Das Trauma der
Wehrmacht-Besatzung definierte nicht nur unterschwellig Polens
Europa-Debatte. Weil das alles so ist, hat sich Deutschlands Industrie zu
ihren moralisch verspäteten Zahlungen an die Zwangsarbeiter entschlossen.
Das Exportgeschäft stand auf dem Spiel.
Natürlich ist das fatale Germaniabild ungerecht - wird es im Stile
Berlusconis auf die Bundesrepublik und ihre Bürger im 21. Jahrhundert
übertragen. Zugleich aber ist es ein brauchbarer Indikator des wahren
Zustands von Europa. Seine bessere Zukunft ist nicht in einer gemeinsamen
Währung beschlossen, noch nicht einmal in einer Verfassung, die das
Zusammenleben der Nationen nach Maßstäben von Freiheit und Gerechtigkeit
regeln könnte, sondern in der Überwindung von vorurteilsbelasteten
Selbstgesprächen der europäischen Völker. Das wäre ein Prozess, der sich
über Jahrzehnte hinziehen müsste. Er setzt allerdings voraus, dass das
einigende Band unseres Kontinents, dass unsere Kriegs-Erfahrungen, unsere
normativen Gemeinsamkeiten, unsere literarischen und künstlerischen Schätze
nicht als Dekoration eines ökonomisierten Völkerbundes verstanden werden.
Europas Identität gedeiht nicht dank nüchterner Interessensdefinitionen,
sondern kraft unserer toleranten Neugier auf die Nachbarstaaten, auf ihre
historischen Selbstinterpretationen, auf die Schönheit ihrer kulturellen
Leistungen. Die braune Schmierenkomödie ?Deutschland", die offenkundig als
Endlosschleife in Berlusconis Kopf abläuft, hat nichts mit solcher
Schönheit zu tun - schon gar nicht mit derjenigen Italiens. Die sollte sich
der Bundeskanzler im Urlaub nicht entgehen lassen. Von einem Berlusconi
kann sie nicht verschattet werden. Dazu fehlt ihm die Größe.
(c) DIE ZEIT 10.07.2003 Nr.29


Otto motivi per Rimini, VI
Perché senza l'Italia il Padrino sarebbe soltanto uno zietto di Neukölln
[modo di dire ted. per: un tipo qualsiasi, inoffensivo ]
Sueddeutsche Zeitung, 8.7.2003 (
http://www.sueddeutsche.de/ausland/artikel/213/14199/ )
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)

È una storia di successo, che ne cerca una pari suo: Cristo è arrivato
soltanto fino a Eboli, ma la Mafia nel corso di 150 anni è riuscita, con le
regolari sovvenzioni dello Stato, a crescere da rozza società di reciproca
protezione a holding del tutto globalizzata. In nessun altro luogo il
"secolo socialdemocratico" (R. Dahrendorf) ha sviluppato un simile
splendore.
In Italia, così là si pensa, non si raccoglie una sola oliva, non si
costruisce alcuna autostrada né si smaltisce un chilo di cianuro [ nel
senso di scorie pericolose ] senza che l'Onorata Società se ne occupi, che
il settore statale nel modo migliore si metta d'accordo con gli impegni
privati. Chi se ne lagna è murato nel pilone di un ponte.
A chi invece si adegua e acconsente, il Padrino fa un'offerta alla quale
non si può dire di no: direttore del Banco di Santo Spirito, presidente del
Consiglio o dell'Unione Europea, forse perfino Papa - chissà. Imparare
dalla Mafia vuol dire quindi imparare a governare.
wink

Testo originale:

Acht Gründe für Rimini, VI
Weil ohne Italien der Pate nur ein Nennonkel aus Neukölln wäre
http://www.sueddeutsche.de/ausland/artikel/213/14199/
Es ist eine Erfolgsgeschichte, die ihresgleichen sucht: Christus kam nur
bis Eboli, aber der Mafia ist es im Verlauf von 150 Jahren gelungen, mit
regelmäßigen staatlichen Subventionen von einer bäurischen Wach- und
Schutzgesellschaft zum vollglobalisierten Konzern aufzusteigen. Nirgendwo
sonst hat das ?sozialdemokratische Jahrhundert" (R. Dahrendorf) ähnlichen
Glanz entfaltet.
In Italien wird, denkt man sich hier so, keine Olive geerntet, keine
Autobahn gebaut und kein Zyanid entsorgt, ohne dass die ehrenwerte
Gesellschaft dafür sorgt, dass der staatliche Sektor aufs Schönste mit
privaten Lastern harmoniert. Wer sich beschwert, wird in einen
Brückenpfeiler eingemauert.
Wer aber mit anpackt, dem macht der Pate ein Angebot, zu dem er nicht Nein
sagen kann: Direktor bei der Banco di Santo Spirito, Minister- oder
EU-Präsident, vielleicht sogar Papst - wer weiß. Von der Mafia lernen,
hieße demnach Regieren lernen. wink