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Dei danni e dei vantaggi del cliché "Germania"
- Subject: Dei danni e dei vantaggi del cliché "Germania"
- From: "José F. Padova" <jospadov at tin.it>
- Date: Mon, 14 Jul 2003 11:10:03 +0200
I bruti biondi Dei danni e dei vantaggi del cliché "Germania" di Von Michael Naumann (traduzione dal tedesco di José F. Padova) (c) DIE ZEIT 10.07.2003 Nr.29 Qui parla l'Europa remota, più o meno annata 1914: "Noi li conosciamo bene, questi Tedeschi·", dice Stefano Stefani, sottosegretario al Turismo nel regno berlusconiano, "· questi biondi tutti uguali e supernazionalisti", questi dieci milioni di turisti "carrieristi", che ogni anno "schiamazzando si avventano sulle nostre spiagge". Il Cancelliere delle bionde bestie da spiaggia progetta ora di rimandare le sue progettate vacanze italiane. Questo sarebbe sbagliato. Si tratta piuttosto di affrontare con coraggio il pregiudizio che alla fine varrebbe come fondamento psicologico dell'Unione Europea - addomesticare gli stereotipati tedeschi, amalgamare la inquietante potenza economica "D" nella comunità di quelle nazioni che di fatto ci hanno conosciuti come fracassoni, ma soprattutto muniti di elmo e di armi. Anche i pregiudizi grotteschi sono un motivo per mettere ragionevolmente ordine nel mondo - e precisamente allo scopo di tenere lontano dalla politica la loro forza in grado di aizzare i popoli [l'uno contro l'altro]. Che essi sovente crescano solamente un millimetro sotto l'impiallacciatura di contratti civilizzatori stipulati nella comunità di popoli europea, si tratti di barzellette sui polacchi o di aneddoti inventati di sana pianta sulle capacità guerriere degli italiani, qui da noi non dovrebbe sorprendere. Hitler sotto il sombrero Può darsi che i tedeschi si siano fatti illusioni sulla loro "immagine" all'estero, dopo anni di riflessioni sulla storia dei propri crimini. Più ancora, rimane forse la sopravvivenza delle immagini della "Germania- terrore "come eterno presupposto di un'Europa unificata. In ogni caso all'estero quell'immagine, nonostante tutti i nostri sforzi per considerare con sensi di pentimento la nostra storia, è ancora molto viva. Ciò ha anche i suoi vantaggi: gli studenti tedeschi, che vanno all'estero con i programmi di scambio e che in Inghilterra devono confrontarsi col cliché del nazista, apprendono di colpo che cosa significhi essere una minoranza disprezzata. La cura propagandistica di immagini del nemico appartiene alla strumentazione del nazionalismo e del totalitarismo. Essa serve a fini politici pratici. Che Hitler vivesse ancora, da qualche parte in una miniera di carbone nello Schwarzwald o sotto un sombrero in Argentina, fino nei tardi anni cinquanta faceva parte del repertorio dei miti contemporanei che circolavano in giro per il mondo. La loro funzione politica era chiara: finché Hitler stava ancora al mondo non ci si poteva fidare dei tedeschi, come se valesse a giustificare la frase, citata fino alla noia, di B. Brecht - "Ancora è fertile il grembo, dal quale ciò è strisciato fuori". La proposta populistica di Silvio Berlusconi, nello spirito che coltiva l'immagine del nemico, di proporre il deputato europeo Martin Schulz come secondino, come "Kapò", nel prossimo film italiano sui campi di sterminio, di fatto era, come disse il premier mediatico, "ironica", se però la sua ironia richiama l'arte di esporre l'avversario politico ad una generale derisione - ad una beffa da fiera, che manipola le anime semplici dell'Europa con il cliché della Germania. Certo, Berlusconi non ha offerto a Schulz alcun incarico reale di sorvegliante di campo di sterminio, ma soltanto una parte nel film. Il presidente del Consiglio di Roma ragiona notoriamente in termini mediatici, come un tempo Ronald Reagan, vale a dire in termini di sceneggiatura o copione: in questo modo egli ha messo insieme il suo patrimonio e per il momento svolge una parte principale nel film demenziale da lui stesso inscenato, "Quo vadis, Europa?". La pellicola "Germania", che gira non soltanto nell'animo di Berlusconi, ma anche nelle teste di molti nostri vicini, è un film sinistro. Tratta di genocidio degli ebrei, del terrore che i soldati tedeschi, la Gestapo e le SS hanno sparso in Europa fra il 1938 e il 1945. Così, come da centinaia d'anni i Mongoli devono convivere con l'associazione "orrore - Gengis Khan", anche la storia del "Terzo Reich" rimarrà attaccata molto, molto a lungo al nome "Germania". Negli Stati Uniti vi sono più di 300 cattedre sull'Olocausto, il Memorial dell'Olocausto a Washington fa parte dei musei più popolari della capitale americana. Si tratta di una lezione sorprendente per il secolo del totalitarismo. Nessuno può loro rimproverare di proiettare la storia dell'annientamento di quel popolo sulla Germania del presente, al contrario. Eppure il museo non può veramente nascondere una cosa: che il genocidio fu un crimine tedesco. È il marchio della nostra nazione. Ogni anno la nostra ambasciata a Washington raccoglie centinaia di articoli sull'Olocausto del New York Times e di altri giornali. In Svezia ogni scolaro riceve un esauriente libretto sull'Olocausto. Non il singolo tedesco, ma certamente l'immagine, rielaborata, della Germania nella sua variante bruna [= nazista ] è dovunque a disposizione. Resta indimenticabile il seminario di fine settimana di Margaret Thatcher, nel quale rinomati storici dovevano giustificare la violenta avversione della signora Primo ministro contro la riunificazione [della Germania], mediante digressioni sul "carattere tedesco" e i suoi presunti sogni di dominio mondiale. Unni, crauti e Gauleiter I simbolici tentativi di riconciliazione di Helmut Kohl a Verdun (con Mitterrand) e Bitburg (con Reagan) produssero conseguenze involontarie: richiamarono il passato nei titoli cubitali della stampa straniera. Che nei giornali scandalistici inglesi i "Kraut" e gli "Unni" svolgano ancora un loro bizzarro ruolo come sanguinosi buffoni dei nostri tempi inquieta ancor oggi ogni ambasciatore tedesco a Londra - inutilmente. Su un foglio inglese di massa un ministro tedesco delle Finanze può essere esibito come "Gauleiter". Nei quotidiani conflitti politici con i partner europei dell'Unione - secondo le esperienze di Cancellieri tedeschi - svolgono ancor oggi un ruolo insistente i dissimulati riferimenti al "Terzo Reich". Il dramma dell'occupazione da parte della Wehrmacht ha definito il dibattito europeo sulla Polonia non solamente in modo subliminale. Poiché tutte le cose stanno così, l'industria tedesca si è decisa ai suoi pagamenti per indennità morale ritardata ai lavoratori forzati. In gioco era il commercio di esportazione. Naturalmente l'immagine funesta della Germania è ingiusta - se nello stile di Berlusconi è riportata sulla Repubblica Federale e sui suoi cittadini nel 21° secolo. Ma nello stesso tempo è un utile indicatore della vera situazione dell'Europa. Il futuro non è concluso in una moneta unica, e neppure in una costituzione che potrebbe regolare la convivenza delle nazioni con criteri di libertà e giustizia, ma invece nel superamento dei soliloqui intrisi di pregiudizi dei popoli europei. È questo un processo che dovrebbe trascinarsi per secoli e che d'altra parte presuppone che il vincolo unificatore del nostro continente, le nostre esperienze della guerra, le nostre affinità normative, i nostri tesori letterari e artistici non siano intesi come la decorazione di un'associazione di nazioni tenute insieme da razionalizzazioni economiche. L'identità dell'Europa cresce non grazie alle realistiche definizioni degli interessi, bensì in forza della nostra tollerante curiosità verso gli Stati vicini, verso le loro autointerpretazioni storiche, verso la bellezza delle loro realizzazioni culturali. La commedia nazista dei guitti "Germania", che evidentemente scorre nella testa di Berlusconi come un ritornello infinito, ha nulla a che fare con una simile bellezza - proprio niente affatto con quella dell'Italia; che il Cancelliere in vacanza non dovrebbe lasciarsi sfuggire. Essa non può essere offuscata da un Berlusconi. Per fare questo gli manca la statura. Vedi dopo il testo tedesco di questo articolo una appendice . Testo originale: Deutsche Die blonden Bestien Vom Schaden und Nutzen des Deutschland-Klischees Von Michael Naumann (c) DIE ZEIT 10.07.2003 Nr.29 Hier spricht das uralte Europa, ungefähr Jahrgang 1914: ?Wir kennen sie gut, diese Deutschen·", sagt Stefano Stefani, Tourismus-Staatssekretär im Berlusconi-Reich, ?·diese einförmigen, supernationalistischen Blonden", diese zehn Millionen touristischen ?Streber", die jedes Jahr ?lärmend über unsere Strände herfallen". Der Kanzler der blonden Strand-Bestien plant nun, seinen geplanten Italien-Urlaub zu verlegen. Das wäre falsch. Vielmehr gilt es, dem Vorurteil tapfer zu begegnen, schließlich zählte es zur psychologischen Grundlage von Europas Union - den stereotypischen Deutschen zu zähmen, die unheimliche Wirtschaftsmacht ?D" einzubinden in die Gemeinschaft jener Nationen, die uns in der Tat als lärmend, vor allem aber behelmt und bewaffnet kennen gelernt haben. Auch groteske Vorurteile sind ein Grund, die Welt vernünftig zu ordnen - und zwar in der Absicht, ihre volksverhetzende Macht aus der Politik fernzuhalten. Dass sie oft nur einen Millimeter unter dem Furnier von zivilisierenden Vertragswerken der europäischen Völkergemeinschaft weiterwuchern, ob als Polen-Witze oder als erfundene Anekdoten über italienische Wehrhaftigkeit, sollte hierzulande nicht überraschen. Hitler unter dem Sombrero Vielleicht haben sich die Deutschen nach jahrelanger Zuwendung zur eigenen Verbrechensgeschichte Illusionen über ihr ?Image" im Ausland gemacht. Mehr noch, vielleicht bleibt das Fortleben des Angst-Bildes ?Deutschland" ewige Voraussetzung eines geeinten Europas. Auf jeden Fall ist jenes Bild trotz aller Bemühungen, mit der eigenen Geschichte reumütig umzugehen, im Ausland quicklebendig. Das hat auch seine Vorteile: Deutsche Austauschschüler, die sich in England dem Nazi-Klischee stellen müssen, erfahren plötzlich, was es bedeutet, eine verachtete Minderheit zu sein. Die propagandistische Pflege von Feindbildern gehört zu den Instrumenten von Nationalismus und Totalitarismus. Sie dient praktischen politischen Zwecken. Dass Hitler noch lebe, irgendwo in einer Köhlerhütte im Schwarzwald oder unter einem Sombrero in Argentinien, zählte bis in die späten fünfziger Jahre zum Repertoire weltweit zirkulierender zeitgeschichtlicher Mythen. Ihre politische Funktion war klar: Solange Hitler noch existiere, sei den Deutschen nicht zu trauen, als gälte es, den zu Tode zitierten Satz Brechts zu rechtfertigen - ?der Schoß ist fruchtbar noch, aus dem das kroch". Silvio Berlusconis populistischer Vorschlag im Geiste der Feindbild-Pflege, den deutschen Europa-Abgeordneten Martin Schulz als Aufseher, als ?Kapo", im nächsten italienischen KZ-Film zu besetzen, war in der Tat, wie der Medienpremier sagte, ?ironisch", wenn denn seine Ironie die Kunst bezeichnet, den politischen Gegner allgemeinem Spott auszusetzen - einem Jahrmarkts-Spott, der mit dem Deutschlandklischee von Europas simplen Seelen hantiert. Berlusconi hatte Schulz ja keine reale KZ-Aufsicht angeboten, sondern nur eine Filmrolle. Der römische Ministerpräsident denkt wie einst Ronald Reagan bekanntlich medial, das heißt in Drehbüchern: So hat er sein Vermögen gemacht, und im Augenblick spielt er eine Hauptrolle in dem von ihm selbst inszenierten Radau-Film ?Quo vadis, Europa?". Der Deutschland-Streifen, der nicht nur in Berlusconis Gemüt, sondern in den Köpfen vieler unserer Nachbarn läuft, ist ein finsterer. Er handelt vom Völkermord an den Juden, vom Grauen, das deutsche Soldaten, das die Gestapo und SS zwischen 1938 und 1945 über Europa gebracht haben. So, wie seit Hunderten von Jahren die Mongolen mit der Schreckens-Assoziation ?Dschingis Khan" leben müssen, so wird die Geschichte des ?Dritten Reichs" noch sehr, sehr lange am Namen ?Deutschland" haften. In den Vereinigten Staaten gibt es mehr als 300 Holocaust-Lehrstühle, das Holocaust Memorial Museum in Washington zählt zu den populärsten Museen der amerikanischen Hauptstadt. Es ist eine überzeugende Lehrstätte zum Jahrhundert des Totalitarismus. Niemand kann ihm vorwerfen, die Geschichte des Völkermords auf Deutschlands Gegenwart zu projizieren, im Gegenteil. Doch eines kann das Museum wirklich nicht verschweigen: dass der Genozid ein deutsches Verbrechen war. Es ist das Stigma unserer Nation. Jährlich heftet unsere Botschaft in Washington Hunderte von Holocaust-Artikeln der New York Times und anderer Zeitungen ab. In Schweden erhält jedes Schulkind eine ausführliche Holocaust-Broschüre. Nicht der einzelne Deutsche, wohl aber das Deutschlandbild in seiner braunen Variante steht allenthalben abrufbereit zur Verfügung. Unvergessen ist das Wochenend-Seminar Margaret Thatchers, in dem namhafte Historiker die heftige Abneigung der Premierministerin gegen die Wiedervereinigung mit Exkursen über den ?deutschen Charakter" und seine angeblichen Weltherrschaftsträume rechtfertigen sollten. Hunnen, Krauts und Gauleiter Helmut Kohls symbolische Versöhnungsversuche in Verdun (mit Mitterrand) und Bitburg (mit Reagan) zeitigten unbeabsichtigte Folgen: Sie riefen die Vergangenheit in die Schlagzeilen der ausländischen Presse zurück. Dass die ?Krauts" und ?Huns" in den Boulevardzeitungen Englands weiterhin eine bizarre Rolle als blutige Narren der Gegenwart spielen, erregt noch jeden deutschen Botschafter in London - vergebens. Ein deutscher Finanzminister kann in einem englischen Massenblatt durchaus als ?Gauleiter" vorgeführt werden. Bei politischen Alltagskonflikten mit den europäischen Bündnispartnern spielen - so die Erfahrungen deutscher Kanzler - verdeckte Hinweise auf das ?Dritte Reich" immer noch eine nötigende Rolle. Das Trauma der Wehrmacht-Besatzung definierte nicht nur unterschwellig Polens Europa-Debatte. Weil das alles so ist, hat sich Deutschlands Industrie zu ihren moralisch verspäteten Zahlungen an die Zwangsarbeiter entschlossen. Das Exportgeschäft stand auf dem Spiel. Natürlich ist das fatale Germaniabild ungerecht - wird es im Stile Berlusconis auf die Bundesrepublik und ihre Bürger im 21. Jahrhundert übertragen. Zugleich aber ist es ein brauchbarer Indikator des wahren Zustands von Europa. Seine bessere Zukunft ist nicht in einer gemeinsamen Währung beschlossen, noch nicht einmal in einer Verfassung, die das Zusammenleben der Nationen nach Maßstäben von Freiheit und Gerechtigkeit regeln könnte, sondern in der Überwindung von vorurteilsbelasteten Selbstgesprächen der europäischen Völker. Das wäre ein Prozess, der sich über Jahrzehnte hinziehen müsste. Er setzt allerdings voraus, dass das einigende Band unseres Kontinents, dass unsere Kriegs-Erfahrungen, unsere normativen Gemeinsamkeiten, unsere literarischen und künstlerischen Schätze nicht als Dekoration eines ökonomisierten Völkerbundes verstanden werden. Europas Identität gedeiht nicht dank nüchterner Interessensdefinitionen, sondern kraft unserer toleranten Neugier auf die Nachbarstaaten, auf ihre historischen Selbstinterpretationen, auf die Schönheit ihrer kulturellen Leistungen. Die braune Schmierenkomödie ?Deutschland", die offenkundig als Endlosschleife in Berlusconis Kopf abläuft, hat nichts mit solcher Schönheit zu tun - schon gar nicht mit derjenigen Italiens. Die sollte sich der Bundeskanzler im Urlaub nicht entgehen lassen. Von einem Berlusconi kann sie nicht verschattet werden. Dazu fehlt ihm die Größe. (c) DIE ZEIT 10.07.2003 Nr.29 Otto motivi per Rimini, VI Perché senza l'Italia il Padrino sarebbe soltanto uno zietto di Neukölln [modo di dire ted. per: un tipo qualsiasi, inoffensivo ] Sueddeutsche Zeitung, 8.7.2003 ( http://www.sueddeutsche.de/ausland/artikel/213/14199/ ) (traduzione dal tedesco di José F. Padova) È una storia di successo, che ne cerca una pari suo: Cristo è arrivato soltanto fino a Eboli, ma la Mafia nel corso di 150 anni è riuscita, con le regolari sovvenzioni dello Stato, a crescere da rozza società di reciproca protezione a holding del tutto globalizzata. In nessun altro luogo il "secolo socialdemocratico" (R. Dahrendorf) ha sviluppato un simile splendore. In Italia, così là si pensa, non si raccoglie una sola oliva, non si costruisce alcuna autostrada né si smaltisce un chilo di cianuro [ nel senso di scorie pericolose ] senza che l'Onorata Società se ne occupi, che il settore statale nel modo migliore si metta d'accordo con gli impegni privati. Chi se ne lagna è murato nel pilone di un ponte. A chi invece si adegua e acconsente, il Padrino fa un'offerta alla quale non si può dire di no: direttore del Banco di Santo Spirito, presidente del Consiglio o dell'Unione Europea, forse perfino Papa - chissà. Imparare dalla Mafia vuol dire quindi imparare a governare. wink Testo originale: Acht Gründe für Rimini, VI Weil ohne Italien der Pate nur ein Nennonkel aus Neukölln wäre http://www.sueddeutsche.de/ausland/artikel/213/14199/ Es ist eine Erfolgsgeschichte, die ihresgleichen sucht: Christus kam nur bis Eboli, aber der Mafia ist es im Verlauf von 150 Jahren gelungen, mit regelmäßigen staatlichen Subventionen von einer bäurischen Wach- und Schutzgesellschaft zum vollglobalisierten Konzern aufzusteigen. Nirgendwo sonst hat das ?sozialdemokratische Jahrhundert" (R. Dahrendorf) ähnlichen Glanz entfaltet. In Italien wird, denkt man sich hier so, keine Olive geerntet, keine Autobahn gebaut und kein Zyanid entsorgt, ohne dass die ehrenwerte Gesellschaft dafür sorgt, dass der staatliche Sektor aufs Schönste mit privaten Lastern harmoniert. Wer sich beschwert, wird in einen Brückenpfeiler eingemauert. Wer aber mit anpackt, dem macht der Pate ein Angebot, zu dem er nicht Nein sagen kann: Direktor bei der Banco di Santo Spirito, Minister- oder EU-Präsident, vielleicht sogar Papst - wer weiß. Von der Mafia lernen, hieße demnach Regieren lernen. wink
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