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(Fwd) Quante bugie sull'islam italiano
- Subject: (Fwd) Quante bugie sull'islam italiano
- From: "Davide Bertok" <davide at bertok.it>
- Date: Tue, 10 Jun 2003 14:00:50 +0200
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------- Forwarded message follows ------- Date forwarded: Tue, 10 Jun 2003 08:41:44 +0200 Date sent: Tue, 10 Jun 2003 09:13:54 +0200 To: pace at peacelink.it From: Daniele Barbieri <barbieri at carta.org> Subject: Quante bugie sull'islam italiano Forwarded by: pace at peacelink.it Send reply to: pace at peacelink.it [ Double-click this line for list subscription options ] il manifesto - 08 Giugno 2003 ARTICOLO pagina 18 ---------------------------------------------------------------------- ---------- Quante bugie sull'islam italiano di ANGELA LANO Quante bugie sull'islam italiano E invece esiste un interessante movimento di riforma che in Italia e in Europa sta investendo le comunità islamiche. Purtroppo ignorato Per la stampa italiana tra i frequentatori delle moschee e i terroristi c'è continuità. Così finiamo col ritrovarci con qualche migliaio di potenziali kamikaze ANGELA LANO Sull'islam italiano, in questi giorni, il cerchio si è già chiuso: moschee - Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) - Fratelli musulmani - integralismo - terrorismo - moschee. Ciò che rimane aperto è il circolo vizioso delle reazioni: paura, insicurezza, razzismo, repressione. Il tutto, azione e reazione, scatenate spesso dalle semplificazioni mediatiche strumentali a qualcosa di ancora non ben chiaro. Tuttavia, qualunque serio studioso dei fondamentalismi (o integralismi, o radicalismi) islamici sa che le cose non stanno così: innanzitutto l'organizzazione dei Fratelli musulmani, nata in Egitto nel 1928, è una galassia di gruppi, movimenti che, pur avendo una base comune, si differenziano tra loro per strategie e modalità. Troveremo quindi sia gruppi che fanno della lotta armata un mezzo per difendere la Dar al-Islam, la Casa dell'islam, dalle minacce esterne, sia gruppi terroristici (che attaccano, cioè, aree sia interne sia esterne al mondo arabo-islamico), sia associazioni totalmente pacifiche e nonviolente. La definizione, riportata in questi giorni da alcuni mezzi di informazione, che indica i Fratelli musulmani come una «centrale integralista internazionale» è dunque riduttiva e semplicistica. Come, in questi termini, lo è il definire l'Ucoii (che rappresenta l'80% dei centri islamici italiani) una sua emanazione gettando l'ombra del dubbio sulle centinaia di luoghi di culto e moschee italiane ad essa affiliate. Il complesso e difficile discorso sul fondamentalismo islamico (sarebbe più corretto usare il plurale, proprio a causa della grande diversità tra un movimento e l'altro) spetterebbe agli islamologi di rilievo presenti in Italia. Certamente uno degli obiettivi dei Fratelli è la re-islamizzazione delle società islamiche, o dei musulmani residenti all'estero - piuttosto che di quelle occidentali. Gridare al pericolo di una islamizzazione dell'Europa o dell'Italia significa solo creare inutile panico e conseguente intolleranza fra i popoli. Anche il parallelismo tra islam radicale e terrorismo è improprio. Il terrorismo è la strategia di alcuni gruppi integralisti, non di tutti. E' come dire che i movimenti integralisti cattolici (da cui il termine usato per l'islam è stato mutuato) presenti in Italia siano in diretto contatto con i terroristi dell'Ira. «Integralismo» è un'interpretazione «integrale» della religione in tutti gli aspetti della vita quotidiana; è la ricerca di una «verità» (condivisibile o meno), non il cappello sotto cui si raccolgono tutti i fanatici bombaroli di matrice islamica. Nella prefazione di Andrea Pacini a I Fratelli musulmani e il dibattito sull'islam politico (Edizioni della Fondazione Agnelli), si legge: «I Fratelli musulmani partecipano, laddove è loro possibile, alla vita politica istituzionale prendendo parte alle competizioni elettorali. Da questo punto di vista oggi i Fratelli musulmani prendono chiare distanze dall'uso della violenza, e condannano gli atti violenti dei movimenti islamici radicali come al-Jihad e al-Jama'a al-Islamiyya; nel passato invece il loro rapporto con la violenza ha avuto una certa ambivalenza». Quanto alle cifre esatte dei mujaheddin italiani, più volte citati in questi ultimi mesi dai quotidiani, poco si sa. I numeri enormi - 300, 600, 2.000, spesso lanciati nelle prime pagine - non sono assolutamente verificabili. Le uniche fonti sembrano essere i tanto discussi Abdel -Qader Fall Mamour di Carmagnola, e Adel Smith, personaggi poco rappresentativi dell'islam italiano. Stimolare dubbi e analisi critiche su quanto si sente e si legge attualmente non significa, ovviamente, ritenere che non vi siano individui che dall'Italia si sono recati, o si recano tuttora, a combattere in Bosnia, in Afghanistan, in Iraq o in Palestina, o che appartengono ad organizzazioni terroristiche di fanatici pronti a immolarsi. Ma anche in questi casi, molto differenti tra loro, bisogna distinguere tra le lotte di liberazione nazionale e il terrorismo fine a se stesso. E' l'allarmismo irrazionale, il passaggio dal particolare al generale, il semplicismo, l'estremizzazione, la manipolazione dei dati, ad essere ingiustificabile e dannoso alla civile convivenza e al dialogo fra le culture. La classificazione, al limite del manicheismo, tra moderati (coloro che non vanno in moschea, non pregano) e integralisti a rischio di strumentalizzazione terroristica (tutti coloro che frequentano le centinaia di luoghi di culto islamici) è fuorviante: dobbiamo ricordare che il venerdì e durante le principali feste ('id al-Fitr, `id al -Adha), le moschee italiane si riempiono di migliaia e migliaia di fedeli, tra cui numerose donne e bambini. A Torino, ad esempio, in queste occasioni, il Palavela ospita dalle 6 alle 8 mila persone, prevalentemente maghrebini (un quarto circa dei soggiornanti), molti dei quali hanno rapporti continuativi o saltuari con gli istituti islamici cittadini. Significa allora che tutti costoro rappresentano una minaccia terroristica? Che quelle signore con l'hijab sul capo che, sedute dietro agli uomini, si prosternano in preghiera in direzione della Mecca, sono pronte ad imbottirsi di tritolo e a farsi saltare in aria in uno dei nostri supermercati? O forse che lo sono i loro mariti, che in questi mesi hanno pianto di dolore per la sorte degli iracheni uccisi dalle bombe intelligenti americane, o dei palestinesi massacrati dagli aerei israeliani? Certo, nessuno nega che, nella massa, si possano nascondere alcuni personaggi discutibili o addirittura pericolosi. Ma ciò non significa avere il diritto di screditare tutti i musulmani in preghiera. In questi mesi non si fa che parlare della disponibilità dello stato a dialogare con l'islam moderato, ma allora, come mai non si accenna all'interessante movimento di riforma che in Italia e nel resto dell'Europa sta investendo le comunità islamiche? Nel nostro Paese è proprio l'Ucoii, attraverso il suo segretario, Hamza Roberto Piccardo, e molti altri intellettuali, ad impegnarsi in una coraggiosa opera di riapertura dell'ijtihad, interpretazione, di rilettura in chiave moderna della legge e del diritto musulmani (si veda l'intervista pubblicata sul numero di aprile di Mondo e Missione e l'articolo sulla pagina torinese di Repubblica del 20 aprile). Attraverso conferenze, dibattiti, lezioni, pubblicazioni il gruppo di intellettuali sta svolgendo attività di sensibilizzazione proprio nelle 400 moschee, e centri culturali, accusate dai media di essere potenziali rischi per la sicurezza dello stato. Durante la recente guerra contro l'Iraq, in una riunione organizzata a Bologna dall'Ucoii, la maggioranza degli istituti islamici italiani lì rappresentati ha approvato, per la prima volta nella storia dell'islam nazionale, un documento piuttosto innovativo: in sette punti i rappresentanti dell'organizzazione chiedevano a tutti i fedeli di assumere atteggiamenti e comportamenti di reazione nonviolenta e pacifica alla guerra, e a non interpretarla nei termini dello «scontro fra civiltà». Era il 23 marzo. Da quel momento in poi molti balconi di famiglie e singoli musulmani si sono riempiti di bandiere della pace, e molti cortei pacifisti hanno accolto le comunità musulmane che esprimevano le loro paure e la loro sofferenza. Allora, «a chi giova il terrorismo? - si chiedeva qualche giorno fa padre Giulio Albanese, direttore dell'agenzia stampa missionaria Misna nell'editoriale on-line `Il terrorismo è la guerra del Terzo Millennio' - (...) eppure, a pensarci bene, qualcosa non quadra. Perché mai questi vigliacchi sono tornati a colpire proprio ora che la guerra contro Saddam Hussein è finita? La raffica di attentati a Riad, Casablanca ed Ankara sembra scattata in ritardo rispetto al presunto orgoglio dell'estremismo arabo. Come mai quando le bombe cadevano a grandine su Baghdad questi dementi sono rimasti in letargo?». E concludeva: «Certamente l'attacco dell'11 settembre 2001 non è servito un granché ai popoli oppressi del sud del mondo; direi piuttosto che ha fatto bene all'industria bellica statunitense che ha finanziato (non è un mistero per nessuno!) l'elezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Anche bin Laden, che nei misteriosi video fatti arrivare alla televisione in lingua araba al-Jazeera si proclamava difensore dei musulmani, tutto sommato sta sempre più mettendo nei guai l'intero mondo arabo. Una cosa è certa: questo terrorismo ha già vinto a modo suo. Se infatti per combatterlo usiamo le armi all'uranio impoverito o i B52 - quando per inciso il kamikaze di turno potrebbe essere nascosto dietro l'angolo del portone di casa nostra - e soprattutto le democrazie rinunciano alle garanzie proclamate dalle loro costituzioni o dal diritto internazionale, `il serpente - recita un proverbio africano - ha già posto le sue uova nel nido delle aquile'». ------- End of forwarded message -------
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