referendum 15 giugno



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In allegato un contributo dello Slai Cobas sul referendum del 15 giugno




15 giugno, referendum sull'art. 18:
chi invita all'astensione o a votare no,
vuole ridurre i diritti di tutti i lavoratori.
Per difendere le condizioni di lavoro e
i diritti di tutti i lavoratori, è necessario
votare SÌ al referendum del 15 giugno.

I lavoratori, tutti i lavoratori, hanno dei buoni motivi per votare SÌ. Noi
non siamo stati tra i sostenitori di questo referendum, riteniamo ancora
profondamente sbagliati i tempi e i modi con cui è stato promosso e abbiamo
pure molte riserve sul metodo referendario. Ma la situazione politica
creatasi impone che, senza indugio, il 15 giugno si debba votare SÌ. Questa
è una condizione necessaria, anche se da sola non sufficiente, per
contrastare l'attacco governativo e padronale in corso e per creare
rapporti di forza migliori per organizzare la difesa di tutti i lavoratori,
anche di quelli privi totalmente di diritti, come gli "interinali", i
"tempo determinato", i "Co. Co. Co. (collaborazione coordinata
continuativa", gli apprendisti ...

Estendere i diritti rafforza TUTTI i lavoratori
L'estensione dell'art. 18 anche nelle aziende di sotto dei 15 dipendenti (5
nel settore agricolo), non è solamente un problema di giustizia "astratta",
di diritto, di equità, di applicazione a tutti della stessa legge. Il
diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza
giusta causa anche in queste aziende è nell'interesse di tutti i
lavoratori. Quanto più i diritti sono estesi e assumono la forma di leggi
esigibili da chiunque, tanto più le condizioni salariali e normative di
tutti i lavoratori sono migliori. Un lavoratore con pochi o nessun diritto,
è un lavoratore pagato di meno, che non può organizzarsi sindacalmente, non
può rivendicare diritti minimali (maternità, ferie, straordinari in busta
paga, .... pur se sanciti per legge), non può salvaguardare la propria
salute (immaginatelo che richiede l'applicazione della legge 626 o
l'intervento dell'ASL), non può difendere la propria dignità umana
(molestie sessuali, ...). Il fatto che esista una consistente quota di
lavoratori (circa 3 milioni) che non possono "godere" di tutto questo,
seppur assunti a tempo indeterminato (quindi costretti per tutta la vita
all'arbitrio padronale), ha un effetto "deprimente" sulle condizioni
salariali e normative di tutti i lavoratori.
L'obiettivo di governo e padronato è quello di ridurre i diritti (e i
salari) a tutti i lavoratori e di portarli il più possibile allo stesso
livello dei lavoratori con pochi o, addirittura, nessun diritto. Tutte le
leggi per "flessibilizzare" il lavoro, dal "pacchetto Treu" del Centro
Sinistra all'odierno "libro bianco" di Maroni, sono finalizzate a levare
diritti contrattuali e individuali per ridurre il costo del lavoro. I
diritti, infatti, sono sia un "costo" per i padroni, una quota di salario
che si vuole eliminare per conservare i profitti, sia uno strumento
fondamentale per difendere la propria dignità umana individuale nei posti
di lavoro e la base per garantire al meglio le condizioni collettive.
Se i lavoratori a tempo indeterminato, a tempo determinato, interinali,
Co.Co.Co., apprendisti, ... godessero degli stessi diritti, anche
indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità, tutti i lavoratori ne sa
rebbero rafforzati e potrebbero difendersi meglio; perché se così fosse le
condizioni di lavoro sarebbero levate all'arbitrio padronale, alla loro
determinazione sulla base del rapporto individuale tra lavoratore e
padrone, dove il primo è perdente e sconfitto in partenza, senza appello.
L'estensione dei diritti minimali è, quindi, un obiettivo nell'interesse di
tutti i lavoratori, e nella situazione politica attuale ci è imposto di
schierarci e di votare al referendum del 15 giugno. I lavoratori hanno
un'unica scelta per difendere i propri interessi, ed è quella di votare SÌ.

Padroni e governo: cancellare tutti i diritti, diminuire i salari
Il 15 giugno non è in ballo solo un pronunciamento sull'estensione
dell'art. 18 nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Governo e padroni
vogliono usare la scadenza per sancire un consenso sociale alla
controriforma dei rapporti di lavoro che vuole introdurre il "libro bianco"
di Maroni. Il mancato raggiungimento del quorum o, peggio, la vittoria del
NO al referendum, sarebbero subito usati per giustificare l'introduzione
delle misure previste dalle "leggi delega" in discussione al Parlamento
(prima fra tutte la sospensione dell'art. 18 per i neo assunti nelle
aziende dove già si applica), sostenendo che dietro di esse vi è la volontà
della maggioranza degli italiani.
Governo e padroni vogliono ottenere questa sanzione, pensando in questo
modo di azzerare la protesta sociale contro la modifica dell'art. 18 che
nei mesi scorsi si è espressa in massa nelle piazze. Il loro obiettivo è
quello di usare il referendum quale trampolino di lancio per azzerare tutti
i diritti, di tutti i lavoratori.
L'attacco ai diritti è una precondizione per l'ulteriore estensione della
flessibilizzazione dei lavori e per la diminuzione dei salari. Il governo e
la Confindustria puntano a scardinare i meccanismi contrattuali esistenti
per ottenere un generale abbassamento dei livelli salariali (diretti e
indiretti). Come scritto nel programma elettorale del governo Berlusconi,
il fine è quello di sbarazzarsi dei vari livelli contrattuali e
dell'attuale legislazione del lavoro per introdurre la "libera
contrattazione tra datore di lavoro e lavoratore", ossia per reintrodurre
l'arbitrio padronale in tutti i posti di lavoro.
Tutti i lavoratori, per contrastare questo disegno, devono necessariamente
votare SÌ il 15 giugno. Il mancato raggiungimento del quorum o, peggio, la
vittoria del no, sarebbero il preludio di un inasprimento dell'attacco in
corso su diritti, salari e pensioni.

L'estensione dell'art. 18 aumenta la disoccupazione?
La campagna contro i lavoratori è in pieno svolgimento. La Confindustria
richiede a gran voce "l'ammodernamento" della legislazione del lavoro e il
suo presidente D'Amato si lamenta della lentezza con cui il governo procede
nelle "riforme" (ossia nell'approvazione delle leggi delega sul mercato del
lavoro e nell'ulteriore riduzione delle pensioni).
I settori padronali più direttamente interessati ad impedire l'affermazione
del SÌ al referendum hanno addirittura costituito un "Comitato per il NO",
che si è impegnato in un'offensiva "terroristica" su quelli che sarebbero
gli effetti di un'estensione del diritto al reintegro nel posto di lavoro
in caso di licenziamento senza giusta causa.
Billè, presidente della CNA, capofila del Comitato per il NO, ha sostenuto
che una vittoria del SÌ porterebbe alla perdita di 100.000 posti di lavoro.
Il ministro del Welfare Roberto Maroni continua a sostenere che un tale
risultato renderebbe più difficile combattere la disoccupazione.
L'argomentazione è sempre la stessa, usata sia dal Centro Sinistra per
giustificare il pacchetto Treu, sia dal Centro Destra per legittimare la
controriforma Maroni: con queste misure si aumenta l'occupazione. Per
estensione, la vittoria del SÌ al referendum impedirebbe questo risultato.

Innanzitutto non si capisce bene perchè se vincesse il SÌ immediatamente ci
sarebbero 100.000 licenziamenti.
Chi ha assunto questi lavoratori non ne avrebbe più bisogno? Se non ne ha
bisogno, perchè mai non li licenzia oggi, quando potrebbe farlo
tranquillamente poiché nella sua azienda non si applica l'art. 18? Simili
argomentazioni non hanno alcun valore, ma sono fatte circolare e presentate
come vere solo perché dette in televisione, a trasmissioni cui non sono
chiamati mai a parlare i lavoratori che subiscono quotidianamente la
tragedia della mancanza di diritti.
Neppure si capisce perché se vincesse il SÌ sarebbe più difficile
"combattere" la disoccupazione. Probabilmente si vuole dire che se il
referendum avesse questo esito i padroni sarebbero meno propensi ad
assumere? Se stiamo parlando di un'esigenza concreta, dettata dal ciclo
economico, si dice una stupidaggine. Un datore di lavoro assume perché si
amplia il ciclo produttivo e ha bisogno di più dipendenti per seguirlo e
reggere la concorrenza. Quindi il referendum non c'entra nulla. Se invece
diciamo che un padrone preferisce assumere lavoratori senza diritti, per
ottenere più profitti e poter fare il bello e cattivo tempo con tutti i
dipendenti senza alcun problema o contestazione, allora stiamo dicendo le
cose come stanno, senza maschere.
Infine va sfatato il cuore dell'argomentazione padronale e governativa,
l'aumento dell'occupazione. Questa non aumenta grazie a qualche legge,
anche se viene promesso in fase di campagna elettorale, ma solo ed
esclusivamente se il ciclo economico è in fase ascendente. Questo non
avviene da tempo e le misure del pacchetto Treu non hanno aumentato
l'occupazione, nè quelle delle leggi delega di Maroni lo faranno. Queste
leggi favoriscono un travaso del lavoro da delle condizioni maggiormente
garantite a nuove condizioni meno garantite e "sicure". La
flessibilizzazione sempre più forsennata di questi anni non ha
significativamente aumentato l'occupazione totale, l'ha trasferita dalle
condizioni "tipiche" a quelle "atipiche". Per tanti neo assunti con
contratti a termine, Co.Co.Co., ... ci sono stati più o meno altrettanti
licenziati, cassaintegrati ed espulsi nelle grandi fabbriche. La cosiddetta
base occupazionale non aumenta in modo significativo da tempo e non lo farà
nel prossimo futuro.
L'aumento dell'occupazione è uno specchietto per le allodole, che sta
tragicamente sperimentando sia chi è espulso dal lavoro, sia chi è assunto
nelle forme "atipiche".

Un vasto fronte contro i lavoratori il 15 giugno
Non sono solo il governo Berlusconi e il padronato, però, non vogliono
l'estensione dell'art. 18. La gran maggioranza dell'Ulivo è anch'essa
schierata contro, come pure Cisl e Uil. Non deve stupire che le
argomentazioni sono le stesse. Qualche esempio?
Violante, presidente dei deputati DS, sostiene che l'estensione dell'art.
18 sarebbe "un duro colpo per il mondo imprenditoriale italiano". L'ex
ministro Visco è per il no, come pure Rutelli e Castagnetti della
Margherita. Quest'ultimo ha anche sostenuto: "Un commerciante o un
artigiano che ha un dipendente è imprenditore ma insieme anche lavoratore.
Non possiamo complicargli la vita". Evidentemente, diciamo noi, poco
importa che l'intera esistenza di un lavoratore sia dannatamente complicata
dalla totale assenza di diritti esigibili nel posto di lavoro.
Ma non basta, Enrico Letta, economista della Margherita, in un convegno
organizzato dal giornale "Il Riformista" (organo di D'Alema) ha enunciato
con chiarezza la posizione dell'Ulivo sull'art.18: va cancellato per tutti
e sostituito con una nuova legge che sostituisca il reintegro con
l'indennizzo e diffonda l'arbitrato al posto del ricorso alla magistratura.
Quando da più parti dell'Ulivo si dice che il referendum sarebbe
controproducente, l'obiettivo reale, al di là delle parole e delle
giustificazioni, è questo. A tale scelta si è infine accodato lo stesso
Cofferati, dopo aver costruito la propria immagine sulla "difesa dei
diritti" e sulla manifestazione dei tre milioni a Roma in difesa ...
dell'art. 18. Sarebbero questi i difensori dei lavoratori contro il Centro
Destra di Berlusconi? Tutti i lavoratori devono ben meditare a proposito, e
non delegare a nessuno la difesa dei propri interessi.


I limiti del referendum e dei suoi promotori
Abbiamo anticipato all'inizio le nostre perplessità su questo referendum. I
suoi promotori lo presentano come una sorta di "sbocco politico" del
movimento di massa sceso in piazza l'anno scorso per difendere l'art. 18.
Se così fosse vorrebbe dire che è tutt'ora in piedi un movimento di
resistenza, in grado effettivamente di influenzare tutte le classi sociali
nelle votazioni, a prescindere dal consenso elettorale di cui godono il
Centro Destra e la maggioranza dell'Ulivo, entrambi contro l'ampliamento
dell'art. 18.
In realtà, oggi, quel movimento non è in piazza e non ha fatto un percorso
tale da rendere certo il passaggio dalla difesa all'offensiva per
l'estensione a tutti delle garanzie previste dall'art. 18. Non siamo certo
in presenza di una situazione di lotte sociali così vaste e diffuse da
obbligare con la mobilitazione il Parlamento ad approvare leggi
maggiormente favorevoli ai lavoratori, come avvenne con lo Statuto dei
Lavoratori (di cui fa parte l'art. 18) imposto dalle lotte operaie del
1969-1970.
La scelta referendaria rischia, per un errore di calcolo nei tempi e nei
modi, di condurre ad una sconfitta simile a quella fatta dall'allora PCI e
dai sindacati con il referendum sulla "scala mobile". In quell'occasione il
movimento di piazza venne dirottato sul terreno elettorale e perse nel
confronto tra tutte le classi, tra i "cittadini"; in quest'occasione il
referendum è sostitutivo della mobilitazione di massa e presenta come unico
fine possibile alle lotte operaie e proletarie il confronto elettorale.
Quando sarebbe necessario organizzare una lotta continuativa in tutti i
posti di lavoro per difendere i diritti, per contrastare le leggi delega
sul mercato del lavoro (i cui lavori procedono tranquillamente in
Parlamento), per gettare le basi di una futura offensiva in termini di
condizioni di lavoro e di diritti, il principale se non l'unico orizzonte
proposto è quello di una scadenza elettorale, cui sono chiamati a votare
"tutti" (quindi anche i padroni) sui diritti dei lavoratori.
Per noi è stato un errore promuovere questo referendum, la lotta reale e
concreta dei lavoratori non si può sostituire con le consultazioni
elettorali, nè si può far finta che ci sia se invece non c'è. Per questo
non abbiamo partecipato al Comitato per il SÌ e non abbiamo raccolto le
firme.
Ma oggi il referendum c'è e lo scontro politico sul tema dei diritti ci è
imposto da quanti vogliono levarli a tutti i lavoratori. Nell'attuale
situazione la mancanza del quorum al 15 giugno, o peggio, la vittoria del
NO, farebbero da battistrada alla cancellazione per tutti dell'art. 18 e ad
un successivo attacco ancora più virulento ai diritti e alle condizioni dei
lavoratori.
Per questo occorre votare SÌ
al referendum del 15 giugno
Indubbiamente questo non basta. Occorre organizzarsi in tutti i posti di
lavoro per contrastare le leggi delega sul mercato del lavoro, le
esternalizzazioni, il furto del TFR e l'annunciata ennesima riduzione delle
pensioni, i contratti a perdere che ci sono imposti, i licenziamenti che
continuano nelle grandi fabbriche. Ma anche tutto questo sarà più difficile
se non ci sarà uno "scatto d'orgoglio" il giorno del referendum, se i
lavoratori non parteciperanno in gran numero dando il segnale che hanno
compreso che in gioco non è solamente l'estensione dell'art. 18, ma la
difesa delle condizioni di tutti, che non accettano l'arbitrio padronale
quale stile di vita all'interno dei posti di lavoro.

Slai Cobas
Sindacato dei Lavoratori Autorganizzati Intercategoriale
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fip 4.6.2003