IMMIGRAZIONE E CHIESA CRISTIANO-CATTOLICA-POSIZIONI DIVERSE E CONTRASTANTI



ALLA VIGILIA DELLA APPROVAZIONE IN PARLAMENTO DELLA LEGGE BOSSI-FINI SULLA
IMMIGRAZIONE,
FORSE NON E' MALE RIFLETTERE SULLE VARIE E CONTRASTANTI POSIZIONI CHE LA
GERARCHIA CATTOLICA HA (O HA AVUTO) SU QUESTO PROBLEMA.

INTERESSANTE CONFRONTARE LE DIVERSE POSIZIONI DI DUE CARDINALI: BIFFI E
MARTINI (VEDI ALLEGATO)

QUI DI SEGUITO E IN ALLEGATO LA LETTERA APERTA CHE GIA' SCRIVEVO QUASI
QUATTRO ANNI FA: NIHIL NOVI SUB SOLE!
SHALOM-SALAAM A TUTTI, MA PROPRIO A TUTTI E NONOSTANTE TUTTO...!
DOMENICO MANARESI

P.S. A CHI E' INTERESSATO, SU RICHIESTA POSSO ANCHE INVIARE VIA E-MAIL IL
TESTO COMPLETO (OPPURE SOLO IL CAPITOLO TERZO) DELLA ORMAI FAMOSA NOTA
PASTORALE DI BIFFI  DEL SETTEMBRE 2000 IN CUI BIFFI PRENDE POSIZIONE CIRCA
L'ISLAM.



Dott. Domenico Manaresi

Bologna, giovedì 12 Novembre 1998

LETTERA APERTA

IMMIGRAZIONE E CHIESA CRISTIANO-CATTOLICA.

Confesso che ho le idee poco chiare e confuse sul come andrebbe affrontato
il fenomeno, ormai dilagante, del flusso migratorio verso l'Italia.

Confesso però anche che - ad aumentare questa mia "confusione" e poca
chiarezza - ha contribuito non poco il comportamento diviso e contrastante
dei Vescovi cristiano-cattolici riuniti in questi giorni a Collevalenza per
l'annuale assemblea dell'episcopato italiano.

Il Vescovo di Lecce ha affermato: (cito a memoria) "Šsolidarietà e
accoglienza per tuttiŠ". Per contro il Vescovo di Como, Maggiolini, dice:
"Šnon esiste il diritto ad essere invasiŠeppoi c'è il rischio di essere
islamizzatiŠdobbiamo salvaguardare le nostre origini cristianeŠ".

CHE CONFUSIONE!!

Ma come è possibile?! È noto che i vescovi italiani sono profondamente
uniti senza incertezze su alcuni temi, quali aborto, divorzio,
finanziamento della scuola cattolica. Sui primi due temi (aborto e
divorzio) esistono precisi - ancorché teologicamente discutibili - richiami
biblici, ma circa quest'ultimo (denaro alle scuole cattoliche) credo
davvero non sia rintracciabile alcun riferimento alle Scritture!

Riferimenti alle Scritture che invece esistono - eccome! - per quanto
concerne il problema dell'accoglienza agli stranieri.

I richiami biblici al riguardo sono moltissimi: cito solo, uno per tutti,
Mt 25,Š " ero straniero e mi avete (non mi avete) accoltoŠ" E l'una o
l'altra eventualità mi sembra - nel messaggio evangelico - essere veramente
discriminante circa l'essere o meno cristiani degni del Regno, senza
possibilità di soluzioni intermedieŠsenza possibilità cioè di affermare:
"Šbeh, accolgo solo chi non mi reca troppo disturboŠ".

Ciononostante, la confusione nelle interpretazioni è totale.

Come è possibile non cogliere questa radicalità del messaggio cristiano?

E colui che cerca di essere cristiano e si aspetta consigli e "luce" da
quella "lampada" - come il Presidente Scalfaro ha definito la Chiesa -
costui che deve fare?

Costui si sente dire con grande sicumera:

"Hai abortito, hai fatto abortire? Colpa gravissima, peccato mortale!".

"Sei divorziato? Se ti sposi di nuovo non potrai ricevere l'Eucaristia
durante la Messa!"

"Scuola cattolica? Devi chiedere denaro allo Stato!!

Messaggi precisi sui suddetti temi, quasi imperativi categorici.

E con gli emigranti? Persone disperate - alcuni buoni, alcuni meno buoni -
che approdono sulle nostre coste, come deve comportarsi costui? Deve
seguire il vescovo di Como o quello di Lecce? Quello di Bologna o piuttosto
quello di Ivrea?

Oppure è meglio che segua solo e soltanto la propria coscienza??

Domenico Manaresi



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Dott. Domenico Manaresi
Bologna, 29 ottobre 2000
Il 12 settembre 2000, il card. Giacomo Biffi legge, durante la "Tre giorni
del clero", la "Nota pastorale" (che ha suscitato tanto scalpore) in cui
esplicitamente afferma che lo Stato dovrebbe privilegiare l'immigrazione
dei "cattolici".   Confesso che - unitamente a molte altre persone - fui
colpito dalle parole che (almeno quelle del III capitolo) non mi apparvero
essere conformi allo spirito del Vangelo: pensai che un Episcopo non
avrebbe potuto esprimersi in modo più infelice.
Ora invece - dopo aver letto l'intervento che il suddetto nostro cardinale
Giacomo Biffi ha letto il 30 settembre 2000 al Seminario della Fondazione
"Migrantes" - confesso che debbo ricredermi: come recita un antico adagio,
al "peggio" davvero non c'è limite!!
Le parole che Biffi ha diffuso in detto Seminario ( e che riporto qui di
seguito) mi sembrano decisamente più dure di quelle espresse nella "Nota
pastorale". Sono parole che in modo molto esplicito e senza mezzi termini
sembrano non lasciare via di scampo all'Islam e ai fedeli musulmani!
Confesso che, nel sottoscritto, grande disagio ha provocato in particolare
quel continuo "sparar giudizi" del nostro Vescovo, con una sicumera che
farebbe presupporre una profonda conoscenza del Corano, dell'Islam nelle
sue varie formeŠ può essere, ma ho qualche dubbio su questo far di ogni
erba un fascio.
Il confronto poi con quanto scrisse 10 anni fa, il 6 dicembre 1990, il
cardinal Martini, (riporto qui di seguito anche questo scritto) beh questo
ha creato in me un vero e proprio "shock"Š.a chi credere, a chi dar retta
per quanto concerne il rapporto che il buon cristiano-cattolico dovrebbe
avere col mondo islamico??  Alla pacatezza, alla ricerca di dialogo di
Martini oppure all'integralismo, alla apodittica durezza di Biffi?  A voi
una rispostaŠ.
Shalom a tutti, ma proprio a tuttiŠa quei TUTTI cui credo si riferisca
Paolo quando afferma (Efesini 4,6):"Šun solo Dio Padre di TUTTI, che è al
di sopra di TUTTI, agisce per mezzo di TUTTI ed è presente in TUTTIŠ"
Domenico Manaresi

Mitt. Domenico Manaresi - via Gubellini, 6 - 40141 Bologna - Tel&Fax
051-6233923 - e-mail: bon4084 at iperbole.bologna.it

Card. GLACOMO BIFFI
SULLA IMMIGRAZIONE
Intervento al Seminario della Fondazione "Migrantes"
In controcopertina
"Purtroppo né i "laici" né i ''cattolici'' pare si siano finora resi conto
del dramma che si sta profilando. I "laici", osteggiando in tutti i modi la
Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa
più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di
libertà: potrebbero accorgersene troppo tardi.
I "cattolici", lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della
verità posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice
dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la
propria estinzione.
La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento
portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede".

INDICE

 1) Premessa
2) Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato
3) Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale
4) Gli auspici del pastore
5) Gli auspici per lo Stato e la società civile
6) Progetti realistici complessivi
7) Criteri attuativi
8) La salvaguardia dell'identità nazionale
9) Il caso dei musulmani
10) Cattolicesimo "religione nazionale storica"
11) Alle comunità ecclesiali
12) L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità
13) Non surrogabilità dell'evangelizzazione
14) Approccio realisticamente differenziato
15) Conclusione
 .


 Premessa
Dovrebbe essere evidente a tutti quanto sia rilevante il tema
dell'immigrazione nell'Italia di oggi; ma credo sia altrettanto innegabile
l'inadeguata attenzione pastorale e lo scarso realismo con cui finora esso
è stato valutato e affrontato. Il fenomeno appare imponente e grave; e i
problemi che ne derivano - tanto per la società civile quanto per la
comunità cristiana - sono per molti aspetti nuovi, contrassegnati da
inedite complicazioni, provvisti di una forte incidenza sulla vita delle
nostre popolazioni.
I generici allarmismi senza dubbio non servono, ma nemmeno le banalizazioni
ansiolitiche e le speranzose minimizzazioni. Né si può sensatamente
confidare in un rapido esaurirsi dell'emergenza: è improbabile che tutto si
risolva quasi autonomamente, senza positivi interventi, e la tensione stia
per sciogliersi presto quasi come un temporale estivo, che di solito è di
breve durata e non suscita prolungate preoccupazioni.
A una interpellanza della storia come questa si deve dunque rispondere -
come, del resto, davanti a tutti gli eventi imprevisti e non eludibili
della vicenda umana - senza panico e senza superficialità. Vanno studiate
le cause e va accuratamente indagata l'indole multiforme dell'accadimento;
ma non si può neanche attardarsi troppo nelle ricerche e nelle analisi,
senza mai arrivare a qualche provvedimento mirato e, per quel che è
possibile, efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti
dall'immigrazione sono già in atto.
Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato
Dobbiamo riconoscere - e può essere un'attenuante che siamo stati tutti
colti di sorpresa.
È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l'impressione di
smarrimento; e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire
razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili
e gli ambiti propri dell'ordinata convivenza civile. I provvedimenti, che
via via vengono predisposti, sono eterogenei e spesso appaiono
contraddittori: denunciano la mancanza di una qualche progettualità e, più
profondamente, denotano l'assenza di una corretta e disincantata
interpretazione di ciò che sta avvenendo. Non vediamo che ci sia una
"lettura" abbastanza penetrante dei fatti, tale che sia poi in grado di
suggerire, sviluppare e sorreggere un indirizzo coerente e saggio di
comportamento.
Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale
Sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in
molti casi nel prodigarsi prontamente ad alleviare disagi e pene, ma
sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale e abbastanza
concorde, in grado di ispirare valutazioni e intenti operativi che tengano
conto di tutte le implicazioni degli avvenimenti e di tutti gli aspetti
della questione. Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato
della carità evangelica - che in sé e in linea di principio sono legittime
e anzi doverose - si dimostrano più generose e ben intenzionate che utili,
se rifuggono dal commisurarsi con la complessità del problema e la
ruvidezza della realtà effettuale.
Anche nella nostra esplicita consapevolezza di pastori, non si ha
l'impressione che il fenomeno dell'immigrazione negli ultimi quindici anni
- nel corso dei quali esso si è amplificato e acutizzato - sia stato vivo e
pungente a misura della sua oggettiva gravità.
Abbiamo avuto in merito due estesi documenti: nel 1990 la Nota pastorale
della Commissione ecclesiale "Giustizia e pace" dal titolo: Uomini di
culture diverse: dal conflitto alla solidarietà; e nel 1993 gli
Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le migrazioni dal
titolo: Ero forestiero e mi avete ospitato. Ambedue i testi, molto estesi e
analitici, sono più che altro (e doverosamente) tesi a costruire e a
diffondere nella cristianità una "cultura dell'accoglienza". Manca invece
un po' di realismo nel vaglio delle difficoltà e dei problemi; e
soprattutto appare insufficiente il risalto dato alla missione
evangelizzatrice della Chiesa nei confronti di tutti gli uomini, e quindi
anche di coloro che vengono a dimorare da noi.
Gli auspici del pastore
Vorrei adesso dare consistenza al mio cordiale saluto ai partecipanti di
questo seminario, esprimendo semplicemente alcuni auspici: nascono dalla
riflessione e dal cuore di un vescovo, rivelano più che altro le sue
sollecitudini apostoliche e sono formulati nel rispetto di quanti -
studiosi, operatori sociali, pubbliche autorità - sono chiamati in causa
dalla necessità di dare rapida e sufficiente risposta all'emergenza che qui
prende il nostro interesse.
Non dovrebbe essere inutile che agli esami e alle considerazioni di natura
politica, economica, antropologica, culturale dei competenti (e prestando
ad essi la dovuta attenzione) si aggiunga anche la prospettiva di chi -
essendo a tutti gli effetti cittadino italiano e avendo l'originale
presunzione di poter esporre anche in quanto tale il proprio parere - si
sente soprattutto responsabile del presente e dell'avvenire del gregge di
Cristo che gli è stato affidato; e, tra l'altro, non può mai dimenticare
l'inquietante domanda che il Signore Gesù ha lasciato senza risposta: "Il
Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?" (Lc 18,8).
Gli auspici per lo Stato e la società civile
L'auspicio sostanziale che crediamo di dover formulare per lo Stato e la
società civile, è che si chiariscano e siano comunemente accolte alcune
persuasioni previe, sicché ci si accosti al fenomeno dell'immigrazione
provvisti di una "cultura" plausibile largamente condivisa.
È incontestabile, per esempio, il principio che a ogni popolo debbano
essere riconosciuti gli spazi, i mezzi, le condizioni che gli consentano
non solo di sopravvivere ma anche di esistere e svilupparsi secondo quanto
è richiesto dalla dignità umana. Gli organismi internazionali sono
sollecitati a farsi carico delle iniziative atte a conseguire questa meta e
non possono perdere di vista questo necessario ideale di giustizia
distributiva generale; e tutto ciò vale - in modo proporzionato e secondo
le reali possibilità - anche per i singoli stati.
Ma non se ne può dedurre - se si vuol essere davvero "laici" oltre tutti
gli imperativi ideologici - che una nazione non abbia il diritto di gestire
e regolare l'afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo. Tanto meno se
ne può dedurre che abbia il dovere di aprire indiscriminatamente le proprie
frontiere.
Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile progetto di pacifico
inserimento suppone ed esige che gli accessi siano vigilati e
regolamentati. È tra l'altro davanti agli occhi di tutti che gli ingressi
arbitrari - quando hanno fama di essere abbastanza agevolmente effettuabili
- determinano fatalmente da un lato il dilatarsi incontrollato della
miseria e della disperazione (e spesso pericolose insorgenze di
intolleranza e di rifiuto assoluto), dall'altro il prosperare di
un'industria criminale di sfruttamento di chi aspira a varcare
clandestinamente i confini.
Progetti realistici complessivi
Ciò che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla società italiana è che si
arrivi presto a un serio dominio della situazione, in modo che il massiccio
arrivo di stranieri nel nostro paese sia disciplinato e guidato secondo
progetti concreti e realistici di inserimento che mirino al vero bene di
tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni.
Tali progetti dovrebbero contemplare tanto la possibilità di un lavoro
regolarmente remunerato quanto la disponibilità di alloggi dignitosi non
gratuiti: per questa strada si potrà arrivare a un sicuro innesto entro il
nostro organismo sociale, senza discriminazioni e senza privilegi.
Chi viene da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come necessaria
contropartita dell'ospitalità, il rispetto di tutte le norme di convivenza
che sono in vigore da noi, comprese quelle fiscali. Diversamente non si
farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di rigetto, ciechi
atteggiamenti di xenofobia e l'insorgere di deplorevoli intolleranze
razziali.
Criteri attuativi
La pratica attuazione di questi progetti obbedirà necessariamente a criteri
che saranno anche economici: l'Italia ha bisogno di forze lavorative che
non riesce più a trovare nell'ambito della sua popolazione.
A questo proposito, dovrebbero essere tutti ormai persuasi di quanto sia
stata insipiente la linea perseguita negli ultimi quarant'anni, con
l'ossessivo terrorismo culturale antidemografico e con l'assenza di ogni
correttivo legislativo e politico che ponesse qualche rimedio all'egoistica
e stolta denatalità, da molto tempo ai vertici delle statistiche mondiali.
Tutto questo nonostante l'esempio contrario delle nazioni d'Europa più
accorte, più lungimiranti, più civili, che non hanno esitato a prendere in
questo campo intelligenti e realistici provvedimenti.
La salvaguardia dell'identità nazionale
Ma i criteri di cui si parla non potranno essere soltanto economici e
previdenziali.
Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è accettabile
e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi seriamente di
salvaguardare la fisionomia propria della nazione. L'Italia non è una landa
deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali,
senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare
indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo
e di civiltà che non deve andare perduto.
Sotto questo profilo, uno Stato davvero "laico" - che cioè abbia di mira
non il trionfo di qualche ideologia, ma il vero bene degli uomini e delle
donne sui quali esercita la sua attività di amministrazione e di governo, e
voglia loro preparare con accortezza un desiderabile futuro - dovrebbe
avere tra le sue preoccupazioni primarie quella di favorire la pacifica
integrazione delle genti (come si è già storicamente verificato
nell'incontro tra le popolazioni latine e quelle germaniche sopravvenute) o
quanto meno una coesistenza non conflittuale; una compresenza e una
coesistenza che comunque non conducano a disperdere la nostra ricchezza
ideale o a snaturare la nostra specifica identità.
Bisogna perciò concretamente operare perché coloro che intendono stabilirsi
da noi in modo definitivo "si inculturino" nella realtà spirituale, morale,
giuridica del nostro paese, e vengano posti in condizione di conoscere al
meglio le tradizioni letterarie, estetiche, religiose della peculiare
umanità della quale sono venuti a far parte.
A questo fine, le concrete condizioni di partenza degli immigrati non sono
ugualmente propizie; e le autorità non dovrebbero trascurare questo dato
della questione.
In una prospettiva realistica, andrebbero preferite (a parità di
condizioni, soprattutto per quel che si riferisce all'onestà delle
intenzioni e al corretto comportamento) le popolazioni cattoliche o almeno
cristiane, alle quali l'inserimento risulta enormemente agevolato (per
esempio i latino-americani, i filippini, gli eritrei, i provenienti da
molti paesi dell'Est Europa, eccetera); poi gli asiatici (come i cinesi e i
coreani), che hanno dimostrato di sapersi integrare con buona facilità, pur
conservando i tratti distintivi della loro cultura. Questa linea di
condotta - essendo "laicamente" motivata - non dovrebbe lasciarsi
condizionare o disanimare nemmeno dalle possibili critiche sollevate
dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni cattoliche.
Come si vede, si propone qui semplicemente il "criterio dell'inserimento
più agevole e meno costoso": un criterio totalmente ed esplicitamente
"laico", a proposito del quale evocare gli spettri del razzismo, della
xenofobia, della discriminazione religiosa, dell'ingerenza clericale e
perfino della violazione della Costituzione, sarebbe un malinteso davvero
mirabile e singolare; il quale, se effettivamente si verificasse, ci
insinuerebbe qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e dei
politici italiani.
Il caso dei musulmani
Se non si vuol eludere o censurare tale realistica attenzione, è evidente
che il caso dei musulmani vada trattato a parte. Ed è sperabile che i
responsabili della cosa pubblica non temano di affrontarlo a occhi aperti e
senza illusioni.
Gli islamici - nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione -
vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra "umanità",
individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso,
di più "laicamente" irrinunciabile: più o meno dichiaratamente, essi
vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente "diversi", in attesa di
farci diventare tutti sostanzialmente come loro.
Hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso
giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una
concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare la
poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della
vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica
fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano
prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque
gli uomini di Chiesa, ma gli stati occidentali moderni a dover far bene i
loro conti a questo riguardo.
Va anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato crede sul serio
nell'importanza delle libertà civili (tra cui quella religiosa) e nei
princìpi democratici, dovrebbe adoperarsi perché essi siano sempre più
diffusi, accolti e praticati a tutte le latitudini. Un piccolo strumento
per raggiungere questo scopo è quello della richiesta che venga data una
"reciprocità" non puramente verbale da parte degli stati di origine degli
immigrati.
Scrive a questo proposito la Nota CEI del 1993: "In diversi paesi islamici
è quasi impossibile aderire e praticare liberamente il cristianesimo. Non
esistono luoghi di culto, non sono consentite manifestazioni religiose
fuori dell'islam, né organizzazioni ecclesiali per quanto minime. Si pone
così il difficile problema della reciprocità. È questo un problema che non
interessa solo la Chiesa, ma anche la società civile e politica, il mondo
della cultura e delle stesse relazioni internazionali. Da parte sua il papa
è instancabile nel chiedere a tutti il rispetto del diritto fondamentale
della libertà religiosa" (n. 34). Ma - diciamo noi - chiedere serve a poco,
anche se il papa non può fare di più.
Per quanto possa apparire estraneo alla nostra mentalità e persino
paradossale, il solo modo efficace e non velleitario di promuovere il
"principio di reciprocità" da parte di uno Stato davvero "laico" e davvero
interessato alla diffusione delle libertà umane, sarebbe quello di
consentire in Italia per i musulmani, sul piano delle istituzioni da
autorizzare, solo ciò che nei paesi musulmani è effettivamente consentito
per gli altri.
Cattolicesimo "religione nazionale storica"
Quanto ai rapporti da intrattenere con le diverse religioni, che sono
presenti tra noi in conseguenza dell' immigrazione, sarà bene che nessuno
ignori o dimentichi che il cattolicesimo - che indiscutibilmente non è più
la "religione ufficiale dello Stato" - rimane nondimeno la "religione
storica" della nazione italiana, la fonte precipua della sua identità,
l'ispirazione determinante delle nostre più vere grandezze.
Sicché è del tutto incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme
religiose o culturali, alle quali dovrà essere assicurata piena e autentica
libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti un
livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori
della nostra civiltà.
Va anche detto che è una singolare visione della democrazia il far
coincidere il rispetto degli individui e delle minoranze con il non
rispetto della maggioranza e l'eliminazione di ciò che è acquisito e
tradizionale in una comunità umana. Dobbiamo qui segnalare purtroppo casi
sempre più numerosi di questa, che è una "intolleranza sostanziale", per
esempio quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici per
la presenza di alcuni di altre fedi.
Alle comunità ecclesiali
Che cosa diremo di illuminante e di pratico alle comunità cristiane, che di
questi tempi sono per la verità afflitte da poca chiarezza di idee e da
molte incertezze comportamentali?
In primo luogo, deve essere manifesto a tutti che non è per sé compito
della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di
volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono
perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze anche imperiose
che essi con le loro forze non riescono ad appianare. Sarebbe un implicito,
ma comunque intollerabile e grave "integralismo" il credere che le
aggregazioni ecclesiali e i cattolici possano essere responsabilizzati di
tutto.
Qualche volta i malintesi sono involontariamente propiziati dalle pubbliche
autorità che, quando non sanno che pesci pigliare, fanno appello alle
nostre supplenze e fatalmente ci coinvolgono (dando in tal modo implicito
riconoscimento che le organizzazioni ecclesiali sono tra quelle che in
Italia riescono ancora a funzionare).
L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità
Compito primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è l'annuncio del
Vangelo e l'osservanza del comando dell'amore. Di fronte a un uomo in
difficoltà - quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione,
la legalità della sua presenza - i discepoli di Gesù hanno il dovere di
amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità.
Il Signore ci chiederà conto della genuinità e dell'ampiezza della nostra
carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile. Su questo però -
sarà bene che nessuno se lo dimentichi - noi siamo tenuti a rispondere non
ad altri, ma solo al Signore.
Non surrogabilità dell'evangelizzazione
Dovere statutario della Chiesa Cattolica e compito di ogni battezzato è di
far conoscere esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per
noi e risorto, oggi vivo e Signore dell'universo, unico Salvatore di tutti.
Tale missione può essere coadiuvata ma non surrogata dall'attività
assistenziale che riusciremo a offrire ai nostri fratelli. Suppone la
nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non
può risolversi nel solo dialogo. È favorita dalla conoscenza oggettiva
delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto nella conoscenza di Cristo
cui noi riusciamo a portare i nostri fratelli, che sventuratamente ancora
non ne sono gratificati.
Inoltre l'azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera
deliberate esclusioni di destinatari. Il Signore non ci ha detto:
"Predicate il Vangelo ad ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il
Dalai Lama" (cf Mc 16,15). Chi ci contestasse la legittimità o anche solo
l'opportunità di questo annuncio illimitato e inderogabile, peccherebbe di
intolleranza nei nostri confronti: ci proibirebbe infatti di essere quello
che siamo, vale a dire "cristiani"; cioè obbedienti alla chiara ed
esplicita volontà di Cristo.
È molto importante che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro
indeclinabile responsabilità. E per essere buoni evangelizzatori, persuasi
dentro di sì e persuasivi nei confronti degli altri, essi devono crescere
sempre più nella intelligenza e nella gioiosa ammirazione degli immensi
tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna
di possedere: è una effusione sovrumana, anzi divinizzante di luce,
assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle
varie religioni e dall'Islam; e noi siamo chiamati a proporla
appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli di Adamo.
Approccio realisticamente differenziato
Le comunità cristiane - in funzione di un approccio sapiente e realistico
al fenomeno dell'immigrazione - non possono non valutare attentamente i
singoli e i gruppi, in modo da assumere poi gli atteggiamenti più
pertinenti e più opportuni.
Agli immigrati cattolici - quale che sia la loro lingua e il colore della
loro pelle - bisogna far sentire nella maniera più efficace che all'interno
della Chiesa non ci sono "stranieri": essi a pieno titolo entrano a far
parte della nostra famiglia di credenti, e vanno accolti con schietto
spirito di fraternità.
Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee
consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica
tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di
tutti. La compresenza di queste diverse "forme" di vita ecclesiale e di
culto autentico costituirà senza dubbio un arricchimento spirituale per
l'intera cristianità.
Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella
piena comunione con la Sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E,
in conformità agli eventuali accordi generali e secondo l'opportunità,
potremo favorirli anche dell'uso di qualche nostra chiesa per le loro
celebrazioni.
Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e, quanto è
possibile, aiutati nelle loro necessità. Da alcuni di loro - segnatamente
dai musulmani - possiamo tutti imparare la fedeltà ai loro esercizi rituali
e ai loro momenti di preghiera, ma non tocca a noi prestare positive
collaborazioni alla loro pratica religiosa.
A questo proposito, è utile richiamare quanto è disposto dalla Nota CEI del
1993, già citata: "Le comunità cristiane, per evitare inutili
fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione,
per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali
riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività
parrocchiali" (n. 34).
Come si può capire dalla complessità di questa problematica, non è
ammissibile che essa sia affrontata "in toto" dalla "Caritas italiana", che
ha un ben delimitato campo di valutazione e di interesse. Sui temi della
evangelizzazione, della identità cristiana del nostro popolo, delle concrete


 difficoltà pastorali - e dunque sulla questione della immigrazione
globalmente intesa - non dovrebbero esserci deleghe a nessun particolare
organismo ecclesiale.
Conclusione
In un'intervista di una decina d'anni fa, mi è stato chiesto con molto
candore e con invidiabile ottimismo: "Ritiene anche Lei che l'Europa o sarà
cristiana o non sarà?". Mi pare che la mia risposta di allora possa ben
servire alla conclusione del mio intervento di oggi.
Io penso - dicevo - che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà
musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la "cultura del niente", della
libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come
conquista intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento largamente
dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di
verità.
Questa "cultura del niente" (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità
libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto ideologico dell'Islam,
che non mancherà: solo la riscoperta dell'"avvenimento cristiano" come
unica salvezza per l'uomo - e quindi solo una decisa risurrezione
dell'antica anima dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo
inevitabile confronto.
Purtroppo né i "laici" né i "cattolici" pare si siano finora resi conto del
dramma che si sta profilando. I "laici", osteggiando in tutti i modi la
Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa
più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di
libertà: potrebbero accorgersene troppo tardi. I "cattolici", lasciando
sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e
sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni costo,
inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria estinzione.
La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento
portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede.
È il nostro augurio, il nostro impegno, la nostra preghiera.
Bologna, 30 settembre 2000
GIACOMO CARD. BIFFI
arcivescovo di Bologna


 NOI E L'ISLAM - dall'accoglienza al dialogo
Discorso di S.Em. Card. Carlo Maria Martini alla Chiesa ed alla Città di
Milano, nella vigilia della festa di sant'Ambrogio, il 6 dicembre 1990.
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Dal Libro della Genesi (21, 13-20)
1. Premessa
2. Chi siamo "noi" e chi è "l'islam"
3. I valori storici dell'islam
4. L'islam in Europa
5. L'atteggiamento della Chiesa e il dialogo
6. Annunciare il Vangelo di Gesù
7. Conclusione
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 Dal Libro della Genesi (21, 13-20):    In quel tempo Dio disse ad Abramo:
"Io farò diventare una grande nazione  anche il figlio della schiava,
perché è tua prole". Abramo si alzò di buon  mattino, prese il pane e un
otre di acqua e li diede ad Agar, caricandoli sulle  sue spalle; le
consegnò il fanciullo e la mandò via. Essa se ne andò e si smarrì  per il
deserto di Bersabea. Tutta l'acqua dell'otre era venuta a mancare.  Allora
essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte,
alla distanza di un tiro d'arco, perché diceva: "Non voglio veder morire il
fanciullo!". Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse.
Ma  Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo
e le  disse: "Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del
fanciullo  là dove di trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per
mano, perché io ne  farò una grande nazione". Dio le aprì gli occhi ed essa
vide un pozzo d'acqua.  Allora andò a riempire l'otre e fece bere il
fanciullo. E Dio fu con il  fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto e
divenne un tiratore d'arco.
1. PREMESSA    Il racconto che abbiamo ascoltato, tratto dal più antico
libro della Scrittura, il libro della Genesi, ci parla di un figlio di
Abramo  che non fu capostipite del popolo ebraico, come lo sarebbe stato
Isacco, ma a cui ugualmente sono state riservate alcune  benedizioni di Dio.
"Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché
è tua prole" promette Dio ad Abramo. E infine nel  racconto si dice: "Dio
fu con il fanciullo".
Le reali vicende di questo Ismaele e dei suoi figli rimangono oscure nella
storia del secondo e primo millennio avanti Cristo, ma  è chiaro che il
riferimento biblico va ad alcune tribù beduine abitanti intorno alla
Penisola Arabica. Da tali tribù doveva nascere  molti secoli dopo Maometto,
il profeta dell'islam.
Oggi, in un momento in cui il mondo arabo ha assunto una straordinaria
rilevanza sulla scena internazionale e in parte anche nel  nostro paese,
non possiamo dimenticare questa antica benedizione che mostra la paterna
provvidenza di Dio per tutti i suoi figli.  Ed è di questo che vorrei
parlarvi oggi, festa di sant'Ambrogio, in quello spirito di attenzione agli
eventi della città che hanno  caratterizzato la vita del nostro patrono.
Esprimerò qualche riflessione non sul fenomeno dell'islam in generale, ma
su quanto ci tocca oggi a Milano e nel contesto  europeo, a seguito delle
nuove forme di presenza dell'islam tra noi.  Ho scelto come titolo preciso
di questa conversazione Noi e l'islam.
2. CHI SIAMO "NOI" E CHI E' "L'ISALM".    Per noi intendo anzitutto il noi
della comunità ecclesiale, della diocesi di Milano e, in seconda istanza,
anche il noi della  comunità civile cittadina, provinciale e regionale.
Certamente il problema posto dall'islam in Europa è molto più vasto.
Abbiamo avuto occasione di dirlo l'anno scorso, in  questa stessa sede,
parlando dell'accoglienza ai terzomondiali.
La presenza di numerosi gruppi etnici di fede musulmana nei nostri paesi
europei comporta anzitutto una serie di problemi  riguardanti la prima
accoglienza e assistenza, la casa, il lavoro. Uno sforzo che impegna tutti;
e le comunità cristiane della nostra  diocesi hanno dato prova questo anno
di grande spirito di solidarietà.  Tale compito di prima sistemazione in
accordo con le leggi vigenti riguarda in primo luogo la comunità civile,
sia pure in  collaborazione con le forze di volontariato. Ma è evidente che
tutti noi, comunità civile ed ecclesiale, non potremo limitarci in
avvenire ai provvedimenti sopraindicati. Nasceranno via via nuovi problemi
riguardanti la riunione delle famiglie, la situazione  sociale e giuridica
dei nuovi immigrati, la loro integrazione sociale mediante una conoscenza
più approfondita della lingua, il  problema scolastico dei figli, i
problemi dei diritti civili, etc.  Non entro direttamente in tali temi
perché ho avuto modo di parlarne in diverse occasioni. Vorrei solo
richiamare qui, prima di  abbordare il tema più specifico, un punto che mi
è sembrato finora poco atteso e cioè la necessità di insistere su un
processo di  "integrazione", che è ben diverso da una semplice accoglienza
e da una qualunque sistemazione.   Integrazione comporta l'educazione dei
nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante,
ad accettare  le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di
vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a
ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e violenze.
Finora l'emergenza ha un po' chiuso gli occhi su questo grave problema. In
proposito, il recente documento della Commissione  Giustizia e Pace della
CEI dice: "Non va dimenticata la necessità di regole e tempi adeguati per
l'assimilazione di questa nuova  forma di convivenza, perché l'accoglienza
senza regole non si trasformi in dolorosi conflitti" (Uomini di culture
diverse, dal conflitto alla solidarietà, 25 marzo 1990, n. 33).  E'
necessario in particolare far comprendere a quei nuovi immigrati che
provenissero da paesi dove le norme civili sono  regolate dalla sola
religione e dove religione e stato formano un'unità indissolubile, che nei
nostri paesi i rapporti tra lo stato e le  organizzazioni religiose sono
profondamente diversi. Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle
libertà e diritti che spettano a  tutti i cittadini, senza eccezione, non
ci si può invece appellare, ad esempio, ai principi della legge islamica
(sciariaa) per esigere spazi e prerogative giuridiche specifiche.
Occorre perciò elaborare un cammino verso l'integrazione multirazziale che
tenga conto di una reale integrabilità di diversi  gruppi etnici.   Perché
si abbia una società integrata è necessario assicurare l'accettazione e la
possibilità di assimilazione di almeno un nucleo  minimo di valori che
costituiscono la base di una cultura, come ad esempio i principi della
Dichiarazione universale dei diritti  dell'uomo e il principio giuridico
dell'uguaglianza di tutti di fronte alla legge.  Ci sono infatti popoli ed
etnie che hanno una storia e una cultura molto diverse dalle nostre e di
cui ci si può domandare se  intendano nello stesso senso i diritti umani e
anche la nozione di legge.  Ciò vale a fortiori dove si verificano fenomeni
che  genericamente chiamiamo col nome di integralismi o fondamentalismi,
che tendono a creare comunità separate e che si  ritengono superiori alle
altre. Ma questo è un problema che nel suo insieme riguarda la comunità
civile e la causa della pacifica  convivenza tra le etnie ed io mi limito a
richiamarlo.   Connesso a questo è però il problema della possibilità anche
di un dialogo interreligioso senza il quale sembra difficile  assicurare
una tranquillità sociale. Ora questo dialogo è possibile? Vi sono pronti i
musulmani? Vi siamo pronti noi cristiani?
Come vedete, si passa a poco a poco dai problemi che toccano la comunità
civile nel suo insieme a quelli più propriamente  religiosi, che consistono
sostanzialmente, per noi cristiani, nella necessità di valutare e capire a
fondo l'islam oggi e nel disporci  al massimo di accoglienza e di dialogo
possibile, senza per questo rinunciare ad alcun valore autentico, anzi
approfondendo il  senso del Vangelo.  Si tratta in sostanza di rispondere a
domande come queste:  
   a. Che cosa dobbiamo pensare oggi noi cristiani dell'islam come religione?
   b. L'islam in Europa sarà anch'esso secolarizzato, entrando quindi in
una nuova fase della sua acculturazione europea?
   c. Quale dialogo e in genere quale rapporto sul piano religioso è
possibile oggi in Europa tra cristianesimo e islam?
   d. La Chiesa dovrà rinunciare a offrire il Vangelo ai seguaci dell'islam?
  Islam significa etimologicamente "sottomissione" e in special modo
sottomissione a Dio e a quella rivelazione che egli ha fatto di  sé. Noi
intendiamo qui per islam l'insieme di tutte le credenze e pratiche che si
richiamano a Maometto e al Corano, ben consci  della complessità di un
simile macrocosmo e delle sue molteplici ramificazioni nei secoli.   In
generale possiamo dire che i "pilastri" dell'islam, accettati da tutti i
musulmani, sono: il riconoscere un Dio solo, creatore,  misericordioso e
giudice universale, e Maometto come suo profeta definitivo; la preghiera
cinque volte al giorno; il digiuno di  ramadàn; l'imposta per i poveri; il
pellegrinaggio alla Mecca una volta in vita; il gihàd interiore, cioè lo
sforzo e il  combattimento per Dio, da intendersi anzitutto come
mobilitazione contro le proprie passioni per una vita giusta e la lotta
contro  l'oppressione e l'ingiustizia; l'impegno a conformarsi nel privato
e nel pubblico a quel modo di vivere chiamato sciariaa, basato  sul Corano,
seguendo il quale è possibile fare la volontà di Dio in ogni aspetto della
vita: religioso, personale, familiare,  economico, politico.
Di qui si vede come l'islam è una religione in cui l'aspetto sociale e
civile ha una fondamentale importanza.  Anche se i musulmani nel mondo sono
oggi diversi per origine etnica e correnti religiose interne e sono
cittadini di diversi stati  indipendenti, rimane però vero che la fede
musulmana è di per se stessa un universalismo che oltrepassa le frontiere e
rimane  sensibile a grandi appelli al ritorno alle origini, così come
avviene oggi nei movimenti fondamentalisti.  Se non è facile parlare di
islam in generale, in conseguenza della storia molto complessa e ricca di
questa religione; più difficile  ancora è definire il fenomeno dell'islam
tra noi, dell'islam in Europa. Troppo recente infatti è il suo nuovo tipo
di presenza  nell'Europa occidentale ed è difficile persino stabilirne le
misure quantitative.
I musulmani nella grande Europa sono circa 23 milioni. Il paese che ne ha
la più alta percentuale è senza dubbio l'Unione delle  Repubbliche
Sovietiche. Seguono la Francia con 2 milioni e mezzo, la Germania ex
Federale con 1.700.000, l'Inghilterra con 1  milione. Per l'Italia si parla
di cifre, tra regolari e clandestini, che vanno da 180.000 a 300.000 unità,
ma probabilmente il  numero è oggi più alto. Paesi molto più piccoli di noi
rilevano una presenza proporzionalmente assai più elevata, come l'Olanda
che ne ha 300.000 o il Belgio che ne ha 250.000.  La presenza tra noi non è
quindi numericamente molto rilevante, ma si è fatta vistosa negli ultimi
anni, anche perché il loro arrivo  in Italia ha coinciso con una ripresa
delle correnti più integraliste.  E' forse la percezione di questo aspetto
che sta creando tra noi un certo disagio e malessere, suscitando alcune
delle domande  alle quali tenterò di rispondere.
In quanto comunità cristiana, quali sono i principi a cui ci richiamiamo in
questa materia?   Possiamo rifarci per brevità a due tipi di testi.
Anzitutto a quelli del Concilio Vaticano II, che ha parlato dei musulmani
soprattutto in due luoghi. Al n. 16 della Lumen Gentium si dice che "il
disegno di salvezza abbraccia anche coloro che  riconoscono il Creatore e,
tra questi, in particolare i musulmani, i quali professano di tenere la
fede di Abramo, adorano con noi  un Dio unico, misericordioso, che
giudicherà gli uomini nel giudizio finale".  Nel decreto Nostra Ætate sulle
relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane si dice in
generale che "la Chiesa  cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo
in queste religioni" e "considera con sincero rispetto quei modi di agire e
di vivere  quei precetti e quelle dottrine che non raramente riflettono un
raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini". In particolare
afferma di guardare con stima ai musulmani che "cercano di sottomettersi
con tutto il core ai decreti di Dio anche nascosti,  come si è sottomesso
anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce" (n. 2). E a
proposito dei "dissensi e inimicizie  che sono sorti nel corso dei secoli
tra cristiani e musulmani", il Concilio "esorta tutti a dimenticare il
passato e ad esercitare  sinceramente la mutua comprensione, nonché a
difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale,
i valori  morali, la pace e la libertà" (n. 3).
Il Concilio ha avuto dunque cura di richiamare elementi comuni a cristiani
e musulmani. Per questo è anche significativo che  esso abbia omesso altri
temi importanti per l'islam. Non vengono menzionati dai testi conciliari né
Maometto, né il Corano, né  l'islam inteso come essenziale nesso
comunitario tra i credenti, né il pellegrinaggio alla Mecca, né la
sciariaa. Viene menzionata  la comune ascendenza abramitica, ma non Gesù,
che nell'islam è presente e però è assai lontano da come lo vede il
cristianesimo.   Per i musulmani Gesù, il figlio di Maria Vergine - e la
figura di Maria è venerata presso i musulmani -, non è né profeta
definitivo, né il Figlio di Dio e neppure è morto realmente sulla croce.
Manca così la dimensione vera e propria della  redenzione.  Ai testi
conciliari che già indicano, malgrado le omissioni sopra notate, con quale
rispetto, con quale apertura di spirito e  prontezza di dialogo deve
procedere un cristiano nel riflettere sull'islam, possiamo ancora
aggiungere un testo di Giovanni Paolo  II che potrà fugare anche i dubbi di
quanti temono che mediante la frequentazione e il dialogo con l'islam venga
meno la  chiarezza della fede cattolica. Dice Giovanni Paolo II nella sua
prima enciclica Redemptor Hominis al n. 11: "Il Concilio  ecumenico
[Vaticano II] ha dato un impulso fondamentale per formare l'autocoscienza
della Chiesa, offrendoci in modo tanto  adeguato e competente la visione
dell'orbe terrestre come di una "mappa" di varie religioni". Il Concilio "è
pieno di profonda  stima per i grandi valori spirituali, anzi, per il
primato di ciò che è spirituale e trova nella vita dell'umanità la sua
espressione nella  religione e, inoltre, nella moralità, con diretti
riflessi su tutta la cultura .  Per l'apertura data dal Concilio Vaticano
II, la Chiesa e  tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza
più completa del mistero di Cristo, "mistero nascosto da secoli" in Dio,
per essere rivelato nel tempo, nell'uomo Gesù Cristo e per rivelarsi
continuamente in ogni tempo".  Giovanni Paolo II non vede dunque
opposizione, anzi convergenza, tra l'attenzione al dialogo interreligioso e
l'accresciuta  coscienza della propria fede.
E' con questo spirito e con questa fiducia che cerchiamo di rispondere alle
domande che ci siamo posti all'inizio.
 3. I VALORI STORICI DELL'ISLAM    Che cosa pensare dell'islam in quanto
cristiani? Che cosa significa esso per un cristiano dal punto di vista
della storia della  salvezza e dell'adempimento del disegno divino nel
mondo? Perché Dio ha permesso che l'islam, unica tra le grandi religioni
storiche, sorgesse sei secoli dopo l'evento cristiano, tanto che alcuni tra
i primi testimoni lo ritennero un'eresia cristiana, un  ramo staccato
dall'unico e identico albero? Che senso può avere nel piano divino il
sorgere di una religione in certo modo così  vicina al cristianesimo come
mai nessun'altra religione storica e insieme così combattiva, così capace
di conquista, tanto che  alcuni temono che essa possa, con la forza della
sua testimonianza, fare molti proseliti in un'Europa infiacchita e senza
valori?
A questa domanda così complessa non è facile dare una risposta semplice
che, tuttavia, è in parte anticipata da quanto  abbiamo riferito del
Vaticano II. Si tratta di una fede che, avendo grandi valori religiosi e
morali, ha certamente aiutato centinaia  di milioni di uomini a rendere a
Dio un culto onesto e sincero e, insieme, a praticare la giustizia. Quello
della giustizia è infatti uno  dei valori più fortemente affermati
dall'islam: "O voi che credete, praticate la giustizia - dice il Corano
nella Sura IV -  praticatela con costanza, in testimonianza di fedeltà a
Dio, anche a scapito vostro, o di vostro padre, o di vostra madre, o dei
vostri parenti, sia che si tratti di un ricco o di un povero perché Dio ha
priorità su ambedue" (versetto 135).  In un mondo occidentale che perde il
senso dei valori assoluti e non riesce più in particolare ad agganciarli a
un Dio Signore di  tutto, la testimonianza del primato di Dio su ogni cosa
e della sua esigenza di giustizia ci fa comprendere i valori storici che
l'islam ha portato con sé e che ancora può testimoniare nella nostra
società.                                            
4. L'ISLAM IN EUROPA    Una seconda domanda: ci sarà una secolarizzazione
per l'islam in Europa?  La domanda è legittima se si pensa al difficile
percorso del cristianesimo nell'alveo della modernità negli ultimi tre
secoli. Il  confronto tra pensiero moderno razionale, scientifico e
tecnico, tendente all'analisi e alla distinzione dei ruoli e delle
competenze  e la tradizione cristiana uscita dal mondo unitario medievale,
ha segnato un cammino faticoso di cui solo il Concilio Vaticano II  ha
potuto consacrare alcuni risultati armonicamente raggiunti, pur se non
ancora del tutto recepiti. Va emergendo però sempre  più chiaramente che la
fede in un Dio fatto uomo ed entrato nelle vicende umane è una forza che
permette di cogliere anche nel  divenire economico, sociale e culturale, i
segni della presenza di Dio e quindi il senso positivo di un cammino di
fede nell'ambito  della modernità.  Non è pensabile che l'islam in Europa
non si trovi prima o poi ad affrontare una simile sfida. Sappiamo anzi che,
dalla fine della  prima guerra mondiale fino ad oggi, vi sono state molte
proposte, tendenze, partiti, soluzioni secondo le quali il mondo
musulmano, nelle sue diverse ramificazioni, etnie e territori, ha preso
coscienza dell'avvento dell'era della tecnica e delle  esigenze di
razionalità che essa comporta.   Bisogna dire però che fino ad ora la fede
nei grandi "pilastri" dell'islam non sembra aver avvertito in maniera
preoccupante la  scossa derivante dai principi della modernità. Prevalgono
in questo momento le tendenze fondamentaliste, che cercano di  appropriarsi
dei risultati tecnici, ma staccandoli dalle loro premesse culturali
occidentali con la volontà di risolvere, nella linea  della tradizione
antica, tutti i problemi politici e sociali per mezzo della religione.
Non si ammette quindi separazione tra religione e stato, tra religione e
politica, e nell'interpretazione letterale del Corano  vengono cercati
tutti i principî per la risposta agli interrogativi contemporanei, anche
sociali ed economici.  E' difficile prevedere che cosa potrà avvenire in un
futuro più remoto e non è il caso di indulgere a ipotesi azzardate. Sembra
corretto, nel quadro dell'atteggiamento di rispetto che prima abbiamo
richiamato, auspicare e aiutare affinché il trapasso  necessario ad una
assunzione non puramente materiale delle agevolazioni tecniche che vengono
dall'occidente sia  accompagnato da uno sforzo serio di riflessione
storico-critica sulle proprie fonti religiose e teologiche cercando
"quell'armonia  tra la visione filosofica del mondo e la legge rivelata"
(cf. L. Gardet, L'islam e i cristiani, Roma 1988, p. 114), che era già
presente in alcuni dei filosofi arabi conosciuti e utilizzati da san
Tommaso. Dobbiamo adoperarci affinché i musulmani riescano a  chiarire e a
cogliere il significato e il valore della distinzione tra religione e
società, fede e civiltà, islam politico e fede  musulmana, mostrando che si
possano vivere le esigenze di una religiosità personale e comunitaria in
una società democratica e  laica dove il pluralismo religioso viene
rispettato e dove si stabilisce un clima di mutuo rispetto, di accoglienza
e di dialogo.                           
5. L'ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA E IL DIALOGO    Alla luce di quanto fin qui
detto, quale dialogo è possibile oggi e quale deve essere l'atteggiamento
della nostra Chiesa a questo  proposito?
Mi pare opportuna una distinzione tra dialogo interreligioso in generale e
dialogo tra singoli credenti.  Il primo è quello che si svolge a livelli
più ufficiali, tra rappresentanti religiosi di ambo le parti. Esso ha le
sue regole indicate nel  Vaticano II e poi in documenti come le norme edite
dal Segretariato per il Dialogo Interreligioso (in particolare
L'atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni,
1984).   Da noi a Milano esiste la Commissione diocesana per l'Ecumenismo e
il Dialogo; in questo senso lavora anche la Segreteria per  gli Esteri ed è
stato creato recentemente un Centro Ambrosiano di Documentazione per le
Religioni, con attenzione speciale per  il mondo musulmano. Sono pure da
menzionare le presenze di istituti missionari come il PIME che hanno ormai
una lunga  tradizione di conoscenza e di dialogo con queste realtà. Tale
dialogo è riservato piuttosto ai competenti.   Vorrei spendere una parola
per quel dialogo che si svolge a livello quotidiano a contatto con i
musulmani che incontriamo oggi  sempre più frequentemente.  Va tenuto
presente il fatto che non sempre la singola persona incarna e rappresenta
tutte le caratteristiche che astrattamente  designano un credente di quella
religione. Come avviene per i cristiani, così anche per i musulmani non
tutti aderiscono in  pratica e con piena coscienza ai precetti e alle
dottrine prescritte e ciò probabilmente anche a causa dello scarso
retroterra  culturale di molti immigrati di recente.   Il problema non è
tanto di fare grandi discussioni teologiche, ma anzitutto di cercare di
capire quali sono i valori che realmente  una persona incarna nel suo
vissuto per considerarli con attenzione e rispetto. Si potranno trovare,
non di rado, molte più  consonanze pratiche di quanto non avvenga in una
disputa teologica. Ciò vale soprattutto per i valori vissuti della
giustizia e  della solidarietà. Tuttavia questa considerazione individuale
deve sempre tener conto delle dinamiche di gruppo. Infatti l'islam  non è
solo fede personale, bensì realtà comunitaria molto compatta e una parola
d'ordine lanciata da qualche voce autorevole  al momento opportuno può
ricompattare e ricondurre a unità serrata anche i soggettivismi o i
sincretismi religiosi vissuti da un  singolo individuo.  Per quanto
riguarda più in generale l'atteggiamento della nostra Chiesa e le
attitudini che si raccomandano a tutti i nostri  cristiani, vorrei
richiamare brevemente l'attenzione su alcuni punti che derivano dai
principi sopra esposti:
1.Occorre accogliere motivando cristianamente il perché della nostra
accoglienza, dicendolo in una lingua "comprensibile", che è più spesso
quella dei fatti e della carità, dando ai musulmani il senso dello spessore
religioso che pervade la nostra accoglienza.
2.Occorre ricercare insieme un obiettivo comune di tolleranza e di mutua
accettazione. Non mancano per questo testi anche nel Corano. Dobbiamo
sfatare a poco a poco il pregiudizio in essi radicato che i non musulmani
sono di fatto  non credenti. Solo quando ci riconosceremo nel comune solco
della fede di Abramo potremo parlarci con più distensione, superando i
pregiudizi.
3.Dobbiamo far cogliere loro che anche noi cristiani siamo critici verso il
consumismo europeo, l'indifferentismo e il degrado morale che c'è tra noi;
far vedere che prendiamo le distanze da tutto ciò. Data la loro abitudine a
veder legate religione e società e anche in forza delle esperienze storiche
delle crociate, essi tendono a identificare l'occidente col cristianesimo e
a comprendere sotto una sola condanna i vizi dell'occidente e le colpe dei
cristiani. Bisogna far  comprendere che siamo solidali con loro nella
proclamazione di un Dio Signore dell'universo, nella condanna del male e
nella promozione della giustizia.
4.Il dialogo con i musulmani sarà in particolare per noi un'occasione per
riflettere sulla loro forte esperienza religiosa che tutto finalizza alla
riconsegna a Dio di un mondo a lui sottomesso. In questo, il nostro giusto
senso della laicità dovrà       guardarsi dall'essere vissuto come una
separazione o addirittura opposizione tra il cammino dell'uomo e quello del
cristiano.
Vi sarebbe da dire una parola più specifica per le nostre comunità e in
particolare per i presbiteri che le presiedono. Vi sono  due posizioni
errate da evitare e una posizione corretta da promuovere.    Prima
posizione errata: la noncuranza del fenomeno. Il limitarsi a pensare
all'islam come a una costellazione remota che ci  sfiora soltanto di
passaggio o che ci tocca per problemi di assistenza, ma che non avrà
impatto culturale e religioso nelle nostre  comunità. Da tale posizione si
scivola facilmente a sentimenti di disagio e quasi di rifiuto o di
intolleranza.
Seconda posizione errata: lo zelo disinformato. Si fa di ogni erba un
fascio, si propugna l'uguaglianza di tutte le fedi senza  rispettarle nella
loro specificità, si offrono indiscriminatamente spazi di preghiera o
addirittura luoghi di culto senza aver prima  ponderato che cosa significhi
questo per un corretto rapporto interreligioso. Al riguardo saranno
necessarie norme precise e  rigorose, anche per evitare di essere fraintesi.
La posizione corretta è lo sforzo serio di conoscenza, la ricerca di
strumenti e l'interrogazione di persone competenti.  Penso, in particolare,
ai casi molto difficili e spesso fallimentari dei matrimoni misti. Esistono
ormai nell'ambito della diocesi  persone di riferimento, corsi e
specialisti che sono a disposizione. Un supplemento di cultura e di
conoscenza in questo campo  sarà necessario in avvenire, in particolare per
i preti.
  Come è chiaro in quanto abbiamo detto, pensiamo fermamente che il tempo
delle lotte di conquista da una parte e delle  crociate dall'altra debba
considerarsi come finito.   Noi auspichiamo rapporti di uguaglianza e
fraternità e insistiamo e insisteremo perché a tali rapporti si conformi
anche il  costume e il diritto vigente nei paesi musulmani riguardo ai
cristiani, perché si abbia una giusta reciprocità.   Conosciamo i problemi
giuridici e teologici che i nostri fratelli dell'islam hanno nei loro paesi
per riconoscere alle comunità  cristiane minoritarie i diritti che da noi
sono riconosciuti alle minoranze, ma non possiamo pensare che tali problemi
non possano  essere risolti affidandosi a quella conduzione divina della
storia che è vanto dell'islam aver sempre accettato in mezzo a tante
dolorose vicissitudini.  Il nostro atteggiamento vuole in ogni caso
ispirarsi a quello di san Francesco d'Assisi che scriveva nella sua Regola,
al capitolo  XVI: Di coloro che vanno tra i saraceni: "I frati che vanno
tra i saraceni col permesso del loro ministro e servo possono  ordinare i
rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano
liti e dispute, ma siano soggetti ad ogni  creatura umana per amore di Dio
e confessino di essere cristiani. L'altro è che, quando vedranno che piace
al Signore,  annunzino la Parola di Dio e tutti i frati, ovunque sono, si
ricordino che hanno consegnato e abbandonato il loro corpo al  Signore
nostro Gesù Cristo e che per suo amore devono esporsi ai nemici sia
visibili che invisibili".  Nessuna contesa dunque, nessun uso della forza;
esposizione sincera e a tempo opportuno di ciò che credono; accettazione
anche di disagi e sofferenze per amore di Cristo.
6. ANNUNCIARE IL VANGELO DI GESU'    Una quarta e ultima domanda: può la
Chiesa rinunciare ad annunciare il Vangelo ai musulmani?  Occorre fare
anzitutto una distinzione. Altro è infatti l'annuncio, altro è il dialogo.
Il dialogo parte dai punti comuni, si sforza di allargarli cercando
ulteriori consonanze, tende all'azione comune sui campi in cui è  possibile
subito una collaborazione, come sui temi della pace, della solidarietà e
della giustizia.  L'annuncio è la proposta semplice e disarmata di ciò che
appare più caro ai propri occhi, di ciò che non si può imporre né
barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a cui si vorrebbe
che tutti attingessero per la loro gioia.  Per il cristiano il tesoro più
caro è la croce, è il mistero di un Dio che si dona nel suo Figlio fino ad
assumere su di sé il nostro  male e quello del mondo perché noi ne usciamo
fuori.   Non sempre questo annuncio può essere fatto in modo esplicito,
soprattutto nelle società chiuse e intolleranti. E' un caso oggi  non
infrequente in alcuni paesi. Ma pure nei paesi cosiddetti liberi ci si
scontra talora con chiusure mentali così forti da costituire  quasi una
barriera. Allora la proposta assume la forma della testimonianza
quotidiana, semplice e spontanea, e quella della  carità e anche del dono
della vita, fino al martirio. E' il principio sopra ricordato di san
Francesco.  Con questa distinzione riprendiamo dunque la nostra ultima
domanda: può la Chiesa cattolica rinunciare a proporre il Vangelo a  chi
ancora non lo possiede?
Certamente no, come ai musulmani non viene chiesto di rinunciare al loro
desiderio di allargare la umma, la comunità dei  credenti.   Ciò che
conterà sarà lo stile, il modo, cioè quelle caratteristiche di rispetto e
di amore, quello stile di attenzione e di desiderio di  comunicare la gioia
nella pace che è
 proprio di chi accetta le Beatitudini. Questo stile non è senza riscontri
anche nel mondo  dell'islam. Si legge infatti nel Corano: "Chiama gli
uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con
loro  nel modo migliore... pazienta e sappi che il tuo pazientare è solo
possibile in Dio... perciocché Dio è con coloro che lo temono,  con coloro
che fanno del bene" (XVI, 125-127).
Raggiungeremo così tutti anche quell'atteggiamento missionario che ha
caratterizzato il ministero di Ambrogio in mezzo ai  pagani del suo tempo.
7. CONCLUSIONE    Maometto nasce due secoli dopo il tempo di sant'Ambrogio
e non vi è quindi nell'opera del santo nulla che si riferisca  direttamente
al nostro tema, ma è interessante notare che la comunità di Ambrogio era
una comunità religiosamente minoritaria. Due terzi della popolazione che in
quel tempo abitava nella zona di Milano non era cristiana. Eppure "sembra
che a Milano non  esistesse un ministero organizzato per l'evangelizzazione
dei pagani. Nel De officiis ministrorum Ambrogio non dà alcuna  istruzione
ai chierici per il lavoro di conversione dei pagani" (cf. V. Monachino, S.
Ambrogio e la cura pastorale a Milano nel secolo IV, Milano 1973, p. 48).
La via ordinaria per la quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo
era la frequenza libera alla predicazione, aperta a tutti, i colloqui con
il vescovo, come nel caso di Agostino, e specialmente il contatto con i
cristiani e la loro condotta esemplare.   Ambrogio poneva la sua cura nel
far progredire la comunità cristiana come tale; per mezzo di essa, e non
con un ministero  organizzato, avveniva l'influsso sui pagani.
Non dunque un proselitismo invadente, bensì l'immagine di una comunità
plasmata dal Vangelo e dall'Eucaristia, zelante nella  carità, libera e
serena nel suo impegno civile quotidiano, coraggiosa nelle prove, sempre
piena di speranza.   E' questa la nostra forza principale oggi, in un mondo
secolarizzato, e questa forza è quella delle origini, quella della Chiesa
di  sant'Ambrogio e della Chiesa dei giorni nostri.
Card. Carlo Maria Martini
Milano - 6 dicembre 1990

Questo testo del Card. Carlo Maria Martini - Arcivescovo di Milano - è
stato tratto da INTERNET, nel sito di "RETEBLU" con indirizzo:
http://www.reteblu.org/dialogo.html

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