rassegna stampa: Il bene comune della Terra



a cura di AltrAgricoltura Nord Est
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In marcia sulle vie ribelli alla razzia dei saperi.
Intervista a Vandana Shiva di Tommaso Rondinella e Duccio Zola,
tratta da “il manifesto”, 29 settembre 2006

Quando inizia a parlare Vandana Shiva le sue parole hanno il tono pacato
dell'argomentazione. Ma quando arriva al cuore della sua riflessione, il
timbro di voce diventa più imperioso, come chi è talmente sicura di ciò che
sta sostenendo che deve dirlo con forza e foga. Laureata in fisica
quantistica e in economia, ricercatrice per molti anni, Vandana Shiva fa
parte di quegli “scienziati dai piedi scalzi” che a un certo della loro vita
hanno lasciato i laboratori per verificare gli “effetti collaterali”, cioè
le conseguenze delle loro ricerche e scoperte. Per questa indiana nata in
uno stato nel nord dell'india, il punto di svolta è stato quando si è
imbattuta in un progetto della Banca mondiale che aveva distrutto l'economia
locale di una regione indiana.
Da allora, infatti, ha abbandonato la ricerca scientifica per dare vita nel
1982, assieme ad altri ricercatori, al “Centro per la Scienza, Tecnologia e
Politica delle Risorse Naturali”. Il primo risultato della sua nuova
attività di sudiosa è condensato dal libro Sopravvivere allo sviluppo . Da
allora ha pubblicato molti saggi, tutti estremamenti critici verso la
“globalizzazione neoliberista”, di cui vanno ricordati Biodiversità,
biotecnologie e agricoltura scientifica, Biopirateria. Il saccheggio della
natura e saperi locali, Vacche sacre e mucche pazze, Il mondo sotto brevetto
e Le guerre dell'acqua (Feltrinelli).
In Italia per un ciclo di conferenze - è stata ospite del forum della
campagna “Sbilanciamoci” e ha partecipato alla rassegna Torino
Spiritualità - abbiamo incontrato Vandana Shiva e con lei abbiamo parlato
del suo ultimo libro: "Il bene comune della Terra".

Nel tuo libro descrivi la relazione tra questo modello di globalizzazione
economica e il diffondersi di terrorismi e fondamentalismi. Puoi illustrarci
questo legame?
Ciò che cerco di evidenziare sono i percorsi che generano una cultura di
“sfruttabilità”, basata sul poter disporre di tutto e tutti perché a ogni
cosa e a ognuno è assegnato un prezzo. Questa condizione, economica e
culturale allo stesso tempo, cambia il modo in cui pensiamo l'uno all'altro
e in cui ci mettiamo reciprocamente in relazione, ed è all'origine di
innumerevoli conflitti. Essa favorisce l'affermazione di “identità in
negativo”, basate su un atteggiamento escludente, che rifiuta l'altro.
Questo modello di sviluppo che nega diritti, marginalizza ed espropria è
alla radice di fondamentalismo e terrorismo. Innesca una processo che non è
insito in nessuna cultura, ma che si alimenta quando vengono create persone
“usa e getta”. Per fare un esempio, la crescita indiana che si legge sui
giornali di tutto il mondo nasconde espropri di terra mai visti prima. E la
terra sequestrata è quella dei piccoli contadini, dei più poveri. Le terre
vengono poi acquistate a prezzi irrisori dalle grandi compagnie
transnazionali, che così possono produrre a prezzi stracciati. Questo sta
causando massicce migrazioni verso le città, dove le popolazioni sradicate,
senza terra né lavoro, si aggiungono alle masse di disperati che affollano
le periferie, causando un aumento dell'instabilità.

Da tempo sostieni la necessità di un controllo diretto sulle risorse e sui
beni comuni attraverso una “localizzazione dell'economia” e una
ridefinizione dei confini della democrazia. Cosa implica sul piano politico
questa concezione?
Rispetto alla mia idea di democrazia, il modello neoliberista di
globalizzazione non è altro che il dominio di istituzioni sovranazionali non
democratiche e ostaggio di poche, potentissime multinazionali. La distanza è
un fattore che isola. Ecco perché la pratica della localizzazione, del
mettere al centro gli interessi e le legislazioni locali, riveste
un'importanza fondamentale. La localizzazione permette di assicurare
giustizia e sostenibilità. Ciò non significa che ogni decisione debba essere
presa a livello locale, ma che debba essere discussa e approvata anche a
livello locale: le decisioni migliori si prendono laddove il loro effetto
può essere percepito più chiaramente.
E' importante sottolineare che questo principio costituisce un imperativo
ecologico. Le crisi ambientali che affliggono il nostro pianeta derivano da
un disconoscimento del ruolo delle risorse naturali. Per risolvere queste
crisi è necessario che le comunità locali recuperino il controllo delle
proprie risorse per costruire un'economia sostenibile. Riconquistare i beni
comuni comporta dunque la necessità di poter esercitare un controllo sulla
gestione statale delle risorse, delle decisioni e delle politiche di
sviluppo economico. Ma al tempo stesso è necessario riprendere possesso
delle risorse privatizzate dalle multinazionali attraverso gli accordi del
Wto e i programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del
Fondo Monetario.

Nel tuo ultimo libro denunci l'esistenza di un genocidio ai danni di donne e
piccoli agricoltori...
In India mancano all'appello 36 milioni di donne a causa dell'aborto
selettivo praticato sui feti femminili. Nel mondo la cifra raggiunge i
sessanta milioni. Il feticidio è la diretta conseguenza dell'esclusione
delle donne da un sistema produttivo basato sull'agricoltura industriale,
sul consumismo, sulla mercificazione di ogni aspetto della vita umana.
Questo avviene nelle regioni agricole, ma soprattutto nelle zone urbane o
suburbane. A Dehli troviamo il più alto tasso di alfabetizzazione e i
redditi più elevati di tutta l'India, e allo stesso tempo il maggior numero
di violenze sulle donne, a partire da stupri, molestie sessuali e morti per
dote. Il censimento del 2001 registra a Dehli 140 mila bambine sotto i sei
anni in meno rispetto alle tendenze demografiche.
Parallelamente, lo sviluppo dell'agricoltura industriale, basata su
costosissime tecnologie, sul massiccio impiego di fertilizzanti e pesticidi
chimici, e sull'imposizione delle sementi geneticamente modificate, causa il
fallimento dei piccoli agricoltori incapaci di sostenere i costi e la
concorrenza di questi metodi. Solo nel 2004, 16.000 contadini si sono tolti
la vita in India. I suicidi dei contadini poveri derivano
dall'indebitamento, provocato dall'aumento dei costi di produzione e dal
crollo dei prezzi dei prodotti agricoli. I suicidi sono l'esito inevitabile
di una politica agricola che protegge gli interessi del capitalismo globale
e ignora quelli dei piccoli agricoltori. Per questo io non parlo di suicidi,
ma di genocidio.

La rete contadina Navdanya, che hai fondato e che coordini, si propone come
un'alternativa per i piccoli contadini indiani minacciati dalle
multinazionali del settore agroalimentare. Quali sono le vostre pratiche e i
vostri obiettivi?
Navdanya significa “nove semi”, un nome che evoca la ricchezza della
diversità e il dovere di difenderla di fronte all'invasione delle
biotecnologie e delle monoculture dell'agricoltura industriale. Insieme ai
brevetti che monopolizzano i diritti sulla proprietà intellettuale
introdotti dal Wto, dalla convenzione sulla biodiversità e da altri accordi
commerciali, le biotecnologie riducono la diversità delle forme di vita al
ruolo di materie prime per l'industria e i profitti. I semi geneticamente
modificati intrappolano i piccoli agricoltori in una gabbia di debiti e
menzogne. Per questo li chiamo “semi del suicidio”. Essi sono resi sterili
in modo tale che non possano riprodursi e debbano venire acquistati dai
contadini ogni anno a caro prezzo. I brevetti dei semi sono di proprietà di
multinazionali come la Monsanto, che in questo modo si appropriano della
fonte di vita e dei diritti di due terzi dell'umanità.
Per far fronte a questa situazione Navdanya, che oggi conta quasi 300 mila
agricoltori, ha creato delle economie locali alternative che controllano i
processi di produzione e distribuzione degli alimenti e tutelano i
produttori locali. I contadini della rete adottano coltivazioni biologiche
differenziate che proteggono la fertilità dei terreni e la biodiversità,
evitando l'uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. In questo modo si
migliora la produttività e l'apporto nutritivo dei raccolti, recuperando
anche il 90% dei costi di produzione. Le entrate sono tre volte superiori a
quelle degli agricoltori che si servono di prodotti chimici, non vengono
prodotti rifiuti tossici e danni alla biodiversità. Inoltre, il sistema di
commercio equo che regola la distribuzione dei prodotti ci protegge dalla
insicurezza dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Coltivazione
organica e commercio equo offrono invece sicurezza sul piano delle scelte
alimentari, della salute e della stabilità. In questo modo tutti -
agricoltori, ambiente e consumatori - ricavano un grande beneficio.

Di fronte a una situazione così grave, riesci a indicare una possibile via
d'uscita?
Cento anni fa in Sudafrica, Gandhi rifiutò la segregazione razziale,
affermando il diritto di non obbedire a leggi ingiuste. La disobbedienza
civile implica la scelta della nonviolenza e della non cooperazione
pacifica. Credo che anche oggi questa sia la strada da seguire, a cominciare
dalla resistenza alla brevettazione dei semi indiani. In India è in
discussione una legge che potrebbe portare alla proibizione dell'utilizzo di
sementi proprie da parte dei contadini. Sementi che da migliaia di anni
vengono conservate e trasmesse - di generazione in generazione e di raccolto
in raccolto - verrebbero così bandite per far posto alla commercializzazione
di semi prodotti nei laboratori di multinazionali come la Monsanto, e
venduti a caro prezzo. Noi sappiamo che le varietà di sementi indigene,
conservate e selezionate localmente, rappresentano la nostra garanzia
ecologica ed economica, perché sono in grado di adattarsi perfettamente alle
condizioni climatiche e geologiche delle diverse regioni indiane. Non si
possono criminalizzare centinaia di milioni di piccoli agricoltori che non
sono disposti a sottomettersi al modello agricolo imposto dalle
multinazionali. Per conquistare la nostra libertà economica e politica è
necessario guardare ancora una volta a Gandhi, alle sue idee di autogoverno
e autoproduzione locale.

Nei tuoi interventi dimostri sempre come sia possibile rimpossessarsi dei
beni comuni, attraverso degli esempi concreti. Come quello della
mobilitazione contro la Coca Cola in Kerala...
Un esempio che dimostra le possibilità di vittoria da parte del movimento
democratico globale. La lotta ha avuto inizio nel 2000 dalle donne di
Plachimada, un piccolo villaggio del Kerala sede di uno stabilimento della
Coca Cola. Uno stabilimento che era arrivato a consumare un milione e mezzo
di litri d'acqua al giorno e a produrre siccità in tutta l'area circostante,
da sempre ricca di acqua. A questo si deve aggiungere l'inquinamento
prodotto dagli scarti produttivi e la contaminazione dei terreni. Le donne
hanno cominciato ad assediare i cancelli dello stabilimento, a organizzare
manifestazioni e sit-in, coinvolgendo tutte le comunità della regione. Si è
così deciso di ricorrere all'Alta Corte di Giustizia del Kerala. Che ha dato
ragione alle donne di Plachimada, con una storica sentenza che sostiene il
carattere di bene pubblico dell'acqua: nel 2004 il governo regionale è stato
costretto a chiudere lo stabilimento. Questo ha prodotto una moltiplicazione
delle lotte in tutta l'India, e la formazione di una campagna nazionale di
boicottaggio nei confronti di Coca Cola e Pepsi. Ad oggi più di cinquecento
tra villaggi, scuole e università e si sono dichiarate “Coca Cola e Pepsi
Free”. Questa vicenda dimostra ciò che Gandhi ci ha insegnato: solo
prendendo coscienza delle nostre responsabilità si possono ottenere i
diritti, solo iniziando a vivere liberamente si può ottenere la libertà.
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