ancora sulla "carne"



Carissimi,
mi spiace per chi chiede di essere cancellato dalla lista. Basterebbe invece 
cancellare le mail che non interessano o - se proprio si vuole - sospendere 
temporaneamente dalla propria casella le missive provenienti dalla mailing 
list con un semplice comando da "opzioni".
Io trovo interessante la discussione, purché non si riduca ad un dialogo a due.
Qui di seguito alcune osservazioni aggiuntive.



Sulla questione del consumo alimentare di carne, così come sui diritti degli 
animali – problematiche l’un l’altra connesse – esiste un’ampia letteratura, 
in parte frutto di ricerca scientifica. Il bel libro di Jeremy Rifkin, 
Ecocidio (Mondadori, Milano, 2001), offre un’ampia rassegna degli studi e 
della produzione letteraria in merito. Aspetti economici, medici, ecologici ed 
etici vengono esaminati e messi a confronto per trarne una conclusione logica 
e convincente. Riporto – al proposito – le prime e le ultime righe del libro:
“Attualmente il nostro pianeta è popolato da un miliardo e 280 milioni di 
bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24 per 
cento della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente 
a sfamare centinaia di milioni di persone. Il peso complessivo di questi 
animali supera quello dell’intera popolazione umana.
Il continuo incremento della popolazione bovina sta sconquassando l’ecosistema 
terrestre, distruggendo l’habitat naturale di sei continenti; l’allevamento di 
bovini è la principale causa della distruzione delle sempre più ridotte aree 
di foresta pluviale rimaste sulla terra. (…) Il pascolo eccessivo in aree 
aride o semiaride ha creato deserti sterili e desolati in quattro continenti. 
(…) I bovini sono anche responsabili di buona parte del riscaldamento globale 
del pianeta…” (Introduzione, p. 11)
“ Eliminando la carne dalla dieta umana, la nostra specie può compiere un 
significativo passo in avanti verso una nuova consapevolezza, che contempli 
uno spirito di comunione con i bovini e, per estensione, con le altre creature 
viventi con cui condividiamo il pianeta.”  (ca. XL, Oltre la carne, p. 326).

Dati aggiornati sul consumo di carne e sul parallelo impiego di cereali per 
l’alimentazione del bestiame ci sono offerti da Norman Myers e Jennifer Kent, 
in I nuovi consumatori (Edizioni Ambiente, Milano, 2004) in particolare nel 
capitolo 3 intitolato “Carne: bistecche appetitose e costi nascosti”. Gli 
autori evidenziano il preoccupante aumento del consumo di carni che dai paesi 
opulenti (ad es. gli Stati Uniti) va estendendosi ai “nuovi consumatori” (ad 
es. della Cina).  “Un chilogrammo di carne bovina prodotta in feedlot 
(ambiente confinato per l’allevamento intensivo, ndr) può richiedere 7 kg. di 
cereali, quella di maiale 4 kg. e quella di pollo 2 kg., il che rende la carne 
bovina molto più costosa delle altre. Il rapporto fra carne e cereali indica 
che il feedlot è un metodo molto inefficiente per produrre proteine. Un campo 
di un ettaro a cereali produce 5 volte più proteine dirette che proteine 
indirette attraverso l’allevamento. Il manzo contenuto in un hamburger 
equivale grossomodo a cinque filoni di pane.” (p.60) Al di là delle 
conseguenze ambientali dell’allevamento e dell’insensatezza economica, sotto 
il profilo sociale l’incremento del consumo di carne significa che “grandi 
quantitativi di cereali per il bestiame si traducono in una diminuzione di 
cereali per le popolazioni povere”. (p.61). L’ingiustizia sociale che deriva 
dal modello di produzione, di distribuzione e di consumo della carne è 
evidente anche se si considerano le implicazioni per l’acqua. “L’acqua usata 
per produrre una bistecca da 2,5 etti può eguagliare quella necessaria al 
fabbisogno domestico quotidiano di una famiglia americana. Un americano ricco 
consuma più di una tonnellata annua di cereali (un vegetariano ne consuma 
all’incirca 200 kg., ndr), e i quattro quinti di questo quantitativo vengono 
consumati in forma di cibi di origine animale. Una dieta che prevede carne 
quasi tutti i giorni della settimana richiede due volte l’acqua della 
alimentazione standard di un  paese in via di sviluppo.(…) Eliminare anche un 
solo pasto di carne di manzo alla settimana porta a un risparmio di oltre 
150.000 litri di acqua l’anno.” (pp. 63-64). La correlazione tra consumo di 
carne ed insostenibilità dell’impiego conseguente di acqua è evidente e – come 
oggi sappiamo – l’acqua non è una risorsa illimitata, al contrario la sua 
crescente scarsità costituisce uno dei principali problemi del nuovo millennio 
e molti prevedono che l’accesso all’acqua sarà fonte di conflitti al pari di 
quelli odierni per il petrolio. Attualmente “l’indiano medio mangia meno di 5 
kg. di carne l’anno, i cinesi hanno un consumo di 50 kg. e gli statunitensi di 
122 kg.” (p. 108): se il modello di consumo di carne dei nostri paesi 
occidentali si estendesse a Cina ed India – che si avviano ad essere l’una la 
fabbrica del mondo e l’altra il suo laboratorio tecnologico – sarebbe una 
catastrofe globale, con il perverso esito di mettere “a rischio le condizioni 
di alimentazione di tutta la popolazione, sia ricca che povera”. (p.109)

Molte indagini di etnografi, antropologi, storici ed anche biologi mostrano 
come il consumo di carne abbia relativamente poco a che fare con le esigenze 
alimentari degli esseri umani. D’altro canto la diffusione interclassista e 
quotidiana di questa abitudine alimentare è un fenomeno molto recente.  Craig 
B. Standford, nel suo libro Scimmie cacciatrici (Longanesi, Milano, 2001) 
mostra come il regime carnivoro all’origine del comportamento umano sia un 
fatto sociale, piuttosto che una esigenza alimentare, e come un simile 
comportamento sia rintracciabile anche nelle società dei primati (in 
particolare nelle scimmie antropomorfe, nei bonobo) come caratteristica delle 
relazioni di dominio dei maschi sulle femmine. Scrive Standford: “Nelle 
società umane ed in quelle di alcuni primati, il consumo di carne ha a che 
fare non solo con la nutrizione, ma anche con la politica. Il controllo di una 
risorsa a cui viene attribuito un valore ha a che fare con il potere. Quando i 
due sessi sono coinvolti nella lotta per il potere, spesso quello fisicamente 
dominante monopolizza una risorsa, e attraverso quella controlla anche la 
riproduzione femminile. La politica sessuale ha un ruolo essenziale nel 
consumo di carne fra gli scimpanzé, proprio come lo ha in alcune società 
tradizionali umane.” (p.207) “Il fatto che, pur costituendo una piccola parte 
della dieta, essa (la carne, ndr.) sia tanto ambita è una testimonianza molto 
convincente della sua importanza come valuta sociale.” (p.208)  Ma non sono le 
qualità alimentari e nutrizionali della carne che ne fanno un bene altamente 
valutato. Secondo Standford il modo di considerare la carne è probabilmente 
legato alla difficoltà nel procacciarsela ed al fatto che questa sia 
controllata solo da un sesso, solitamente i maschi-cacciatori.

Nel bel libro The Sexual Politics of Meat (Continuum Publishing Company, New 
York, 1990), Carol Adams osserva come in molte società le donne consumino una 
dieta principalmente vegetariana, mentre gli uomini consumano più carne. 
Nell’analizzare la distribuzione della carne e del potere nelle società umane 
in termini storici, Adams sottolinea che quando i maschi controllano una 
risorsa come la carne, alla quale perciò viene attribuito un grande valore, la 
sua importanza nutrizionale diventa in larga misura questione di mito. Tuberi 
e legumi assicurano una dieta ugualmente ricca di proteine, ma la carne – 
associata alla cattura di prede – assume un valore mitico che affonda nei miti 
patriarcali (piuttosto che nella realtà) e giustifica il dominio maschile 
sulle donne, sui bambini e sul mondo. D’altro canto lo stesso Standford 
osserva che “probabilmente le donne raccolgono la maggior parte delle proteine 
presenti nella dieta del cacciatore-raccoglitore; tuttavia – aggiunge – non 
dovremmo ignorare che gli uomini sono in grado di usare la carne per i propri 
fini egoisti e manipolativi.” (cit., p. 218)

Numerosi sono poi gli studi che stabiliscono nella caccia e nell’attitudine 
del cacciatore ad uccidere l’ origine della guerra. L’antropologo Claude 
Meillassaux, studioso di etnie africane, mette in relazione la caccia, il 
mercato delle donne e la guerra (che inizialmente è, a sua volta, conquista di 
donne al nemico). Così egli scrive in Donne, granai e capitali (Zanichelli, 
Bologna, 1978): “Quando la caccia occupa un posto decisivo nella 
organizzazione sociale, le tecniche ad essa relative, che sono le meglio 
conosciute tendono ad essere impiegate per correggere la ripartizione 
aleatoria delle donne, con la differenza tuttavia che, dal momento che le 
donne non sono degli animali ma degli esseri umani incorporati in strutture 
sociali complesse che ne assicurano la protezione, bisogna, se si vuole 
impadronirsi di esse, usare tattiche diverse: il cacciatore, affrontando non 
più degli animali, ma altri esseri umani, diventa guerriero.” (p. 37)

Il fatto che cibarsi di carne implichi l’uccisione di un essere vivente non è 
tuttavia senza conseguenze sulla coscienza che gli esseri umani hanno di se 
stessi e del mondo che li circonda. L’uccisione finalizzata alla soddisfazione 
di bisogni alimentari è spesso stata anticamente vissuta come un atto sacro, 
in base al quale una vita è mangiata affinché un’altra vita possa continuare. 
Graffiti rupestri e testimonianze archeologiche mostrano rituali mistici che 
accompagnano simili pratiche, che assumono quindi un carattere eccezionale e 
gli stessi animali delle specie uccise sono oggetto di ringraziamento.


A risentirci, spero


Osvaldo



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Osvaldo Pieroni
Presidente corsi di Laurea in DES
Scienze Sociali per lo sviluppo la Cooperazione e la Pace
Università della Calabria
87036 Arcavacata di Rende
0984 492565

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