Giustizia e reciprocità



Giustizia e reciprocità
di
Ernesto Galli della Loggia

Si possono muovere almeno tre ordini di obiezioni all’importante discorso tenuto ieri dal cardinal Raffaele Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, sui rapporti con il mondo islamico. Un discorso, vogliamo dirlo subito, ispirato a un discutibile irenismo e le cui proposte, se accolte, provocherebbero certo più danni e problemi che benefici. Ma ciò non vuole dire che non si tratti di un discorso importante dal momento che di sicuro esso riflette posizioni largamente diffuse sia nel mondo cattolico sia, con declinazioni in parte diverse, in quello laico. Il primo ordine di obiezioni riguarda la stessa premessa storico-causale, per così dire, della posizione espressa dal cardinale: «Solo il dialogo e la libertà religiosa - egli ha affermato - possono evitare il fondamentalismo: sia quello politico-laico che quello religioso».
Dunque la ragione per cui ci troviamo di fronte all’ondata fondamentalista attuale starebbe in null’altro che nel fatto che vi è stato finora troppo poco dialogo e troppo poca libertà religiosa. Se ce ne saranno di più, eviteremo il fondamentalismo. Il minimo che può dirsi, mi pare, è che si tratti di un’analisi approssimativa fondata più sull’ideologia che sui fatti. Davvero c’era una scarsa libertà religiosa nell’Inghilterra in cui sono cresciuti i giovani fondamentalisti (con passaporto britannico) che poi avrebbero fatto saltare in aria la metropolitana e i bus di Londra nel luglio scorso? Davvero è a causa della nota chiusura al dialogo delle chiese cristiane olandesi, e della conseguente soffocante cappa di conformismo religioso, che alcuni giovani islamici di quel Paese si sono sentiti in dovere di ammazzare Pim Fortuyn e Theo Van Gogh?
Il secondo ordine di obiezioni riguarda le modalità del rapporto con l’islam. «Se attendiamo la reciprocità nei Paesi rispettivi dove ci sono cristiani - ha sostenuto il cardinale secondo l’agenzia Ansa - allora ci dovremmo mettere sullo stesso piano di quelli che negano questa possibilità». Insomma, niente reciprocità: gli islamici a casa loro facciano pure dei cristiani ciò che gli piace, noi non faremo dipendere in nulla il nostro comportamento da loro. Ora è certissimo che mai e poi mai l’intolleranza altrui potrebbe giustificare la nostra, ma da qui a teorizzare l’irrilevanza della reciprocità, come mi sembra faccia il cardinale Martino, ce ne corre. Specialmente se si pensa che egli sovrintende a un organo della Chiesa che si intitola, oltre che alla pace, alla giustizia. Ma la giustizia - la giustizia umana, non quella di Dio - non ha forse qualcosa a che fare con la reciprocità? Si può definire giusta una situazione che preveda una stabile disparità di trattamento? E una pace fondata sulla prepotenza e la persecuzione degli uni e la tolleranza e la remissività degli altri, merita davvero il nome di pace o non piuttosto qualche altro nome? La migliore risposta, come sempre, la dà il senso comune.
Vengo infine alla terza e più impegnativa affermazione di Martino. «Se in una scuola ci sono cento bambini di religione musulmana - ha detto - non vedo perché non si possa insegnare la loro religione. Questo è il rispetto dell’essere umano, e il rispetto non deve essere selezionato». Apparentemente non fa una grinza, ma i principi sono principi e devono essere applicati perché tali: allora bisognerà dire che non solo cento bambini ma dieci, cinque, un bambino di religione musulmana ha il diritto anch’esso a un apposito insegnamento di religione nell’orario scolastico. Ma quanti insegnanti saranno necessari? E poi naturalmente nessuno vorrà negare che non solo i bambini islamici hanno diritto a un insegnamento religioso ma anche quelli di religione buddhista, di religione confuciana, zoroastriana, anche i bambini figli di Testimoni di Geova o magari degli adepti a Scientology. Perché no? E se no, qual è il criterio di esclusione - beninteso, in armonia con i principi di tolleranza e di dialogo religioso, nonché con il principio di uguaglianza - che lo Stato italiano potrebbe nel caso adottare?
Naturalmente non spero certo che il presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace vorrà rispondere a qualcuna delle domande sopra riportate. Se mai lo facesse sarebbe certo una meritoria rottura di quella tradizione delle gerarchie cattoliche che spesso si mostrano alquanto noncuranti degli aspetti pratici delle questioni che affrontano, accampando il motivo che di questi aspetti deve occuparsi la politica, cioè i laici. Ma a parte ciò, e per concludere, mi sembra che le parole del cardinale Martino configurino su un insieme di questioni importantissime una posizione nettamente antitetica a quella ormai più volte delineata, e con forza, da Benedetto XVI. Si può dire anzi che quelle parole costituiscono in filigrana un vero e proprio manifesto antiratzingeriano: e anche come tali, dunque, esse si segnalano alla nostra attenzione. Se però dietro di esse ci sia solo uno stato d’animo o un pensiero personali, o se invece esse nascondono scontentezze più ampie e profonde, almeno al nostro sguardo e almeno a oggi è impossibile capire.
10 marzo 2006