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La mia Africa delle donne



La mia Africa delle donne unica speranza contro la paura
Mentre gli uomini fanno la guerra, loro riforniscono i villaggi d' acqua e
coltivano i campi. Unite, lottano per non veder più morire i propri figli
Dacia Maraini

http://www.libreriadelledonne.it/news/articoli/Corsera070103.htm

NAIROBI - Avevo promesso a me stessa di non tornare in Kenya a visitare i
miei amati elefanti finché le guerre distruttive non fossero finite e finché
l' Aids non avesse lasciato quei territori. Come indulgere al piacere di
osservare gli ultimi animali selvatici, in un Paese che ha il venti per
cento di sieropositivi? Sono anni infatti che non andavo più in Africa. Ma
l' invito a un incontro con un gruppo di donne africane (del Kenya, del
Sudan e della Somalia), mi ha convinta.
L' Alitalia ha cancellato i voli diretti per il Kenya e quindi bisogna fare
un giro lungo: Roma-Amsterdam, o Roma-Londra e poi giù verso Nairobi. Anni
fa si arrivava in poco più di cinque ore. Oggi ce ne vogliono una dozzina, e
c' è pure il rischio di perdere il bagaglio per strada come è successo a me
all' andata.
Nairobi, che io ricordavo come una città pacifica ed elegante, è diventata
pericolosa e sporca. Il centro della città in certe ore del giorno è
infrequentabile, si rischia la rapina: «Un coltello puntato sul collo, ti
frugano rapidamente e ti portano via tutto, compresi gli spiccioli, l'
orologio da polso, anche se vecchio», racconta Elio Traina, il direttore
dell' Istituto italiano di Cultura che coraggiosamente sfida i pericoli per
portare avanti un intenso programma di scambi culturali fra l' Italia e il
Kenya.
I ricchi si barricano nelle loro ville con tanto di fili spinati, muri
coperti di cocci, ronda di cani e servizio armato notte e giorno. Solo i
parchi con gli animali selvatici sono ancora delle oasi di pace. E' lì che
si concentra la valuta straniera. E vengono ben protetti. I turisti,
appesantiti da macchine da presa e macchine fotografiche di tutte le forme,
se ne vanno in giro chiusi dentro vecchie Land Rover, spiando l' arrivo di
un gruppo di leoni, di una mandria di elefanti. Gli animali non sentono l'
odore degli umani - per una volta chiusi in gabbia come in uno zoo - e
tranquillamente passeggiano, amoreggiano, cacciano, nella pienezza della
loro intelligente e necessaria semplicità vitale. Osservare una ventina di
elefanti che scende lentamente verso la riva del fiume per fare il bagno in
un tripudio di spruzzi, di barriti; spezzando rami e foglie, affondando le
gigantesche zampe nel fango, è una esperienza straordinaria. La leggerezza
di questi corpi massicci e pesanti nello stesso tempo stupisce e meraviglia.
Gli esseri umani, dentro le loro scatole di latta, perdono la loro
centralità dominante, diventando per una volta invisibili e inoffensivi. Al
di là dei finestrini, le gazzelle saltano, le giraffe fanno capolino dietro
i cespugli ruminando foglie di acacia, gli scimmioni dal sedere lilla
corrono emettendo grida di allegria. La sensazione è di essere capitati,
clandestinamente, in un paradiso arcaico, lontanissimo nel tempo, prima
della cacciata di Adamo ed Eva. Un paradiso sospeso nel vuoto di una memoria
fuori dal cervello umano. Certamente una esperienza anche dolorosa, che ti
rammenta come la natura sia indifferente all' uomo. Ti viene il sospetto che
perfino il Padre eterno sia ormai incurante della sorte delle sue creature,
perdute dietro mercati e guerre, dopo la cacciata dal paradiso terrestre.
Quel paradiso che ora vorremmo ricostruire, con le sparute bestie selvagge
che sono state risparmiate dalla grande carneficina. Ma quale Noè potrà
salvare quelle meravigliose creature dal diluvio tecnologico?
La professoressa Giovanna Domenichini ha organizzato per me un incontro con
gli studenti dell' università. Sono ragazzi privilegiati, che hanno avuto
modo di studiare, ma non per questo sono ricchi. Portano con dignità i loro
vestiti lisi, i loro libri tenuti insieme dalla colla fatta in casa e da
infiniti pezzi di scotch. Parliamo di romanzi, di storie. Ma vedo che si
fanno particolarmente attenti quando mi interrogo sulla funzione dello
scrittore nel tempo in cui vive: un testimone? Una coscienza inquieta? Una
voce di dissenso? Uno spirito critico? Uno che dice la verità quando altri
non possono dirla? Oppure semplicemente si tratta di una persona che coltiva
il suo orticello di parole preziose, puntando sulla propria capacità
visionaria e precorritrice? In luoghi dove prevalgono la povertà e la paura
certamente lo scrittore è visto come qualcuno che ha il dovere e il
privilegio di parlare per chi non può farlo. «Se scoppia una guerra vicino a
lui, lo scrittore che fa? Ne scrive? O le sue fantasie, quando sono profonde
e creative, bastano a nutrire l' immaginazione dei lettori del suo tempo,
senza alcun riferimento ai fatti che travagliano gli animi di chi vive loro
accanto?». Sono domande a cui è difficile rispondere. Ma l' attenzione di
questi ragazzi testimonia una gran voglia di crearsi degli strumenti per
giudicare il mondo, ma anche per cambiarlo in meglio. Il teatro qui è visto
nel modo antico, come il luogo nudo in cui si scontrano le ragioni del
dovere con quelle del piacere. E a teatro ci ritroveremo per leggere poesie
in swahili, in inglese e in italiano. Nello stesso teatro due sere dopo,
assisteremo a una versione inglese del vecchio testo di Dario Fo, qui
tradotto come A woman alone, in cui una massaia (me la ricordo interpretata
da una bravissima Franca Rame) racconta alla vicina di casa le comiche
infelicità di una condizione femminile di sudditanza e di schiavitù.
Il Kenya non è in guerra, e anzi pratica una difficile e coraggiosa
democrazia, ma confina con Paesi che stanno combattendo guerre di anni, che
hanno prodotto morti infinite, torture, abusi, violenze, stupri,
devastazioni di ogni genere... Molti di questi popoli in fuga si rifugiano
nel Paese degli altipiani e trovano scampo in qualche baraccopoli senza luce
e senza fogne, dove regna l' arbitrio più assoluto, la legge del più forte.
Io stessa ho assistito, durante una visita al devastato quartiere di Kibera,
per incontrare i ragazzi che Thomas Simmons dell' Amref e Marco Baliani
stanno aiutando a uscire dalle logiche della guerra, a una battuta punitiva
di uomini armati di bastoni, contro donne giovani e vecchie che avevano il
torto di appoggiare l' opposizione. Altri, tantissimi, vanno a finire nei
campi appositamente creati per i profughi, dove la vita è così promiscua,
primitiva e infelice che il numero dei suicidi è continuamente in crescita.
Gli italiani stanno dando una mano, anche sul piano istituzionale, per
trovare qualche rimedio alle guerre senza fine del Sudan, della Somalia,
attraverso gli esuli che si trovano qui in Kenya. E questa è una buona
notizia. Assieme con alcuni missionari, i rappresentanti del nostro Paese,
una volta tanto sono accolti con fiducia e simpatia, perché hanno trovato le
parole per parlare concretamente di pace. L' invito a incontrarmi con le
rappresentanti delle profughe sudanesi e somale viene da Domenico Polloni,
osservatore italiano del processo di pace per il Sudan, che conosce bene la
situazione, vive qui da anni e ha buoni rapporti con le organizzazioni
pacifiste africane.
Sono una decina di donne fra somale, sudanesi e keniote. Alcune più giovani,
altre meno giovani, ma tutte combattive, intelligenti e, lo si vede
chiaramente, spazientite dalla loro impotenza. Cosa fare per affrontare le
prepotenze dei «Signori della guerra», come loro stesse chiamano coloro che
approfittano delle rivalità claniche per arricchirsi rapidamente seminando
terrore e odio? Alcune arrivano ad augurarsi un intervento armato dell' Onu.
Con noi ci sono anche il professor Carlo Ungaro, inviato speciale del
Governo italiano per la Somalia e Marion Douglas, la sua combattiva moglie
americana, che spiegano cosa hanno significato per questi Paesi poveri anni
e anni di guerra civile. «La popolazione è diventata ostaggio di bande di
uomini armati che fanno solo i propri interessi, non tirandosi indietro di
fronte a qualsiasi violenza. Non ci sono ragioni ideologiche dietro questi
scontri ma problemi di prevalenza di clan opposti. Sono loro che mettono in
mano ai bambini le armi, per farne dei guerrieri obbedienti e spericolati.
In tutto questo le donne hanno una funzione fondamentale: portano avanti le
strutture economiche di una società completamente spappolata». Spesso
assicurano il minimo di istruzione nelle zone devastate dalla guerra,
improvvisando piccole scuole rudimentali. Ma sono talmente denutrite che al
primo assalto di una malattia, soccombono. Soffrono di cataratta precoce, di
emorragie, di aborti spontanei, di tubercolosi. Le bambine sono costrette a
sposarsi prestissimo, anche a undici, dodici anni, per portare una dote,
anche piccola, di due o tre vacche nella casa dei parenti. E anche per
sfuggire agli stupri («qualsiasi donna che non appartenga ad un uomo, è
esposta allo stupro di gruppo e alla rapina»).
«La cosa assurda - dice la somala Medina Amir Mohamed, che parla benissimo
italiano, - è che noi siamo continuamente chiamate a sostituire gli uomini
che sono in guerra: nell' organizzazione sociale, nella protezione della
famiglia, nel commercio. Ma appena c' è da incontrarsi per decidere del
futuro della comunità, veniamo automaticamente estromesse. Eppure abbiamo
molto da dire sul futuro del nostro popolo e dovrebbero ascoltarci, per lo
meno ascoltarci».
«Le donne spesso sono costrette ad assistere alla morte violenta dei mariti,
dei figli, e vengono stuprate di fronte ai parenti, e alla gente del
villaggio - racconta Amina Muddei -. Eppure non chiedono vendetta. Vogliamo
la pace, contro qualsiasi logica di ritorsione. Quello che ci preoccupa è la
totale disgregazione dei nostri popoli e dei nostri villaggi. Siamo in piena
anarchia, dove ognuno è contro tutti e vince sempre il più forte. «Facciamo
di tutto per creare delle zone di lavoro e di pace ma anche se ci riusciamo
qualche volta, non sappiamo come rieducare i bambini abituati a torturare,
uccidere e depredare. Nel ' 91 le donne avevano avuto un posto in politica,
c' erano delle leggi che imponevano una loro rappresentanza. Oggi tutto
questo è scomparso assieme ad ogni forma di istruzione». «Nondimeno sono
proprio le donne che permettono la sopravvivenza dei villaggi - incalza Asli
Ismail Du' ale - con il loro piccolo commercio, che portano avanti a rischio
della vita. Sono loro che garantiscono l' approvvigionamento della legna per
cucinare, tagliando i rami nei boschi e caricandoli sulla testa. Sono loro
che trasportano l' acqua dai fiumi ai villaggi, loro che coltivano il
miglio, il mais, le banane.
«Stiamo tornando all' analfabetismo perché le scuole non ci sono più. Le
donne non sanno nemmeno scrivere il proprio nome. Ci sono alcune scuole
private ma sono per i più ricchi. La maggioranza non ha neanche i soldi per
comprarsi le scarpe. Le associazioni femminili sono state le uniche a volere
costituire dei legami fra nazioni in guerra, attraverso il piccolo commercio
e le azioni di pace. Dove le armi vengono proibite si costituisce un flusso
clandestino inarrestabile e anche voi italiani vendete tante armi. Oggi,
sotto la pressione dei grandi del mondo, si comincia a trattare per la pace.
Ma sapete chi sta negoziando per noi? proprio quei Signori della guerra che
ci hanno torturati e depredati. Vogliono mantenere i propri interessi anche
in tempo di pace».
«Il Sudan è in guerra da 15 anni - racconta Rachel Kirubi dell' Upper Nile
Woman Welfare Association -. Il sud, in cui prevalgono i cattolici e gli
animisti, si scontra col nord che è in prevalenza islamico e considera
quelli del meridione come "razza inferiore". E' una realtà frammentata, in
cui tutti stanno male, salvo coloro che detengono le armi e minacciano
chiunque non stia alle loro regole. L' analfabetismo sta diventando una
regola, la classe dirigente è inesistente, non ci sono più amministratori,
siamo in uno stato di autodistruzione perversa».
«Noi li portiamo dentro alla pancia per nove mesi - interviene Mary Nyaulang
del Sudanese Woman in Development and Peace - li alleviamo fino ai sette
anni, e poi ci vengono tolti per portarli a fare la guerra. Le nostre parole
di madri non contano più niente dal momento che il bambino diventa un
piccolo soldato. E dobbiamo assistere all' obbrobrio di vedere i nostri
figli dalle mani ancora piccole e tenere che stringono un fucile e lo
portano a casa come se fosse un giocattolo che purtroppo spara davvero».
«Le donne non sono mai informate su ciò che accadrà - aggiunge polemica
Anisia Achieng del Sudanese Woman Voice for Peace -. Ci vengono dati solo
ordini: abbandona la tua casa entro un' ora, nasconditi da qualche parte,
porta in salvo i bambini. Ma dove e per quanto tempo? Non ci viene detto
niente. Noi vorremmo costruire una cultura di pace che superi le differenze
dei clan avversari, vogliamo tornare a vivere in pace, e che i nostri figli
vadano a scuola in sicurezza».
Le testimonianze si susseguono dolorose e simili: la guerra è una faccenda
di uomini e alle donne non viene richiesto nessun parere, mai. La guerra
riduce le ragazze a rango di prede, le donne adulte a rango di serve e
infermiere, come fare per riportare la pace in terre distrutte dall' odio e
dal principio della vendetta, come fare per ricostruire la famiglia e il
pacifico lavoro quotidiano?
Mi chiedo perché le istituzioni internazionali, quando vogliono trattare con
personalità dei paesi in guerra, non si rivolgono alle donne. Non sarebbe
una strategia vincente?
L' autorità si crea, è un investimento che spesso viene da chi ha già una
autorità. Se le istituzioni, cominciando da quelle umanitarie
internazionali, scegliessero all' interno dei paesi da pacificare, delle
personalità femminili - e posso assicurare che ce ne sono - facendone un
punto di riferimento anche se non istituzionale, dando loro un valore di
rappresentanza, credo che i «Signori della guerra» sarebbero costretti a
riconoscere a queste ultime quell' autorità che vogliono mantenere solo per
sé.
Non è successo lo stesso con Rigoberta Menchu, che ha rappresentato le lotte
dei popoli latinoamericani ed è diventata un punto di riferimento anche per
i capi di Stato e le organizzazioni umanitarie internazionali? La mia
proposta ai governi che veramente credono nella pacificazione di questi
Paesi impelagati in guerre decennali senza uscita, è proprio questa: non
rivolgersi ai dirigenti che si autopropongono come le voci autorevoli dei
loro popoli, ma andare a cercare le rappresentanti di quelle associazioni
femminili che dal basso premono per una politica di riconciliazione e non
riescono a darsi credito per via di una atavica gerarchia del potere
patriarcale. Dare dall' esterno un valore a coloro che veramente hanno
interesse nell' armistizio e renderli ambasciatori autorevoli di una pace
che non può passare per gli interessi eternamente rinnovati dei «Signori
della guerra».