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La mia guerra



da "la Repubblica" 21-02-01

Il mio romanzo-denuncia

La mia guerra
all'industria
del farmaco

di JOHN LE CARRE'

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LE cose sono cambiate dai tempi della Guerra Fredda, ma è solo una piccola
parte rispetto a quello che vorremmo. La Guerra Fredda offriva ai governi
occidentali la scusa perfetta per saccheggiare e sfruttare il Terzo Mondo in
nome della libertà, per condizionare le sue elezioni, per corrompere i suoi
politici, designare i suoi tiranni e, utilizzando gli strumenti più
sofisticati della persuasione e dell'ingerenza, bloccare l'emergere di
giovani democrazie in nome della democrazia.
E mentre così agivano - che fosse nel Sud-est asiatico, in Centroamerica, in
Sudamerica o in Africa - una nozione ridicola, che ancora oggi ci portiamo
dietro, è andata radicandosi. Una nozione molto cara sia ai conservatori
che, come nel mio paese, il Regno Unito, al nuovo laburismo.
Una idea che fa diventare fratelli gemelli Tony Blair, Margaret Thatcher,
Ronald Reagan, Bill Clinton e George W. Bush: hanno la convinzione, non
importa quel che facciano le grandi corporation a breve termine, di essere
mossi in ultima istanza da ragioni etiche e, conseguentemente, che la loro
influenza sia di beneficio per il mondo.

E chiunque la pensi diversamente è un eretico neocomunista. In nome di
questa teoria assistiamo, apparentemente senza poter fare nulla, alla
distruzione delle foreste tropicali al ritmo di milioni di chilometri
quadrati ogni anno; all'impoverimento sistematico delle fonti di
sussistenza, delle abitazioni e del modo di vita di comunità agricole
indigene; all'impiccagione e alla fucilazione di chi protesta; all'invasione
e alla profanazione degli angoli più belli del mondo e dei paradisi
tropicali, lasciati diventare terre in rovina in mezzo alle quali crescono
megalopoli smisurate e infestate da malattie. Di tutti i crimini del
capitalismo selvaggio, mi è parso, quando ho cominciato a cercare una storia
che illustrasse questo argomento per il mio ultimo romanzo, che l'esempio
più eloquente fosse quello offerto dall'industria farmaceutica. Avrei potuto
utilizzare lo scandalo del tabacco con additivi, elaborato dai produttori
occidentali per causare assuefazione e, en passant, anche cancro, nelle
comunità del Terzo Mondo già devastate dall'Aids, dalla tubercolosi, dalla
malaria e dalla povertà in una misura che pochi di noi riescono ad
immaginare. Avrei potuto occuparmi delle compagnie petrolifere e
dell'impunità con la quale la Shell, per esempio, ha scatenato una immensa
catastrofe umana in Nigeria quando ha costretto alcune tribù a lasciare la
loro terra ormai contaminata, provocando una ribellione che si è conclusa
con processi arbitrari e con la vergognosa tortura e esecuzione di uomini
molto coraggiosi per mano di un regime totalitario perverso e corrotto. Ma
il mondo delle multinazionali farmaceutiche, una volta che ci sono entrato,
mi ha catturato, e non sono riuscito a staccarmene. La Big Pharma, come è
chiamata la Grande Industria Farmaceutica nei paesi di lingua inglese, ha
tutto: le speranze e i sogni che in essa riponiamo, un enorme potenziale -
solo in parte messo in pratica - per fare del bene, e il lato più oscuro,
alimentato da esorbitanti quantità di denaro, da una ipocrisia rampante, da
corruzione e da avarizia. Erano passati appena un paio di giorni da quando
avevo incominciato la mia ricerca sulla Big Pharma, che già ero venuto a
sapere del frenetico reclutamento di volontari del Terzo Mondo per fare da
cavie a buon mercato. Il loro ruolo, anche se forse loro non lo sapranno
mai, è quello di permettere di sperimentare farmaci i cui test non sono
ancora stati approvati negli Stati Uniti, e che loro non potranno mai
comperare, anche quando i test daranno - e questo è tutto da vedere -
risultati ragionevolmente sicuri. E poi sparire. I volontari, en passant,
costano cari. Negli Stati Uniti una prova clinica su un paziente costa una
media di 10.000 dollari, in Russia 3.000 e nelle regioni più povere del
mondo ancora meno. Ho anche scoperto come la Big Pharma aveva convinto il
Dipartimento di Stato statunitense a minacciare i governi dei paesi poveri
con sanzioni commerciali, per impedire che fabbricassero a prezzo contenuto
e con le loro formule quei farmaci salvavita brevettati in grado di
alleviare l'agonia dei 35 milioni di uomini, donne e bambini sieropositivi
del Terzo Mondo, l'80% dei quali abitano nell'Africa subsahariana. In gergo
farmaceutico, quei medicinali d'imitazione non patentati si chiamano
generici. Alla Big Pharma piace criticarli senza mezzi termini, insistendo
sul fatto che non sono sicuri e che sono somministrati senza la dovuta
attenzione, ma la realtà dimostra che niente di ciò è vero. Semplicemente
salvano le stesse vite che la Big Pharma potrebbe salvare, ma a un costo
molto inferiore. E poi, non è stata la Big Pharma ad inventare questi
farmaci salvavita che poi ha brevettato e ai quali ha attribuito un prezzo
arbitrario ed eccessivo. I farmaci retrovirali sono stati scoperti per la
maggior parte in progetti di ricerca statunitensi finanziati con fondi
pubblici e dedicati a studiare altre malattie, e, solo in seguito, sono
stati ceduti alle società farmaceutiche per la loro commercializzazione e il
loro sfruttamento. Una volta registrati i brevetti, le multinazionali hanno
deciso di far pagare quanto hanno ritenuto che il mercato occidentale,
disperato per via dell'Aids, fosse disposto a tollerare: tra i 12.000 e i
15.000 dollari l'anno per dei preparati che costano soltanto qualche
centinaio di dollari. Così è stato deciso il prezzo e l'Occidente, in
genere, lo ha mandato giù. Nessuno ha detto che si trattava di un abuso di
fiducia su grande scala. Nessuno ha fatto notare che mentre l'Africa ha
l'80% dei sieropositivi di tutto il mondo, costituisce soltanto l'1% del
mercato della Big Pharma. State forse per tirare fuori la vecchia e logora
scusa che le società farmaceutiche hanno necessità di ricavare grandi
profitti da un farmaco per poter finanziare la ricerca e lo sviluppo di
altri? Allora, qualcuno mi spieghi, per favore: perché investono nella
commercializzazione il doppio di quanto investono in ricerca e sviluppo?
Sono anche venuto a sapere della pratica delle "donazioni caritatevoli"
quando devono liberarsi di medicinali inadeguati o scaduti, di scorte
invendibili o quando si tratta di risparmiare sul costo dello smaltimento e
godere di benefici fiscali. E della pratica di ampliare deliberatamente il
raggio delle indicazioni di una medicina per avere un mercato più vasto nel
Terzo Mondo. Così, per esempio, un farmaco che nell'Europa occidentale o
negli Stati Uniti sarebbe autorizzato soltanto per il dolore estremo in caso
di cancro, a Nairobi può essere venduto come una semplice medicina per il
mal di testa e a un prezzo sovente varie volte superiore che a Parigi o a
New York. E la cosa più probabile è che non sia accompagnato da alcuna
controindicazione. Inoltre, c'è poi la questione vera e propria dei
brevetti. Un composto può essere vincolato da una dozzina o più brevetti. Si
brevetta il processo di fabbricazione. Si brevetta il metodo di
somministrazione: compressa, liquido o siero. Si brevetta la posologia che
può essere quotidiana, settimanale o quindicinale: ognuna può generare un
nuovo brevetto. Si brevetta, se possibile, ogni singolo istante della vita
di una farmaco, dal laboratorio al paziente. E per ogni giorno che la
compagnia riesce a tenere a bada il produttore di farmaci generici, guadagna
una fortuna, perché il margine di profitto, quando ha il brevetto nelle
proprie mani, è astronomico. Ma c'è ancora un'altra politica della Big
Pharma che, a lungo termine, potrebbe essere ancora più catastrofica di
tutto quanto detto finora. La Big Pharma è impegnata nella corruzione
intenzionale e sistematica della professione medica, paese per paese, in
tutto il mondo. Sta investendo una fortuna per influenzare, contrattare e
comperare le opinioni scientifiche, fino al punto che, da qui a qualche
anno, se continuerà allegramente su questa sua strada senza che nessuno la
controlli, sarà difficile trovare un giudizio medico imparziale. Ci viene
mai in mente di chiedere al nostro medico curante - in Gran Bretagna, Stati
Uniti, Canada, Germania, Francia, Spagna o Portogallo - , quando ci
prescrive un medicinale, se la società farmaceutica lo paga per
prescrivercela? Naturalmente no. Pensiamo a nostro figlio. A nostra moglie.
Al nostro cuore, o al nostro rene o alla nostra prostata. E finora, grazie a
Dio, la maggioranza dei medici resiste a queste tentazioni. Ma altri no, e
la conseguenza è che, nei peggiori dei casi, il giudizio del medico non
tiene conto dei pazienti, ma degli sponsor. In Portogallo, non molto tempo
fa, un impiegato di un gigante farmaceutico tedesco, la Bayer, ha fornito ai
giornali i nomi di 2.500 medici, i quali, ha affermato, erano pagati
affinché prescrivessero i farmaci della società. Si chiama Pequito. Pequito,
nonostante la protezione della polizia è stato pugnalato due volte nel giro
di pochi mesi. Dopo il secondo attacco ha avuto bisogno di 70 punti. Abbiamo
mai chiesto ai nostri governi di dirci qualcosa sui pagamenti che in
contanti o in natura le società farmaceutiche offrono ai medici di base, ai
chirurghi e agli specialisti? Sui "seminari" e i "brevi corsi di formazione"
in luoghi di vacanza, con viaggio pagato per loro e le loro consorti,
albergo incluso? Mi è stato detto che i più coccolati sono quelli che
prescrivono di più. E, se non prescrivevano prima di andarci, c'è
d'aspettarsi che lo facciano al loro ritorno. Abbiamo mai chiesto al nostro
farmacista, quando ci dà l'ultimo ritrovato contro il dolore, tutto nuovo e
più potente, perché costi sei volte più di una confezione di aspirine ed
esattamente che cosa faccia che l'aspirina non possa fare? Quando nostro zio
deve sottoporsi a una operazione perché gli occorre una protesi all'anca,
chiediamo al chirurgo: "Perché, in particolare, questa protesi? Lei riceve
una commissione, delle vacanze gratuite?" Certamente no. Siamo troppo
insicuri, abbiamo troppa paura, siamo troppo pigri e educati. Ci fermiamo
qualche volta a chiederci, in Gran Bretagna, quanti membri dei cosiddetti
comitati di vigilanza che esaminano la sicurezza e le scelte del Servizio
Sanitario Nazionale hanno legami con le industrie farmaceutiche? Un terzo
del comitato britannico per la sicurezza dei medicinali ha dichiarato di
aver dei vincoli economici con società farmaceutiche sui cui prodotti sono
chiamati a emettere una opinione. In caso di eventuale parzialità tocca al
presidente del comitato decidere. Questo sistema, tranquillizza l'opinione
pubblica? un metodo sicuro contro l'esercito crescente di venditori e
lobbisti che influenzano e infestano il mondo della medicina? Vediamo chi
osa aprire bocca. Una decisione recente del Ministero della Sanità
britannico prevede la possibilità che negli ospedali anche le infermiere
possano prescrivere dei farmaci. Anch'esse saranno soggette d'ora in poi
alle pressioni commerciali? E pensiamo a ciò che accade alla ricerca medica
accademica, ritenuta imparziale, quando i giganti farmaceutici fanno
donazioni di interi edifici per la ricerca nelle biotecnologie o attrezzano
laboratori nelle università e negli ospedali dove si testano e si sviluppano
i loro prodotti. Negli ultimi anni sono trapelati alcuni casi allarmanti di
scoperte scomode soppresse o rielaborate, i cui responsabili sono stati
minacciati di essere cacciati via dai loro posti, dopo che la loro
reputazione professionale e personale era stata sistematicamente distrutta
con macchinazioni ordite da società di pubbliche relazioni al soldo delle
ditte farmaceutiche. Nel mio romanzo The Constant Gardener ho riunito vari
di questi sfortunati casi in una persona che ho chiamato Lara. Lara è una
ricercatrice nel settore chimico in Canada perseguitata dalla società
farmaceutica che le ha fatto un contratto e dai colleghi scienziati il cui
pane quotidiano, come quello di Lara, dipende dalla compagnia. L'ultimo
bastione, si potrebbe osservare, dovrebbe essere quello delle pubblicazioni
scientifiche obiettive. Tuttavia, anche qui, sfortunatamente, dobbiamo
essere prudenti, proprio come lo sono queste pubblicazioni. The New England
Journal of Medicine, la pubblicazione più prestigiosa degli Stati Uniti, ha
confessato recentemente, dispiaciuta, di aver scoperto che vari dei suoi
collaboratori avevano legami non dichiarati con l'industria farmaceutica.
Altre pubblicazioni meno potenti che non hanno né l'influenza né le risorse
per indagare sugli interessi non dichiarati dei loro collaboratori, sono
diventate poco meno di vetrine per le ditte che vogliono pubblicizzare i
loro prodotti. E si sa di più di un opinion maker - vale a dire, ricercatore
accademico - che ha prestato il proprio nome a qualche articolo scritto per
conto suo da società farmaceutiche. La stampa in generale, invece, ha
cominciato a fornire al pubblico un servizio molto migliore che nel passato,
soprattutto negli Stati Uniti. L'anno scorso, una ricerca di undici mesi
portata a termine dal Washington Post sulla condotta scorretta delle
compagnie farmaceutiche statunitensi e multinazionali nei paesi poveri, è
culminata con una serie di articoli molto critici che dovrebbero valere ai
loro autori il Premio Pulitzer, il ringraziamento da parte di tutte le
persone perbene e l'odio aperto di quell'industria. Una delle conseguenze
immediate è stata la creazione di un comitato nazionale per sovrintendere
alle attività delle società farmaceutiche all'estero. Un altro articolo
recente, altrettanto stupendo, di Tina Rosenberg sul New York Times Magazine
prende il Brasile come esempio, illustrando le restrizioni legali che in
quel paese le società farmaceutiche hanno per i controlli sui loro stessi
brevetti. In poche parole, il Brasile ha dato più importanza alla
sopravvivenza del proprio popolo che alle lamentele e alla proteste della
Big Pharma. Hanno fabbricato i propri farmaci retrovirali che possono essere
commercializzati a un prezzo di 700 dollari per somministrazione annua,
invece dei 10.000 richiesti come minimo dalle versioni brevettate. E li sta
distribuendo a ogni brasiliano che ne abbia bisogno, che possa pagarli o no.
E la Big Pharma non si è messa a correre e a gridare chiedendo aiuto ai suoi
avvocati o al Dipartimento di Stato nordamericano, ma ha incassato il colpo
e ha abbassato i propri prezzi per poter competere. Forse verrà fuori,
dopotutto, che le grandi società farmaceutiche non sono tanto potenti come
si crede. Purtroppo, con George W. Bush, sarà difficile che si arrivi a
saperlo. George W. Bush è arrivato al potere sostenuto da una serie di
persone molto avide, tra queste, la Big Pharma, che ha donato milioni di
dollari per la sua campagna, più del doppio della cifra che ha dato ai
democratici. Molti dei padrini e dei nonni che hanno promosso George W.
hanno vincoli molto stretti con l'industria farmaceutica. Avvicinandosi alla
fine del suo secondo mandato, Clinton ha imparato a resistere alle pressione
della Big Pharma - la cui lobby può contare su un finanziamento di 75
milioni di dollari - e ha cominciato a sostenere la distribuzione di farmaci
generici contro l'Aids alla popolazione del Terzo Mondo, che sta morendo a
milioni perché non ce li ha. Eppure, tutto sembra indicare che George W. sia
impegnato a tornare al punto di partenza. Sono i governi a governare ancora
i paesi? Sono i presidenti ad essere ancora a capo dei governi? Al tempo
della guerra fredda circolava una frase a Berlino, "I buoni hanno perso, ma
i cattivi hanno vinto". Per un momento, all'inizio degli anni '90, sarebbe
potuta accadere una cosa meravigliosa: un piano Marshall, una
riconciliazione generosa di vecchi nemici, una ricostruzione di alleanze e,
per il Terzo e per il Quarto Mondo, un impegno a fronteggiare i veri nemici
dell'umanità: la fame, le malattie, la povertà, la distruzione
dell'ambiente, il dispotismo e il colonialismo, in tutte le sue accezioni.
Ma questo desiderio illusorio si basava sul fatto che le nazioni avanzate
parlassero come nazioni avanzate e non come portavoce al servizio delle
imprese multinazionali e multimiliardarie che considerano lo sfruttamento
dei malati e dei moribondi della Terra un dovere sacro nei confronti dei
loro azionisti. Tutto sembra indicare che George W. Bush sosterrà queste
società. O per dirla giusta, che queste sosterranno Bush. Tina Rosenberg nel
suo articolo per il New York Times, proponeva una di quelle soluzioni così
straordinariamente semplici che dunque risultano troppo ovvie e logiche per
essere considerate accettabili dai burocrati della salute della comunità
mondiale: che l'Organizzazione Mondiale della Sanità affronti a livello
mondiale l'Aids allo stesso modo in cui l'Unicef ha affrontato quello delle
vaccinazioni, una pratica che salva tre milioni di vite l'anno e che
previene malattie devastanti in decine di milioni di persone. Rosenberg ha
calcolato che il costo sarebbe di circa 3 miliardi di dollari, una cifra
che, suggerisce, non è insopportabile se quello che si va a evitare è il
collasso di un continente. Potrebbe avere aggiunto, e forse lo ha fatto
mentalmente, che la capitalizzazione di mercato di una sola delle grandi
compagnie multinazionali, la Pfizer, ammonta a centinaia di miliardi di
dollari. Copyright 2001 by David Cornwell Traduttore, Marina Guiomar Parada