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Sud del mondo: due Interviste interessanti
Salve Enrico Marcandalli,
a proposito di Sud del mondo, segnalo e invio due interviste a firma
dello stesso autore comparse sul quotidiano Avvenire nei mesi scorsi.
Le ho lette sul web e ritengo che i due intervistati (Serge Latouche e
il nobel argentino Perez Esquivel) dicano cose molto importanti, che
possono interessare anche voi così impegnati per la sorte dei paesi in
via di sviluppo.
Sperando di essere stato utile...
Suerte,
Davide Sanchez
AVVENIRE
12 FEBBRAIO 2000
SVILUPPO SOSTENIBILE? UN INGANNO
Parla l'economista Serge Latouche, secondo cui il mito del progresso ci
porterà al collasso ambientale
VINCENZO R. SPAGNOLO
"Lo sviluppo sostenibile? Una chimera. Siamo tutti a bordo di quella
che lo studioso Bernard Hours ha chiamato "un'ambulanza mondiale", con
le Ong e i vari movimenti umanitari in veste di soccorritori al
capezzale dei Paesi poveri. E tutti insieme, infermieri e pazienti,
corriamo dritti verso il precipizio, ossia la totale consumazione delle
risorse naturali.
Ci salveremo solo se sapremo scendere in tempo, abbandonando per sempre
la macchina dello sviluppo". L'economista Serge Latouche è sempre stato
considerato un intellettuale "scomodo", fuori dai ranghi. E, anche in
questo inizio di secolo, non rinuncia a fare da lucida Cassandra dei
mali del pianeta. Docente di storia del pensiero economico
all'università di Paris XI, con una serie di pamphlet documentati con
severo rigore scientifico (dal saggio del 1986 Faut-il refuser le
développement?, tradotto in Italia col titolo I profeti sconfessati, a
L'occidentalizzazione del mondo e La megamacchina e Il pianeta dei
naufraghi) ha denunciato per anni i gravi squilibri del modello di
sviluppo occidentale, divenendo suo malgrado una specie di "guru"
dell'economia alternativa. Oggi lo studioso francese non si ferma
all'analisi degli errori del progresso ma indica nuove strade per una
radicale inversione di rotta del rapporto dell'uomo con l'economia e
l'ambiente.
Dunque, professor Latouche, lei sostiene che persino l'idea stessa di
sviluppo è in crisi.
"Senza dubbio. La crisi della teoria economica dello sviluppo, iniziata
negli anni Ottanta, si è ormai aggravata. Con la caduta del muro di
Berlino, aziende e mercati avevano annunciato ufficialmente che il
pianeta si era unificato. Poi, l'avvento della globalizzazione ha
mandato in frantumi il quadro statale delle regolamentazioni,
permettendo alle disuguaglianze di svilupparsi senza limiti e segnando
la comparsa del cosiddetto "trickle down effect", ossia la
distribuzione della crescita economica al Nord e delle sue briciole al
Sud. Dal 1950, la ricchezza del pianeta è aumentata sei volte, eppure
il reddito medio degli abitanti di oltre 100 Paesi del mondo è in piena
regressione e così la loro speranza di vita. Si sono allargati a
dismisura gli abissi di sperequazione: le tre persone più ricche del
mondo possiedono una fortuna superiore alla somma del prodotto interno
lordo dei 48 Paesi più poveri del globo.
In simili condizioni, lei comprende che non è più di attualità lo
sviluppo, ma solo piccoli aggiustamenti strutturali. Che passano sotto
il nome di "sostenibilità" e sono invece una spaventosa mistificazione".
Perché, professore?
"Perché tutte le varie espressioni "sviluppo sostenibile", "vivibile" o
"sopportabile" sono solenni imposture: negli ultimi due secoli, lo
sviluppo è sempre stato contrario all'idea di sostenibilità, poiché ha
cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il
massimo profitto. Oggi il vecchio concetto è stato rivestito con una
patina d'ecologia, che tranquillizza l'Occidente e nasconde la lenta
agonia del pianeta. Lo sviluppo cambia pelle, insomma, ma resta se
stesso. In Africa, in nome dello sviluppo, i fedeli musulmani della
località di Kulkinka, nel Burkina Faso, hanno deciso che alleveranno
maiali. Niente è proibito, se porta lo sviluppo. E non serve da freno
la morale, né la cultura. Il "pensiero unico" del mercato annulla
perfino le identità nazionali: desideriamo gli stessi beni e quindi
siamo tutti uguali. Senza contare i danni che il progresso tecnologico
causa all'intero pianeta.
La concorrenza e il libero mercato hanno effetti disastrosi
sull'ambiente: niente limita più il saccheggio delle risorse naturali,
la cui gratuità spesso permette di abbassare i costi".
Un quadro davvero sconfortante, professor Latouche. Non teme le accuse
di catastrofismo?
"No, perché quello che dico è sotto gli occhi di tutti: la concorrenza
esacerbata spinge i Paesi del Nord a manipolare la natura con le nuove
tecnologie e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In
agricoltura, l'uso intensivo di pesticidi e irrigazione sistematica e
il ricorso a organismi geneticamente modificati hanno avuto come
conseguenze la desertificazione, la diffusione di parassiti, il rischio
di epidemie catastrofiche. Il collasso del pianeta si avvicina,
insomma, ma invece di lavorare a un'alternativa che eviti la fine delle
risorse naturali, si continua a ragionare su correttivi più o meno
efficaci, sulla "sostenibilità" appunto. Ma così si confonde il morbo
con la cura"".
Qual è la cura, allora, a suo parere?
"C'è un vecchio proverbio che suona più o meno così: "se hai un
martello conficcato in testa, tutti i tuoi problemi avranno la forma di
chiodi". Dobbiamo levarci dalla testa il martello dell'economia,
decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della
scienza e della tecnica. Far tramontare l'onnipotenza dell'"assolutismo
razionale" che crede di poter assoggettare ogni cosa al suo volere e
sostituirlo col "ragionevole", che si adegua alle mutate condizioni
della natura. Questo è il primo sforzo a livello concettuale.
Concretamente, poi, bisogna proseguire nell'opera di contrasto della
"megamacchina" dello sviluppo".
E come? Con lo strumento del boicottaggio?
"Ho poche speranze sul successo finale delle pratiche di boicottaggio
delle multinazionali.
Anche se hanno dato frutti di recente, come nei casi della Shell in
Germania e della Del Monte in Kenya, non hanno verdi prospettive: i
grandi gruppi economici stanno infatti reagendo rapidamente, formando
cartelli in settori vitali come quello farmaceutico, agro-alimentare o
delle comunicazioni per impedire ai consumatori qualsiasi alternativa.
Io stesso, nelle scorse settimane, volevo boicottare il gruppo
Total-Fina, proprietario della petroliera Erika che ha causato il
disastro delle maree nere sulle spiagge della Bretagna, e mi sono
ritrovato impotente in autostrada a dover fare benzina ai loro
distributori, perché erano gli unici nel raggio di migliaia di
chilometri. Insomma è giusto far diventare, come scrive l'economista
italiano Antonio Perna, un "bisogno" la scelta etica del consumatore,
ma non basta. È necessario, aggiungo io, affiancare alla guerra di
trincea il concetto di "nicchia", un luogo cioè dove progettare una
seria alternativa da estendere poi a grandi settori della società. Io
studio da anni certe economie cosiddette "informali", che sono in
realtà veri e propri laboratori del dopo-sviluppo".
Si riferisce al tipo di società basata sulle relazioni interpersonali
descritta nel suo libro L'altra Africa?
"Esattamente. Anche se, di fronte alla evidenza dei successi di certi
"imprenditori a piedi scalzi", gli occidentali continuano scioccamente
a pensare a quella africana come a un'accozzaglia di "straccioni" che
sopravvive in attesa di accedere alla terra promessa della modernità,
dell'economia ufficiale e del vero sviluppo. In realtà le migliaia di
piccole imprese e il colorato insieme di mestieri (dalle intrecciatrici
di strada ai bana-bana, commercianti ambulanti che vendono alle donne
senza frigorifero olio "sfuso" o sacchetti di latte in polvere) non
possono essere etichettati semplicemente come "naufraghi dello
sviluppo". Essi sopravvivono perché hanno prodotto un tipo di società
basata non sui rapporti economici ma sul valore delle relazioni sociali
e sulla logica del dono. Intendiamoci, parlo di una società non
assolutamente affrancata dal mercato ma che, comunque, non obbedisce
supinamente alla logica mercantile. In questo tipo di società, che io
chiamo vernacolare, ciascuno investe molto nei legami interpersonali,
dà in prestito denaro, beni materiali e perfino tempo o lavoro. Lo fa
senza pensare a un tornaconto immediato, perché reputa importante
crearsi un gran numero di "cassetti", per usare un espressione della
periferia di Dakar, cioè di persone debitrici a cui attingere in caso
di bisogno. Un po' come le esperienze che noi occidentali stiamo
riscoprendo e che vanno sotto il nome di "banca del tempo" o "local
exchange trade systems" (sistemi di scambio locale)".
Ci sono segnali di speranza quindi?
"Oltre alla presenza di nuovi modelli di società, mi conforta che le
coscienze di alcuni Paesi si stiano lentamente risvegliando. Lo
mostrano ad esempio i recenti fatti di Seattle. Il gigantesco baraccone
del "Millennium Round" messo su dalla World Trade Organization non è
crollato solo per le forti proteste di piazza delle organizzazioni non
governative. È fallito, ed è ciò che più conta, anche per il dissenso
dall'interno dei rappresentanti di molti Paesi in via di sviluppo,
alzatisi dai tavoli delle trattative perchè indignati dall'incredibile
arroganza delle nazioni occidentali". Secondo molti commentatori, anche
gli attacchi lanciati nei giorni scorsi dagli hackers ai grandi siti
web commerciali come Amazon o Yahoo! potrebbero essere una forma di
protesta contro la globalizzazione e i suoi nuovi strumenti, come
Internet appunto.
Qual è il suo giudizio su questo tipo di protesta?
"Credo che il pensiero unico del mercato sia da sempre onnivoro e tenda
a occupare ogni possibile spazio. Ha fatto così anche con Internet,
nata per le comunicazioni in ambito militare e fra gli studiosi e ora,
per una di quelle finte della storia di cui parlava Hegel,
trasformatasi nel più potente veicolo delle merci sul pianeta. Però i
fatti di questi giorni dimostrano come la Rete sia ancora un luogo con
ampi spazi di libertà. D'altronde, neanche le proteste di Seattle
sarebbero state possibili senza il coordinamento fra associazioni e Ong
di tutto il mondo, iniziato anni fa proprio su Internet".
La difficile transizione alla democrazia del continente: parla il Nobel
per la pace Perez Esquivel
SOS DAL SUDAMERICA
Fame, esclusione sociale, bambini di strada, possesso della terra:
continua l'emergenza e non si riesce ad uscire dal sottosviluppo «I
conti col passato vanno chiusi con la giustizia e la riconciliazione»
Vincenzo R. Spagnolo
ROMA. «In America Latina stiamo cercando di superare il passato per
costruire il presente. Non c'è altra strada. Soltanto dopo aver fatto i
conti con ciò che siamo stati, potremo guardare al futuro. Tutto
dipenderà da noi: quello che saremo capaci di seminare nei prossimi
anni, sarà esattamente ciò che raccoglieremo». Sono molti anni che
l'intellettuale argentino Adolfo Perez Esquivel s'impegna nel difficile
campo della difesa dei diritti umani in Sudamerica. Un impegno tenace e
quotidiano, pagato a caro prezzo con la tortura nelle carceri argentine
degli anni Settanta e sottolineato nel 1980 dall'attribuzione del
premio Nobel per la pace. L'immagine che scatta del proprio continente
è quella di un «lugar maravilloso y al mismo tiempo afligido», un luogo
bellissimo ma sofferente: «L'America Latina sta uscendo dall'epoca
delle dittature militari dopo aver pagato un alto costo in vite umane.
In molti Paesi sono in atto processi democratici. Ma non è solo ponendo
il voto in un'urna che possiamo dirci democratici. Democrazia significa
uguali diritti per tutti. E invece è sotto i nostri occhi la terribile
sperequazione fra la condizione di pochi privilegiati e quella, misera,
della maggior parte delle popolazioni locali».
Quali sono oggi le emergenze in Sudamerica?
«Ci sono mali che affliggono l'intero continente: l'aumento della
povertà, l'esclusione sociale, la violenza per le strade e quella
strutturale. Su tutto, incombe come una spada di Damocle l'enorme
debito estero che grava su molti Paesi. Una cosa ingiusta e immorale,
perché più paghiamo, più dobbiamo e meno ci resta. Lo ha sottolineato
più volte, dall'alto della sua autorità morale e spirituale, anche lo
stesso Giovanni Paolo II: i popoli di America Latina, Africa e Asia
hanno già pagato molte volte l'ammontare del debito. E invece gli
altissimi interessi sottraggono risorse importanti allo sviluppo.
Inoltre, c'è un'altra bomba silenziosa, che non viene menzionata sui
giornali ma fa più vittime di una guerra».
Quale?
«La fame, che sta facendo stragi in Sudamerica. Servono nuovi concetti
di sviluppo e possibilità di vita per i contadini, da realizzare con
progetti che tengano conto delle realtà locali. Ora, ad esempio,
attraverso la politica degli Stati Uniti, si sta applicando il "Piano
Colombia". Si tratta di ben 1300 milioni di dollari, cifra alla quale
ha contribuito anche l'Unione Europea. Ebbene, io chiederei all'Ue di
tirarsi indietro da questa iniziativa, che mira soprattutto a
regionalizzare il conflitto colombiano nel continente. Ma non si può
pensare che il narcotraffico e la guerriglia siano solo un problema
militare o di polizia: il problema della droga dev'essere controllato
nei Paesi dov'è il mercato, con interventi ad hoc e un'educazione e
un'informazione adeguata e non solo confinandolo laddove oggi avvengono
gli scontri e la guerriglia. In Colombia in questo momento ci sono
quasi un milione di profughi interni. Una tragedia spaventosa, che ci
riempie di angoscia e preoccupazione».
C'è qualcosa che i Paesi più sviluppati possono fare per fermare tutto
questo?
«Sembra incredibile, ma in un mondo che si fa sempre più ricco e
tecnologico, vanno aumentando poveri ed esclusi. Anni fa, con don
Helder Camara andammo nel Nord Est del Brasile per sostenere la causa
di alcune popolazioni locali che una multinazionale voleva privare del
diritto alla terra. Quando fummo in tribunale, gli indios issarono un
cartello con una grande scritta, perché il giudice potesse vederla da
lontano. Diceva: chi ha comprato la Terra a Dio? Il Signore ha dato la
terra a tutti e non a un piccolo settore della popolazione mondiale. Lo
sfruttamento delle risorse deve essere fatto con intelligenza e
rispetto: gli indios prima di seminare chiedono permesso alla Terra, le
rendono onore perché sanno che, se utilizzata con raziocinio, essa darà
loro aiuto e nutrimento. L'appello del Vaticano sulla necessità di
rispettare la terra e di distribuirne meglio le risorse andrebbe
ripetuto nel nostro continente ogni santo giorno, perché possa
diventare pratica quotidiana dell'operato di chi ha in mano le leve del
potere e la gestione degli sterminati latifondi».
Già, il potere. Molti Paesi latinoamericani stanno attraversando una
fase di delicata transizione: dalle oligarchie militari del passato a
regimi più liberali, ma a volte simili a "democrazie sotto tutela".
«Credo che sia un momento difficile, di transizione appunto.
Soprattutto perché ci sono problemi non risolti: basta vedere ciò che
accade in Cile con Pinochet, la situazione del Perù, la violenza in
Colombia. Credo che, per avviarci pienamente sulla via della
democrazia, dobbiamo chiudere i conti col passato. Questo può avvenire
solo facendo giustizia. Non basta dire: "Bisogna dimenticare il
passato". I popoli che dimenticano, commettono di nuovo gli stessi
errori. Come cristiani, siamo chiamati a ricomporre il corpo sociale e
le relazioni personali attraverso la riconciliazione, il perdono.
Ebbene, io posso perdonare coloro che mi hanno torturato, ma non posso
dimenticare. Chi ha sbagliato deve riconoscere la propria colpa e a
questo deve seguire la riparazione del danno. Solo allora, arriveranno
il perdono e la riconciliazione».
Una riconciliazione che potrebbe aprire la strada alla rinascita del
continente?
«Ci sono molti segni di speranza. Sono come fiumi sotterranei, che
all'improvviso potrebbero salire in superficie e cambiare la storia. Il
movimento dei "Sem terra" brasiliani, ad esempio, o gli altri movimenti
indigeni. O ancora le organizzazioni per i diritti umani e quelle per i
diritti delle donne, molto importanti laddove la donna ha sempre avuto
una presenza attiva nella vita sociale, culturale e politica. Ecco, in
questa epoca di globalizzazione che a volte annichilisce le realtà
locali, dobbiamo recuperare l'identità di essere popolo, ritrovare una
spiritualità e un senso di vita comune. Paolo VI ci chiamava il
"continente della speranza". Aveva ragione e continua ad averla ancora
oggi, perché l'America Latina continua ad essere el continente de la
esperanza».
Vincenzo R. Spagnolo
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