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NIGRIZIA 10/2000 - MATATU




Matatu
TIGRI IN AFRICA?
di Renato Kizito Sesana

IMPOSSIBILE, TUTTI SANNO CHE LE TIGRI VIVONO SOLO IN ASIA. EPPURE IL GIOVANE
DANIELE COMBONI, NEL SUO PRIMO VIAGGIO IN AFRICA, LE HA VISTE SULLA SPONDA
DEL NILO. ANCHE LUI ERA UN FIGLIO DEL SUO TEMPO.

In una delle sue lettere a casa più famose  Comboni scrive di vedere, dalla
tolda della "Stella Matutina" (il battello che lo portava verso la missione
di Santa Croce) alberi giganteschi che "addensandosi insieme formano una
smisurata e variopinta selva incantata che offre il più sicuro ricovero a
immense torme di gazzelle, d'antilopi, tigri, leoni, pantere, iene, giraffe,
rinoceronti e altre fiere silvestri". Poco più avanti descrive al papà usi e
costumi degli shilluk e afferma che "gli uomini, come tutti i neri dell'
Africa da noi visitata, sono perfettamente nudi; così pure le donne, a
eccezione delle maritate, che si cingono al fianco destro, o al sinistro una
pelle di montone, di capra. Le più ricche hanno una pelle di tigre ma poco
giovano queste a coprire quello che dovrebbe essere coperto". E dice che i
nuer portano al collo strisce di pelle di tigre. Arrivato a Santa Croce
descrive la circostante "selva inesplorata, piena di elefanti, tigri, leoni,
iene, bufali, rinoceronti e altre fiere e bestie feroci".

Nelle sue lettere, nonostante gli sforzi di alcuni biografi che vogliono
vedere in lui - sempre, anche quando l'evidenza è contraria - il profeta
lungimirante e il maestro di metodologia missionaria, si ritrova un figlio
del suo tempo.

Non solo Comboni vede le tigri lungo le sponde del Nilo, ma scrive dell'
Africa "che siede nelle tenebre, soggetta alla morte e al dominio crudele
del demonio", degli africani "sotto la maledizione di Cam", della
"infelicissima Nigrizia la quale, immersa nelle tenebre, cade smarrita nei
precipizi, senza guida, senza luce, senza fede, senza Dio". E dopo aver
descritto come le sponde del Nilo brulichino di nuer e di shilluk, parla di
"foreste mai toccate da mano d'uomo".

Filtrava la realtà con la cultura teologica italiana, veronese, del suo
tempo. Forse non aveva mai avuto occasione di vedere tigri vere, e le
confondeva con qualche altro animale. Forse voleva dare un po' più di colore
alle sue lettere, e lasciava un po' di spazio all'immaginazione. Tentazione
in cui sono caduti, e cadono, tanti missionari.

Che per molto tempo sono stati considerati anche degli spiriti amanti dell'
avventura e del rischio, con un gusto un po' guascone dell'esagerazione e
della spacconata.

Negli anni della mia formazione c'era il missionario che aveva perso tre
dita da ragazzo, come apprendista meccanico: raccontava con dovizie di
terrificanti particolari come gli fossero state mangiate da un leone. E il
barbuto comboniano che dopo la prima guerra mondiale girava nelle parrocchie
della Lombardia raccontando ai fedeli sbalorditi quanto duro fosse dormire
sull'hangareb, mangiare kuku e bere merissa? Rientrando in sacrestia,
spiegava confidenzialmente al parroco con un sorriso malizioso che hangareb
è il letto, kuku il pollo, merissa la birra.


LA VITA PER LA GENTE

Ma il giovane Comboni e i missionari un po' sbruffoni comunque condividevano
la vita della gente. Si muovevano a piedi, affrontavano rischi veri. Sulla
"Stella Matutina" Comboni era già pronto a dare la propria vita.

Nel 1996, dopo un avventuroso viaggio, sono arrivato a Santa Croce: una zona
di palude malsana in cui si era divorati dalle zanzare di notte e tormentati
dalla mosche di giorno. Comboni ci ha vissuto per quasi un anno, quattro
suoi compagni vi sono morti.

Il più anziano, lo sloveno Bartolomeo Mosgan, 35 anni, era arrivato a Santa
Croce quattro anni prima. Un po' più a nord, sempre sul Nilo, ho visitato
più volte la missione di Tonga, ormai abbandonata da anni, con un ambiente
se possibile ancora peggiore di Santa Croce. Fratel Remigio Zappella,
bergamasco, arrivò a Tonga nel 1904 e ci restò fino alla morte, nel '33, con
solo l'intervallo di una vacanza a casa.

Ciò che fa grande il Comboni ai miei occhi non sono i suoi scritti, i suoi
metodi, le sue visioni. È grande perché, come tanti suoi predecessori e
successori, ha amato l'Africa e gli africani fino alla morte. Ha dato la
propria vita per i suoi amici, ha creduto nel potere dell'amore e della
croce. La croce che ha al suo centro, come ha scritto Chesterton, uno
scontro e una contraddizione. Lì si ritrovano le esperienze più esaltanti e
quelle più dolorose; la povertà dell'uomo e la grandezza di Dio. Nella vita
dei grandi missionari - canonizzati o dimenticati - si ritrovano sempre
questi estremi.


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