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NIGRIZIA 10/2000 - FATTI E PROBLEMI
FATTI E PROBLEMI
Libia / Il dopo embargo e il grande business
GHEDDAFI, L'AFRICANO
Andrea Semplici
da Tripoli
ALL'ULTIMO VERTICE DELL'ORGANIZZAZIONE PER L'UNITÀ AFRICANA (OUA), A LOMÉ,
CI È ANDATO IN AUTO, ATTRAVERSANDO IL DESERTO. HA SPIEGATO CON ORGOGLIO: "IO
POSSO CAMBIARE LA STORIA DEL CONTINENTE". LE METAMORFOSI DELL'EX NEMICO
NUMERO UNO DELL'OCCIDENTE NON SMETTONO DI STUPIRE. E L'ITALIA DOVREBBE
GIOCARE UNA PARTITA IMPORTANTE.
Certo, Muammar Gheddafi sorprende. Sempre. Da oltre trent'anni, sorprende.
Le Nazioni Unite sospendono l'embargo aereo che ha assediato la Libia per
sette anni? E il leader libico decide che è tempo di andare a piedi. Anzi:
in fuoristrada. Il nuovo Grande Trek africano dell'anno 2000 è il corteo di
300 auto che, agli inizi di luglio, ha attraversato tutto il Sahara. Da
Tripoli a Lomé, dalla Libia al Togo, dal Mediterraneo all'oceano Atlantico:
cinquemila chilometri lungo piste solitarie e grandi dune di sabbia, con
passaggi trionfali alle frontiere di Niger, Burkina Faso e Ghana. I suoi
ingegneri stanno progettando la prima vera strada transahariana della storia
dell'umanità, da Tripoli a N'Djamena in Ciad. E sognano addirittura un treno
del Sahara.
Gheddafi, nuovo Faraone, uomo dai simboli forti, riesce a costringere Blaise
Compaoré e Jerry Rawlings a smuoversi dalle loro capitali per andare a
perdersi in lontani confini, pur di accogliere il leader libico. Non si
possono ignorare le mosse dell'uomo che ha in mano la cassaforte del
petrolio del Nord Africa!
In questi mesi, i leader africani, convinti o scettici, grati o
controvoglia, sono comunque andati tutti in pellegrinaggio a Tripoli. Lo
Zimbabwe di Robert Mugabe è stremato da una irrisolvibile crisi energetica?
La Libia riempie i depositi di benzina di Harare. Il Malawi ha un disperato
bisogno di aiuti agricoli? Magari non serviranno a molto, ma Gheddafi non ha
esitato a donare al piccolo e lontanissimo paese dell'Africa australe un
centinaio di trattori. E i caschi blu, ostaggi dei miliziani del Ruf in
Sierra Leone, sono stati trasportati in salvo, in Liberia, da elicotteri
libici.
Tripoli non esita a inviare mediatori perfino nelle lontanissime Filippine:
il figlio di Gheddafi, Saif, è riuscito a ottenere la liberazione degli
ostaggi occidentali da mesi in mano nel gruppo islamista Abu Sayyaf. I
ribelli musulmani hanno preteso che Tripoli investisse oltre 20 milioni di
dollari nelle regioni islamiche dell'arcipelago. Gli ostaggi liberati sono
stati riconsegnati, con i ringraziamenti degli ambasciatori di Francia e
Germania, nella stessa vecchia capitale libica.
Gheddafi, tra i più longevi capi di stato africani, al potere da 31 anni pur
senza avere formalmente, da più di venti anni, nessuna carica pubblica, non
nasconde certo la sua ambizione da "padre dell'Africa": appare, come
mediatore, in ogni conflitto del continente, dal Congo al Corno d'Africa,
dalla Somalia al Sudan. Non ottiene molti risultati, ma i suoi uomini
sembrano infaticabili diplomatici, tessitori di ogni dialogo, di ogni
possibile intesa come di ogni intrigo. E, fra un progetto panafricano e l'
altro, il leader libico ha trovato anche il tempo per la politica interna.
Con effetti degni di un tornado: a marzo, in poche ore, ha smantellato lo
stato centralizzato libico. Ha cancellato, con un colpo di prestigio, 14
ministeri su 19. Ha delegato le loro funzioni a poteri locali.
Solo i dicasteri di esteri, finanze, giustizia e sicurezza nazionale,
informazione e turismo sono sopravvissuti alla nuova rivoluzione
ghedaffiana. Ma anche un nuovo ministero è apparso nella geografia
amministrativa di Tripoli: dedicato all'unità africana, ovviamente.
Paradosso Gheddafi: solo poco più di un anno fa, la Libia aveva spezzato l'
isolamento internazionale consegnando a un tribunale scozzese (trasferitosi
in Olanda grazie a surreali e intricati artifizi giudiziari) i due cittadini
libici sospettati per l'attentato di Lockerbie. Subito dopo le Nazioni
Unite, ad aprile '99, avevano revocato l'embargo che, per sette anni, aveva
sigillato le frontiere aeree di Tripoli. E da allora Gheddafi non ha perso
tempo: in pochi mesi il paria della comunità internazionale, l'uomo che
Anwar al-Sadat aveva liquidato come "pazzo" e che Ronald Reagan aveva
cercato di uccidere bombardando, senza nessun scrupolo, la capitale della
Libia, è diventato un leader corteggiato, vezzeggiato, invidiato.
Prodigio delle capriole: tra un mese sarà la prestigiosa rivista National
Geographic a pubblicare un articolo-osanna sul leader libico. Come dire:
disco verde anche dagli americani. (Ma Nigrizia aveva intuito questa
"rinascita di un capo": cfr dossier 4/98, ndr). Gheddafi si è trasformato da
"terrorista"a uomo chiave di ogni equilibrio nel Mediterraneo, da "demonio"
a diplomatico itinerante di ogni intesa fra Europa e Nord Africa. La sua
ultima metamorfosi è stupefacente: è lui il filosofo visionario della nuova
Africa.
E pensare che Gheddafi, per 22 anni, aveva ignorato con disprezzo ogni
vertice africano. L'Oua, per lui, non esisteva, non aveva alcun potere, né
tantomeno legittimità. E, invece, a luglio '99, il leader libico è riapparso
a un incontro panafricano: atterrò, con solenni scenografie, al summit
algerino dell'Organizzazione degli stati africani. Ritorno da par suo:
Gheddafi rifiutò, con sdegno, le suite dell'hotel Sheraton ("Un simbolo dell
'imperialismo") che il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika gli aveva
riservato e montò la sua sontuosa tenda beduina proprio davanti al palazzo
in cui si svolgeva il vertice. L'Oua, riconoscente, ha ripagato la
ricomparsa africana di Gheddafi convocando un incontro straordinario dei
capi di stato africani, nel settembre dello scorso anno, proprio a Sirte, la
Brasilia libica: era la consacrazione del kaid libico, la celebrazione
solenne del trentennale della "sua" Rivoluzione che, il 1° settembre del
1969, aveva rovesciato, senza sparare un solo colpo di fucile, la monarchia
corrotta di re Idriss e demolito il potere delle grandi compagnie
petrolifere anglo-americane sul Nord Africa. E proprio a Sirte, dodici mesi
fa, Gheddafi annunciò una nuova rivoluzione: decretò il tramonto dell'utopia
panaraba vagheggiata in anni giovanili e l'avvento del sogno di un'era dell'
Africa. Il leader libico spiegò che erano maturi i tempi dell'unità del
continente, che questo era il secolo degli Stati Uniti d'Africa. Nessuno
poteva permettersi di ignorare le visioni e i progetti di Muammar Gheddafi:
i ministri degli esteri dei paesi africani furono costretti a lavorare su
una Carta fondamentale di un possibile federalismo continentale. A Lomé,
ultimo vertice dell'Oua, nel luglio scorso, è Gheddafi, principale
finanziatore dell'incontro, a dettare, con il fastidio dei paesi anglofoni,
l'agenda dei prossimi passi politici dell'Africa. Nessuno, in fondo, fra i
navigati capi di stato africani ci crede veramente, ma tutti assecondano
(fingono?) gli slogan di Gheddafi: in Togo il progetto di unità africana
(con tanto di parlamento e corti giudiziarie comuni) viene formalmente
approvato.
L'Africa è la nuova ossessione gheddafiana. La Rivoluzione, al-Fatah, sembra
dimenticata. Perfino gli alberghi della Libia hanno cambiato nome: i fonduq
al-Fatah sono diventati fonduq Africa. I pittori degli innumerevoli cartelli
osannanti che troneggiano in ogni grande strada e piazza delle città libiche
hanno lavorato duramente in questi mesi: un Gheddafi privo di rughe, avvolto
nel suo cheche beduino, gli occhi protetti da occhiali scuri, alza la sua
testa orgogliosa verso il profilo di un'Africa nera. Quasi scomparso perfino
il verde, simbolo dell'unità araba. Nel telegiornali libici, la cartina di
sfondo, alle spalle dello speaker, non raffigura più solamente il mondo
arabo, ma si estende ai confini dell'intero continente. Gheddafi, confortato
dall'amicizia e dall'appoggio del Grande Vecchio dell'Africa, Nelson
Mandela, sa (si illude?) di poter ottenere ascolto nelle capitali africane,
sa (questo è sicuro) di poter contare sulla ricchezza del suo petrolio e
niente può impedirgli di cullare l'utopia africana. Lo scorso aprile è
andato a dirlo, con parole di fuoco, anche al primo vertice euro-africano
del Cairo.
Furono, allora, giornate esemplari e illuminanti: davanti alla tenda di
Gheddafi, questa volta piantata nei giardini presidenziali del palazzo di
as-Salam, i leader europei (Prodi, D'Alema, Aznar, Chirac, Schröder) fecero
la fila (e lunghe anticamere) pur di essere ricevuti dal leader libico.
Gheddafi accolse tutti con studiata cortesia beduina, ne ascoltò i
suggerimenti e i consigli e poi entrò (con un ritardo ad effetto, vestito
con un ieratico e elegantissimo kaffettano marrone) nella sala del grande
summit (presenti 67 capi di stato), prese il microfono e non lo lasciò per
ben 45 minuti (invece dei 10 concordati) e non esitò a pronunciare il suo
brusco atto di accusa: "È stato il capitalismo a generare i mali diabolici
che tormentano l'Africa e i suoi popoli". I leader europei, sconcertati e
feriti nel loro amor proprio, bollarono il discorso di Gheddafi come "un
anatema deludente", ma le agenzie di stampa africane annotarono entusiaste:
"Parole di grande saggezza". Sicuramente Gheddafi, leader giovane con i suoi
58 anni, segnerà, con i suoi simboli e i suoi giochi da spericolato
equilibrista, i primi anni dell'Africa del nuovo millennio.
GLI AFFARI DI ROMA
Saif al-Islam Gheddafi, ingegnere e figlio del kaid libico, ha soppesato le
parole e le ha pronunciate con lentezza: "Alcune banche italiane ci hanno
offerto una linea di credito per un miliardo di dollari. Serviranno a
finanziarie progetti che potranno essere realizzati in Libia". Il giovane
figlio di Gheddafi sta facendo le sue prime prove internazionali e, lo
scorso luglio, ha scelto la singolare platea del new trends meeting,
organizzato a Roma dal Consiglio nazionale delle ricerche, per aprire ancor
di più le porte della Libia agli imprenditori italiani. Lasciando
intravedere sogni miliardari.
Non è certo una novità: l'Italia è, da sempre, anche negli anni più cupi, il
primo partner della Libia di Gheddafi. Un terzo della benzina italiana
proviene dai pozzi libici. Tra due anni entrerà in funzione il gasdotto che
allaccerà il deserto libico ai terminali di Gela e trasporterà in Europa il
gas libico: sei-otto miliardi di metri cubi ogni anno, il 14% dell'attuale
consumo italiano, un contratto, per l'Eni, che supera gli 8mila miliardi l'
anno.
Non è stato sicuramente per caso che sul primo volo "legale" verso la Libia,
il 15 aprile del 1999, poche ore dopo la sospensione dell'embargo aereo,
abbia viaggiato un prestigioso e interessato Gotha del mondo degli affari
italiano: i più alti dirigenti di Eni, Finmeccanica, Ance e Impregilo
(petrolio, meccanica, costruzioni) sbarcavano in Libia accompagnati da alti
diplomatici della Farnesina e dai banchieri dell'Ubae, la banca italo-libica
fondata nel lontano '72 con la compiaciuta benedizione di Giulio Andreotti.
E gli uomini dei grandi affari erano solo una retroguardia: il ministro
degli esteri Lamberto Dini si era precipitato a Tripoli quasi in
contemporanea con la revoca delle sanzioni Onu contro la Libia. Il
presidente onorario della Fiat, Giovanni Agnelli, a maggio '99, era volato a
Tripoli con un aereo personale e con l'imbarazzo dell'ufficio stampa del
gruppo torinese che si affannava a smentire un incontro con Gheddafi. Un
pulviscolo di piccoli imprenditori veneti, emiliani, toscani, campani già da
tempo faceva la spola fra Roma e Tripoli.
A dicembre dello scorso anno, vi era stata anche la consacrazione delle
nuove relazioni fra Italia e Libia: Massimo D'Alema, primo ministro
italiano, primo leader europeo a saltare le onde del Mediterraneo, era
entrato, dopo qualche ora di attesa, nella tenda di Muammar Gheddafi montata
nella caserma tripolina di Bab al-Aziziyya, la stessa che Reagan fece
bombardare nel 1986 (e le rovine del palazzo centrato dalle bombe americane
non sono state rimosse).
In fondo l'abbraccio fra l'ex-premier e il leader libico si limitava ad
alzare un sipario ufficiale sulla realtà concreta dei rapporti fra i due
paesi. Il ponte degli affari fra la Libia e l'Italia (nonostante le
difficoltà che, recentemente, sta attraversando l'Impregilo, grande impresa
di costruzioni del gruppo Fiat) era da tempo un'autostrada: la Lafico, la
Libyan Arab Foreign Bank, possiede da tempo il 4,75% della Banca di Roma
(contrappasso storico: fu proprio il Banco di Roma il principale
finanziatore delle campagne di conquista della Libia agli inizi del '900) e
percentuali azionarie della stessa Eni. E ben pochi conoscono fino in fondo
la geografia delle proprietà libiche (alberghi, tipografie, piccole aziende,
pacchetti azionari, ingenti quantità di certificati di deposito delle
principali banche) in Italia. Le parole estive del figlio di Gheddafi sono
nuovi, concreti miraggi per gli uomini di affari italiani: Saif al-Islam
Gheddafi chiede di investire in agricoltura, nel turismo, nella farmaceutica
e nelle ricerche minerarie. Orecchie attente hanno ascoltato le sue
lusinghe: "Potete costruire e gestire le strade e le ferrovie che
attraverseranno il Sahara".
Ai primi di agosto Dini ha incontrato Gheddafi a Tripoli per "rilanciare un
dialogo politico ed economico a tutto campo". Questo mese dovrebbero
diventare operativi gli accordi bilaterali del '98".
TRIPOLI, PAROLA D'ORDINE: BUSINESS
Nella Libia del dopo-embargo questi sono mesi di tranquilla frenesia. Nelle
hall dei grandi alberghi di Tripoli si infittiscono gli incontri di affari,
si ingrossa il corteo di funzionari di multinazionali e il bivacco di
padroncini di aziende venete o emiliane. Tutti sono ansiosi di partecipare
al "business Libia". Perfino gli americani, nonostante le condanne del
senato di Washington, sono riapparsi a Tripoli. Giovani libici passano il
loro tempo al telefonino, nuovo status symbol del Nord Africa. Gli internet
caffè (con linee che funzionano a singhiozzo) spuntano in ogni angolo della
città. Lucenti e costose auto nuove si ingolfano in un traffico sempre più
caotico. Business è la parola d'ordine della nuova Libia. Si moltiplicano i
corsi di inglese, si cercano, con affanno, i contatti giusti con le capitali
europee. Euforia da post-embargo?
"Non si faccia illudere - avverte un attento diplomatico occidentale -.
Questo è un momento di confusione: nessuno può fare previsioni credibili sul
futuro.
L'amministrazione pubblica, con l'abolizione di quasi tutti i ministeri,
annaspa nel caos. La Libia non è cambiata: anzi, vi è malumore. Troppi
disoccupati, troppi sogni che non possono essere soddisfatti, troppi ragazzi
che non possono sposarsi perché non avranno mai una casa. Tutti vogliono
fare affari, tutti vogliono lavorare con i turisti, ma pochi ci riusciranno.
Le nuove disuguaglianza fra ricchi e poveri creeranno serie tensioni. E sarà
una novità per la società libica. Come è una novità che adesso si parli con
molta libertà".
L'Africa, tanto sognata da Gheddafi, non emoziona i ragazzi di Tripoli. Tutt
'altro: i neri immigrati (da Mali, Sudan, Niger, Nigeria) sono malvisti a
Tripoli. Liquidati con offese umilianti, relegati sugli ultimi gradini della
scala sociale, costretti ai lavori più poveri. E, nel paese più ricco dell'
Africa, si avvertono segnali contraddittori di allarme, di preoccupazione
sociale. "Da quattro mesi non riscuoto uno stipendio", racconta un giovane
dipendente dell'acquedotto di Tripoli. E come sopravvivi? Risposta degna di
una Sibilla: "Mi raccomando a Dio". Non si riesce a saperne di più: ma il
suo cellulare squilla di continuo e la sua macchina è lucente e nuova.
Un altro ragazzo rivela: "Ho una laurea in economia e non so cosa farmene.
Come tutti i miei compagni di università. Lavoro con i turisti perché
conosco le lingue e, fuori stagione, faccio il barista". La Libia, ricca e
potente (il prodotto interno lordo più alto di tutta l'Africa, pochi
abitanti e giacimenti ancora immensi di petrolio), ha ancora un volto da
sfinge araba. Certo, è una sfinge eccitata dalle novità, un misterioso
animale mitologico che ha fretta e che intuisce di volersi muovere, ma è
ancora capace di enigmi irrisolti.
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