politica militare e governo



Propongo alla comune riflessione qualche appunto sul governo e la politica militare.
Enrico Peyretti
 
 
 

Politica italiana

DAL MINIMO DI GUERRA AL MASSIMO DI PACE

 

Le tensioni interne al composito movimento pacifista e nonviolento hanno superato alcuni momenti di maggiore asperità (nell’estate, sul rinnovo della missione in Afghanistan), ma rimangono differenze tra chi condanna la politica internazionale del governo e chi la critica con responsabile cautela. Nessuno la approva semplicemente.

La quantità crescente di spese militari per armamenti pesanti e troppi, e per mantenere un eccesso di personale professionale nell’esercito; il rinvio tacito e inspiegabile del ritiro dall’Iraq e la permanenza sempre meno spiegabile in Afghanistan, per una concezione ancora troppo militare dei conflitti; la sopravvivenza, nella classe politica e di governo, di retorica nazionale e soldatesca di fronte a dolori, errori e orrori delle politiche armate; la continuazione della passività italiana davanti alla presenza nucleare illegale e espansiva (base di Vicenza) degli Stati Uniti sul nostro territorio: ecco, dopo sei mesi, diversi motivi di delusione nei tanti cittadini che hanno votato la coalizione di centro-sinistra per avere una più chiara politica di pace. Penso che, d’altra parte, dobbiamo riconoscere al governo tentativi positivi sul piano diplomatico, anche per una conferenza globale sul Medio Oriente; sostegno ad azioni dell’Onu (come la presenza in Libano, ora diventata più difficile) riduttive dello sciagurato unilateralismo statunitense; contatti per costruire una politica mediterranea di collaborazione pacifica. Ma rimangono i pesanti motivi di critica appena detti.

Se mi è permessa una notazione personale, sono stato anch’io tra quelli che, nei mesi scorsi, hanno proposto pazienza e fiduciosa attesa verso la politica estera del governo attuale, e hanno ricevuto per questo critiche pesanti, quasi delle scomuniche, da amici e compagni nel comune impegno per la pace e la nonviolenza, quasi come traditori di questi valori.

Oggi credo che dobbiamo, al tempo stesso, disapprovare la politica militare di questo governo, e difendere questo governo. Le alternative che si vanno ventilando – non è difficile prevederlo - farebbero una politica peggiore, non solo sul piano militare, ma in tutti gli altri settori. Criticare il governo e appoggiarlo non è contraddizione, ma libera relazione di stimolo. Farlo cadere sarebbe un nuovo peggiore danno per la pace.

Questa posizione ci permette e ci impegna - in corretta competizione culturale e politica con le altre componenti della coalizione, in collaborazione con le sue componenti più sensibili al pensiero della pace - ad esigere dal governo dei passi avanti più significativi in una politica internazionale che riduca progressivamente e continuamente lo strumento militare platealmente controproducente e disastroso; che sviluppi la cooperazione sociale e culturale tra i popoli, privilegiando i più bisognosi e oppressi; che promuova la mediazione civile, l’intervento nonviolento a prevenire i conflitti, e l’azione internazionale corretta, non imperiale ma secondo la Carta dell’Onu, a moderarli e placarli, dissociando l’Italia dai coinvolgimenti in alleanze bellicose e in istituzioni belliche, come è la Nato dal 1999.

Naturalmente, a parte le loro idee personali, i governanti legittimamente si chiedono se l’opinione pubblica li seguirebbe in una più decisa politica di pace. Noi non ci facciamo troppe illusioni. Come nella classe politica, così nella popolazione in generale è carente una positiva cultura di pace, in grado di articolare in passi concreti il bell’obiettivo desiderato. Ci sembra che la popolazione (a parte settori razzisti e bushisti) sia contro la guerra, contro le guerre folli di questi anni (anche, ma non solo, per paura), ma che attenda di vedere vie politiche di pace, per sperare che la pace non resti un sogno fuori dalla politica, e un motivo di disperazione storica.

Se la politica di governo desse segnali sempre più chiari, e non equivoci, di voler procedere senza esitazioni dal minimo di guerra al massimo possibile di pace, se desse risposte non contraddittorie alla cultura di pace che fermenta nelle coscienze più attente e laboriose, allora farebbe la parte che la politica può fare, nei suoi limiti, per incoraggiare la morale popolare a passare da interessi stretti ed egoisti, monetari, che spesso la infettano (anche e specialmente in chi vive nel benessere), alla sensibilità per le sorti del mondo, per il dolore e l’offesa alla vita della maggioranza dell’umanità depredata,  esclusa, colpita.

In questa sensibilità sta la nostra dignità. Vivere senza obiettivi di valore umano e umanizzante è la massima miseria dei sazi avari. Ogni essere umano, anche quando non è capace di vederli, ha bisogno di tali obiettivi. La politica, contro quel che sembra, segue e non guida la società, ma interagisce con la società e ha compiti anche decisivi. Il pensiero della pace sente sempre più la propria responsabilità politica, oltre la dichiarazione ideale e morale. Esso chiede, vuole, attende che la politica comprenda e decida con maggiore chiarezza e coerenza che il suo senso e scopo è la pace positiva, cioè la gestione vitale, e mai mortale, mai omicida, dei conflitti umani.

La politica non è solo uno spietato gioco di forze, ma un confronto di valori e argomenti, di scopi, di idee, di numeri. I nostri numeri non sono grandi, ma sono grandi i valori e gli scopi. Facciamo che la politica abbia valore. La politica è costruzione di pace con mezzi pacifici, altrimenti non è politica, non è arte e lavoro della convivenza, ma «magnum latrocinium». La cultura costituzionale italiana, giustamente plurale, che si è difesa da culture incivili e affermata, sebbene di poco, negli ultimi voti popolari, non può essere al di sotto di quella qualità e dignità umana.

Enrico Peyretti (22 novembre 2006)

 

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