Voci e volti della nonviolenza. 299



==============================
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 299 del 9 febbraio 2009

In questo numero:
Gianni Canova: Zhang Yimou (2004)

CINEMA. GIANNI CANOVA: ZHANG YIMOU (2004)
[Dal mensile "Letture", n. 607, maggio 2004, col titolo "Zhang Yimou" e il
sommario "Con la sua produzione di qualita', il cineasta di Lanterne rosse
ha aiutato l'Occidente a capire meglio la Cina, a farla percepire senza i
veli ingannevoli dell'esotismo e senza le maschere deformanti
dell'ideologia"]

Negli ultimi vent'anni, pur fra mille ostacoli e infinite difficolta', il
cinema cinese ha svolto un ruolo di primo piano nel processo di
avvicinamento reciproco fra Oriente e Occidente. Il merito va soprattutto a
quel gruppo di cineasti che, formatisi prevalentemente alla Scuola di cinema
di Pechino negli anni immediatamente successivi al furore iconoclasta della
cosiddetta Rivoluzione culturale, ha intrapreso un paziente lavoro di
ritessitura e di riscrittura creativa della storia e dell'identita' del
proprio Paese, osservandolo con uno sguardo scevro da pregiudizi e teso a
collegare i rapidi e violentissimi processi di modernizzazione con una
vicenda che ha radici e tradizioni millenarie e con una cultura di
straordinario fascino e di imprevedibile complessita'.
Zhang Yimou e' senz'altro l'esponente di punta di questo rinnovamento: nato
il 14 novembre 1950 a Xi'an, capoluogo dello Shaanxi, nella Cina
settentrionale, figlio di un ex ufficiale del Kuomintang considerato un
controrivoluzionario dal regime maoista e per questo sottoposto, con tutta
la sua famiglia, a una serie infinita di boicottaggi, punizioni e
"rieducazioni" da parte delle autorita' cinesi, Zhang vive sulla propria
pelle le durezze e le violenze della Rivoluzione culturale, e' costretto per
lunghi anni a fare il contadino e a sottoporsi al duro lavoro dei campi,
quindi per sette anni e' obbligato a lavorare in una fabbrica tessile, prima
come operaio e poi come disegnatore. Ma dopo la morte di Mao il 13 settembre
1976 la nuova leadership di Deng Xiaoping inaugura una stagione di
liberalizzazione e normalizzazione che prevede tra l'altro, nel 1978, la
riapertura della Scuola di cinema di Pechino, chiusa dal 1966. Zhang -
benche' abbia gia' superato l'eta' massima prevista dal bando - scrive
direttamente al ministero della Cultura e chiede una deroga: la sua domanda
di ammissione viene accolta e il futuro regista e' ammesso al Dipartimento
di fotografia dell'istituto. E' l'inizio di un percorso che lo portera' a
sperimentare tutti i mestieri del cinema (operatore alla macchina, direttore
della fotografia, cosceneggiatore, perfino attore) e quindi, passato alla
regia, ad affermarsi abbastanza in fretta (anche grazie ai premi e ai
riconoscimenti attribuiti ai suoi film nei piu' importanti festival di
cinema internazionali) come l'esponente di punta - assieme a Chen Kaige - di
quella che i cinesi chiamano la "Quinta Generazione" di cineasti.
*
Uno sguardo sul cinema cinese
Il sistema di classificazione dei registi adottato in Cina e' radicalmente
diverso rispetto a quello usato in qualsiasi altra parte del mondo. Invece
che in base a una poetica comune, o in virtu' dell'adesione a un dato
movimento cinematografico, i registi cinesi sono classificati infatti in
relazione al periodo del loro debutto. Dalle origini del cinema sino alla
fine degli anni Novanta, in Cina si contano cosi' "sei generazioni" di
cineasti: la Prima e' quella del periodo del muto e va dal 1905, anno della
nascita del cinema in Cina, fino al 1931; la Seconda, che opera dal 1931,
data di affermazione del cinema sonoro, sino alla proclamazione della
Repubblica popolare cinese del 1949, e' legata soprattutto agli studi di
produzione di Shanghai ed e' conosciuta come la generazione del "cinema
umanista e progressista"; la Terza agisce dal 1949 fino all'inizio della
Rivoluzione culturale maoista nel 1965, ed e' conosciuta come la generazione
del "realismo socialista"; la Quarta Generazione e' quella che muove i primi
 passi intorno al 1978 (dopo il periodo buio della Rivoluzione culturale,
che blocca per oltre un decennio qualsiasi attivita' produttiva) e annovera
cineasti come Wu Tianming e Xie Fei, che hanno il merito di rimettere in
moto la produzione e di introdurre alcune prime timide innovazioni sul piano
stilistico; la Quinta Generazione e' quella che comincia a lavorare dopo il
diploma conseguito nel 1982 alla Scuola del cinema di Pechino (riaperta,
come si diceva, nel 1978) ed e' formata da cineasti come Chen Kaige, Tian
Zhuangzhuang e Zhang Yimou che ridanno un'identita' al cinema cinese e lo
fanno conoscere in tutto il mondo; la Sesta Generazione esordisce, piu' o
meno clandestinamente, all'indomani dei fatti di Piazza Tienanmen, e' a
tutt'oggi attiva e ne fanno parte - oltre che filmaker legati alla ricerca e
alla sperimentazione underground - anche registi noti in Occidente come Zhan
Yuan (Diciassette anni, 1999) e Wang Xiaoshuai (Le biciclette di Pechino,
2001). C'e' anche una Settima Generazione, che comincia a esordire
all'inizio del nuovo secolo e trova probabilmente in Jia Zhangke (Platform,
2000) il suo esponente di maggior talento.
In questo quadro complessivo, il ruolo della Quinta Generazione e'
senz'altro decisivo: definita da piu' fonti come la "nouvelle vague del
cinema cinese", opera un profondo rinnovamento nei temi e nei linguaggi,
rivendica la necessita' di emancipare la forma cinematografica dalla
dittatura dei contenuti ideologici imposti negli anni del maoismo, si apre
al confronto con le altre cinematografie e con le ricerche espressive
condotte a livello internazionale pur senza rinunciare a fare del cinema, al
tempo stesso, il prodotto e il riflesso della societa' e della cultura del
proprio Paese. Zhang Yimou, che dopo il diploma conseguito nel 1982 a
Pechino viene mandato a lavorare negli studi del Guanxi, ai confini con il
Vietnam, svolge un ruolo-chiave nell'affermazione di questa nuova tendenza:
lavora infatti come direttore della fotografia nel primo film realizzato
proprio a Guanxi da un cineasta della Quinta Generazione (Uno e otto,
diretto nel 1984 da Zhang Junzhao), quindi firma - sempre come direttore
della fotografia - due film-manifesto come Terra gialla e La grande parata,
entrambi diretti da Chen Kaige nel 1985, segnalandosi per la sua meticolosa
ricerca sul colore e sulla composizione delle singole inquadrature, infine
accetta di collaborare (come co-sceneggiatore, direttore della fotografia e
perfino come attore) a Vecchio pozzo (1986) di Wu Tianming, in cambio della
promessa che dopo questo lungo apprendistato gli sara' finalmente concesso
di passare dietro la macchina da presa e di dirigere da regista il suo primo
film.
*
In principio fu Sorgo rosso
Il film d'esordio di Zhang Yimou alla regia (Sorgo rosso, 1987) segna un
momento importantissimo nello sviluppo e nell'affermazione della nouvelle
vague del cinema cinese: non solo perche' e' il primo film cinese che vince
un premio prestigioso in uno dei piu' importanti festival internazionali
(l'Orso d'oro a Berlino nel 1988), ma perche' la pellicola riscuote un buon
successo di pubblico in patria e fa conoscere immediatamente il suo autore
sulla scena mondiale (in Italia, ad esempio, muove perfino l'interesse di un
maestro come Sergio Leone, che in una dichiarazione a un quotidiano ha
parole di caldo elogio nei confronti del film). Ambientato in una zona
imprecisata della provincia cinese degli anni Venti, e tratto da due
racconti dello scrittore Mo Yan, il film racconta una vicenda in bilico fra
melo, western ed epopea rurale: una giovane fanciulla viene data in moglie
dalla famiglia, in cambio di denaro, a un vecchio lebbroso, proprietario di
una distilleria di grappa. La ragazza fa di tutto per sottrarsi al contatto
con il vecchio e intanto allaccia un rapporto con un aitante facchino che,
innamoratosi di lei, uccide il marito e reclama la giovane per se'. La donna
si concede allora all'uomo che l'ha salvata dal suo triste destino, ripudia
i genitori e decide di continuare a gestire la distilleria insieme agli
operai. L'idillio si interrompe bruscamente nel 1937, quando le truppe
giapponesi invadono la Cina e arrivano anche al villaggio in cui ha sede la
distilleria: la donna organizza la resistenza e muore eroicamente
combattendo per la liberta' del suo popolo. Abilmente costruito sulla
contrapposizione di due soli spazi diegetici - la distilleria come luogo
della tecnica e del lavoro, il campo di sorgo come luogo della natura
selvaggia e della passione - il film contiene in nuce molti degli elementi
connotativi del cinema di Zhang Yimou: l'adesione ideale dell'autore a quel
movimento culturale che nella Cina degli anni Ottanta proclama la "ricerca
delle radici" storico-antropologiche dell'identita' cinese, l'uso del
paesaggio con funzione non semplicemente decorativa, la messa a fuoco di
figure femminili coraggiose e spregiudicate, portatrici di un universo di
passioni e di pulsioni sconosciute nella visione della donna tipica della
cultura cinese tradizionale. Inoltre, proprio con questo film Zhang Yimou
inaugura il suo lungo sodalizio artistico e sentimentale con l'attrice Gong
Li (che durera' quasi dieci anni e si rinnovera' di film in film fino a La
triade di Shanghai, 1995) e sceglie di usare il colore rosso come marca
cromatica dominante, sottraendolo alla facile simbologia rivoluzionaria a
cui era stato associato dal regime maoista e ricollegandolo invece alle
valenze mitico-simboliche che esso da sempre incarna nella cultura
tradizionale cinese. Come ha affermato lo stesso Zhang Yimou, in Cina "il
rosso ha sempre rappresentato la passione, il rivolgersi al sole, il fuoco,
il sangue caldo": declinando questa dominante cromatica in tutte le
componenti della scenografia e della fotografia (dalla grappa al sole, dal
sangue alla luce), l'autore trova un elemento visivo a stratificazione
multipla che gli garantisce un forte impatto emozionale e facilita la sua
riconoscibilita' autoriale anche nel panorama complesso del cinema
internazionale.
*
Dopo Piazza Tienanmen
Dopo l'inaspettato successo di pubblico e di critica conseguito con Sorgo
rosso, Zhang Yimou paga un debito morale con Yang Fengliang, suo vecchio
compagno di corso alla Scuola di cinema di Pechino, accettando di firmare la
co-regia di Nome in codice: "Operazione Puma" (1989), un film di genere che
Zhang sente sostanzialmente estraneo alla sua poetica e a cui lavora con
distaccata professionalita'. E tuttavia la storia narrata - un caso di
dirottamento aereo che induce alla collaborazione i servizi segreti di due
governi storicamente ostili come quello di Taiwan e della Repubblica
popolare cinese - attira su Zhang le critiche della stampa piu' vicina al
regime e lo rende oggetto di una campagna quasi denigratoria. In Cina, di
fatto, sta cambiando il vento e la tragica repressione della protesta
studentesca in Piazza Tienanmen, nel giugno 1989, segna il culmine di quella
tendenza autoritaria nei confronti di ogni dissenso interno che il governo
di Deng Xiaoping sceglie di intraprendere come contrappeso politico alla
liberalizzazione economica. I film di Zhang Yimou realizzati a partire dal
1989 risentono inevitabilmente del nuovo clima, sia sul piano soggettivo
(per il cupo pessimismo che li pervade), sia sul piano oggettivo (per le
difficolta' produttive e distributive a cui vanno incontro).
Ju Dou (1990), in questo senso, ha una vicenda distributiva particolarmente
emblematica: bloccato dalla censura sul mercato interno (con la scusa di
alcune scene erotiche e del generale clima di decadenza che, a detta dei
censori, lo pervade), il film e' invitato in concorso al Festival di Cannes,
ma non vince nessun premio. Il governo cinese ritira irritato la propria
delegazione come segno di protesta, lamentando una sorta di ostracismo non
dichiarato come reazione punitiva dell'Occidente ai fatti di Piazza
Tienanmen. Anche l'anno successivo, quando Ju Dou ottiene la nomination
all'Oscar come miglior film straniero, le autorita' cinesi impediscono a
Zhang di partecipare alla cerimonia di consegna dei premi e bloccano
ulteriormente l'uscita del film per altri tre anni. A infastidire realmente
le autorita', probabilmente, e' il fatto che il film, a pochi mesi da
Tienanmen, drammatizza un violento conflitto generazionale: ambientato in un
villaggio dei primi anni del Novecento e co-diretto da Yang Fengliang
(questa volta imposto dalle autorita' per controllare e garantire
l'"ortodossia" del film), Ju Dou mette in scena con una scrittura
volutamente barocca e fiammeggiante la vicenda della giovane moglie di un
anziano e brutale tintore che la picchia e la maltratta accusandola di non
avergli saputo dare un erede. Afflitta e umiliata, la donna allaccia allora
una relazione con il giovane e mansueto nipote del marito: dal loro rapporto
nasce un figlio che, una volta cresciuto, vendichera' l'onore familiare
offeso dai genitori, facendo affogare il padre naturale in una delle vasche
di tintura e lasciando la madre, sola e disperata, a fissare il fuoco che
essa stessa ha appiccato alla tintoria. Raffinato melo sulla schiavitu'
femminile nella Cina feudale e, al contempo, amara parabola
sull'impossibilita' di vivere liberamente i propri sentimenti in un contesto
storico-culturale dominato dal conformismo e dal rigido controllo sociale,
Ju Dou segna uno dei punti piu' alti e piu' maturi della ricerca espressiva
di Zhang: fra "esasperati giochi di luce, assonanze o contrasti di colori,
inquadrature eleganti al limite della maniera" (Fabrizio Colamartino e Marco
Dalla Gassa, Il cinema di Zhang Yimou, Le Mani Editore, Genova 2003, p.
132), Zhang disegna un universo espressivo dominato dall'eccesso, in un
tripudio di colori che dai giallo-oro e dai rosso-porpora della prima parte
scivola a poco a poco verso i grigi e i neri del livido finale, in un
impianto narrativo che assume le forme e i modi del melodramma per mettere
sotto accusa il cieco ordine patriarcale che domina la societa' cinese e
l'insieme di pregiudizi e di tabu' culturali che impediscono la libera
estrinsecazione degli affetti e dei sentimenti. Gong Li - bella e altera
tanto quando si muove negli spazi angusti della tintoria quanto nelle scene
piu' intime e personali - si conferma davvero l'attrice-feticcio di Zhang
Yimou (un po' come fu Marlene Dietrich per Josef von Sternberg) e
contribuisce con la sua recitazione al contempo intensa e sfuggente,
enigmatica e fatale, a conferire al film il suo fascino magnetico e la sua
forza espressiva.
E' tuttavia solo il film successivo (Lanterne rosse, 1991) che segna la
definitiva consacrazione di Zhang Yimou sulla scena internazionale:
presentato in concorso al Festival di Venezia, il film viene premiato dalla
giuria con il Leone d'argento e conosce uno straordinario successo di
critica e di pubblico (solo in Italia viene visto da quasi 400.000
spettatori e si piazza al quarto posto assoluto nella classifica degli
incassi della stagione 1991-1992). Anche in questo caso Zhang, ispirandosi
al romanzo Mogli e concubine dello scrittore Su Tong, ambienta l'azione
nella Cina pre-rivoluzionaria, nel ricco palazzo di un potente proprietario
terriero agli inizi degli anni Venti. Al centro del suo interesse c'e',
ancora una volta, il problema del rapporto fra i sessi visto nel quadro dei
rituali e delle coercizioni della Cina feudale: Lanterne rosse narra infatti
di una studentessa universitaria che alla morte del padre e' costretta ad
abbandonare gli studi per sposare un anziano possidente che ha gia' altre
tre mogli al suo servizio. Nell'austero palazzo di famiglia in cui la
protagonista - ancora interpretata da Gong Li - viene accolta come la
"quarta signora" vige un cerimoniale rigoroso: ogni sera il padrone fa
accendere le lanterne rosse davanti all'appartamento della moglie con cui
intende passare la notte. Fra le donne circola una rivalita' serpeggiante e
sospettosa, ognuna di esse e' pronta a tutto pur di accaparrarsi i favori
del padrone e perfino la giovane Songlian - questo il nome del personaggio
interpretato da Gong Li - arriva a fingere una gravidanza per garantirsi la
vicinanza e la predilezione del marito. Verra' scoperta e punita. E finira'
per aggirarsi con aria da folle nei cortili del palazzo, mentre una nuova
moglie viene accolta nell'harem personale del padrone.
A differenza di Ju Dou, che era tutto costruito su effetti barocchi e
contrasti stridenti, Lanterne rosse e' un film composto, solenne, quasi
ieratico. Forse anche per l'influenza del produttore esecutivo Hou
Hsiao-hsien (regista taiwanese, autore del film Citta' dolente che nel 1989
aveva vinto il Leone d'oro a Venezia, inaugurando di fatto la nouvelle vague
del cinema asiatico), Zhang adotta qui uno stile rigoroso che rispetta
perfino le tre unita' aristoteliche di tempo, luogo e azione: chiuso fra le
mura di un palazzo che funziona come macchina scenica soffocante, intessuto
di inquadrature sempre molto studiate e progettate, Lanterne rosse e' un
film che mette in scena le regole, le leggi e i cerimoniali della tradizione
per sottolineare come soffochino le liberta' individuali e subordinino la
sfera degli affetti alla volonta' di un potere patriarcale che si riproduce
nei secoli identico a se stesso. L'immobilita' e la staticita' della
macchina da presa conferiscono solennita' a una storia dominata dal destino,
mentre il rito dell'accensione delle lanterne rosse (assente nel romanzo di
Su Tong da cui pure il film prende le mosse) colora di esotiche
fantasticherie una pratica brutale di dominio e di esclusione: scandito da
scritte rosse che indicano lo scorrere del tempo attraverso il succedersi
delle stagioni (ma manca non a caso la primavera), il racconto filmico e' la
potente metafora di una condizione disumana della donna che, pur riferita
alla Cina di prima della Rivoluzione, irrita di nuovo le autorita' cinesi e
condanna il film a un ostracismo simile a quello che gia' aveva colpito Ju
Dou.
*
L'avvento del contemporaneo
Ci vorra' il successivo La storia di Qiu Ju (1992) per sancire la
riconciliazione - parziale e provvisoria - del regista con il regime.
Ambientato in uno sperduto villaggio di montagna situato nel Nord del Paese,
a pochi chilometri dai luoghi in cui Zhang aveva lavorato come contadino
negli anni della Rivoluzione culturale, il film segna infatti l'approdo del
regista alla contemporaneita' e, insieme, a un'idea di cinema che si lascia
alle spalle i simboli e le allegorie dei film precedenti per tentare esiti
almeno in apparenza neorealisti. "Quando ho progettato questo film", ha
dichiarato lo stesso Zhang Yimou, "mi sono guardato indietro e ho pensato a
quanto avevo gia' fatto per fare il contrario. Come i due lati di una mano,
questo film e il precedente sono completamente differenti". In effetti, in
La storia di Qiu Ju tutte le marche connotative del precedente cinema di
Zhang (esotismo, erotismo, simbolismo) sembrano messe da parte a favore di
una scrittura filmica che, anche attraverso l'uso di attori non
professionisti e l'impiego del dialetto nei dialoghi originali, ambisce a
cogliere in modo immediato e diretto la complessita' del reale. Presentato
in concorso a Venezia, dove vince il Leone d'oro e regala a Gong Li la Coppa
Volpi per la miglior interpretazione femminile, La storia di Qiu Ju racconta
la vicenda di una contadina incinta (interpretata da una Gong Li quasi
irriconoscibile, goffa, ingrassata, appesantita dalla gravidanza) che
pretende giustizia dal capovillaggio, colpevole di aver offeso suo marito
sferrandogli un calcio nei testicoli. Verificata l'impossibilita' di
comporre la disputa a livello locale, la donna, caparbia e testarda, decide
di recarsi in citta' e di rivolgersi al tribunale: e li', nello scontro fra
la semplicita' di una contadina analfabeta e il caos della moderna vita
cittadina, il film trova le sue punte piu' riuscite e convincenti. Alla
fine, il capovillaggio si fara' perdonare aiutando Qiu Ju a partorire: ma la
giustizia compira' il suo corso burocratico decretando l'arresto dell'uomo
proprio mentre e' in corso la festa organizzata per festeggiare la nascita
del bimbo di Qiu Ju.
Alcuni studiosi tendono a collegare questo film ai tre precedenti in una
sorta di ideale "quadrilogia della donna", altri invece ritengono che gli
elementi di novita' prevalgano e vedono in questo film l'inizio di una nuova
fase nella carriera del regista. In un caso come nell'altro, La storia di
Qiu Ju e' senz'altro un film-cerniera: Zhang continua la sua riflessione sul
ruolo e l'identita' femminile nella societa' cinese, ma la trasferisce nel
vivo della contemporaneita' e sperimenta un linguaggio meno folgorante
(oltre che meno accademico) rispetto ai suoi film precedenti. Spesso Zhang
nasconde la macchina da presa per "rubare" gesti e espressioni ai suoi
attori, adotta uno stile spontaneo e immediato che sembra voler ridurre al
minimo gli artifici della messinscena e privilegia un registro da commedia
sociale invece che i toni fra il tragico e il melodrammatico che
caratterizzavano film come Ju Dou e Lanterne rosse. E tuttavia il risultato
finale e' quanto piu' lontano si possa immaginare dall'idea di un realismo
ingenuo e documentaristico: anche alle prese con una storia che non dispiace
al regime perche' celebra una figura di donna che si batte e ottiene
giustizia, sullo sfondo di una comunita' in cui i legami di solidarieta'
alla fine prevalgono sui conflitti e sulle prepotenze del potere, Zhang non
rinuncia alla sua critica ricorrente contro la struttura patriarcale della
societa' cinese, cosi' come continua a rappresentare la paura e il
disorientamento del singolo individuo di fronte alle varie forme
dell'autorita', dell'arroganza e della burocrazia.
*
In bilico fra presente e passato
Il successivo Vivere! (1994) e' in assoluto uno dei progetti piu' ambiziosi
del regista: un grande affresco corale che attraversa trent'anni di storia
cinese, dagli anni Quaranta fino all'imperversare della Rivoluzione
culturale, seguendo le disavventure di un uomo qualunque, un "inetto" che
riesce a sopravvivere prima alla guerra civile fra nazionalisti e comunisti,
poi al regime maoista e alle sue devastanti riforme (il "Grande balzo in
avanti" del 1958, la Rivoluzione culturale del 1965) allestendo per i
potenti di turno spettacoli di ombre cinesi realizzati con le marionette. Il
punto di vista adottato da Zhang e' volutamente "basso", la sua
ricostruzione storica si tiene ben lontana non solo da qualsivoglia intento
celebrativo ma anche dalle tentazioni dell'epica e dell'epopea: non c'e'
traccia di eroismo nella vicenda narrata, ma solo l'istintiva partecipazione
alle tribolazioni della gente comune, vessata dal fato e dalla Storia, e
l'umanistica adesione a esistenze mediocri che non ambiscono ad alcuna forma
di riscatto ma hanno di mira soltanto la propria sopravvivenza. Nonostante
il tono molto meno critico e radicale di altre opere coeve sullo stesso tema
(si pensi anche solo a Addio mia concubina di Chen Kaige e The Blue Kite di
Tian Zhuangzhuang), Vivere! non piace alle autorita' cinesi, che riaprono le
ostilita' con Zhang Yimou: vietandogli il permesso di uscire dalla Cina per
seguire la propria opera al Festival di Cannes, dove peraltro il film vince
il Premio speciale della giuria, il Premio della giuria ecumenica e il
Premio per il miglior attore a Ge You.
Scottato da questo ulteriore episodio di boicottaggio interno, Zhang decide
di tenersi il piu' possibile lontano dall'attualita' storico-politica e con
il successivo La triade di Shanghai (1995) adotta le strutture diegetiche e
formali del gangster movie per narrare l'apprendistato di un adolescente,
affiliato a una delle gang che controllano il mercato clandestino dell'oppio
nella Shanghai degli anni Trenta. Ultimo film realizzato dal regista con la
presenza di Gong Li nei panni della protagonista (una cantante di cabaret
tanto bella quanto cinica, pronta a tradire il boss che la protegge con il
suo giovane e aitante consigliere), il film risente del clima di rottura che
si respirava sul set durante le riprese e non riesce a essere quella robusta
parabola sull'illusoria felicita' della ricchezza che Zhang aveva in mente
di realizzare. E tuttavia, nello stesso momento in cui mostra di saper
manovrare con sicurezza e disinvoltura i canoni del genere, Zhang si
mantiene anche fedele ai suoi temi di sempre: il conflitto fra generazioni
diverse per la conquista del potere, il ruolo della donna nelle trame della
Storia, il tradimento e la vendetta come snodi narrativi dalle forti
colorazioni melodrammatiche.
E' una strumentazione tematica e formale che ormai anche l'Occidente conosce
bene e che forse non sorprende piu' come era accaduto ai lavori precedenti:
presentato in concorso a Cannes, il film viene complessivamente bistrattato
dalla critica e l'accoglienza controversa induce Zhang (abituato a veder
trionfare le sue opere nei festival europei e americani) a imprimere una
brusca virata al suo lavoro e alla sua ricerca tematica e formale. Con Keep
Cool (1997) Zhang si immerge infatti nel caos brulicante di una metropoli
della Cina contemporanea e cerca di raccontare come sia ormai il capitalismo
selvaggio a operare quell'effetto di omologazione e di azzeramento delle
radici che neppure il maoismo era riuscito ad attuare sul corpo arcaico
della societa' cinese. Frenetico e concitato, girato quasi sempre con la
macchina a mano e montato secondo i ritmi sincopati e singhiozzanti cari al
cinema postmoderno (anche a quello asiatico: si pensi per esempio ai registi
di Hong-Kong o a quelli della sesta generazione cinese, ormai affermatisi
sulla scena internazionale al punto da imporre anche un regista come Zhang
di confrontarsi con i loro modi di messinscena), Keep Cool e' una commedia
scatenata - al contempo acida ed ironica - sulla Cina neocapitalista dei
fast-food e dei telefoni cellulari, delle T-shirt firmate e dei computer,
dei grattacieli hi-tech e dell'inefficienza di qualsiasi servizio sociale.
Nel raccontare le peripezie di un placido ricercatore che vorrebbe essere
risarcito del computer che gli e' stato rotto durante una rissa, Zhang
traccia un quadro pessimista sulla realta' caotica e violenta della Cina
contemporanea, per nulla mitigato dal finale conciliante e riappacificatorio
imposto dalle autorita' per concedere alla pellicola il visto di censura.
Con questo film Zhang Yimou paga il suo pegno a chi lo accusava di non saper
o non voler catturare la mutazione politico-sociale in atto nel Paese,
mostrando non solo di comprendere la confusione in corso molto meglio di
tanti suoi colleghi piu' giovani, ma anche di disporre della strumentazione
linguistica piu' idonea per raccontare il presente. Solo che l'immersione
nella Cina contemporanea non gli interessa, ne' in chiave apologetica ne' in
un'ottica apocalittica. E infatti i suoi due film successivi tornano a
riproporre un altro punto di vista e un'altra angolazione prospettica da cui
provare a mostrare e a capire la realta' di un grande Paese in crisi di
memoria e di identita'.
*
L'estetica della semplicita'
Non uno di meno (1999) e La strada verso casa (2000) sono due film semplici
e, a modo loro, delicatamente poetici. Come per disintossicarsi dalla
frenesia stilistica e dalla congestione tematica di Keep Cool, Zhang Yimou
torna a occuparsi della Cina rurale - quella che conosce meglio, forse anche
quella che ama di piu' - e lo fa con un occhio che cerca incessantemente di
dialettizzare la realta' arcaica delle campagne con la violenta
modernizzazione in atto nelle citta'. Il primo dei due film, rifiutato dai
selezionatori di Cannes e quindi presentato polemicamente a Venezia, dove
vince l'ennesimo Leone d'oro, narra di una ragazzina tredicenne, nominata
supplente nella scuola elementare di uno sperduto villaggio di campagna, che
fa di tutto per non perdere i 10 yuan di premio che le sono stati promessi a
patto che riesca a conservare tutti gli alunni che le sono stati affidati.
Quando uno dei ragazzini lascia la scuola per cercare lavoro in citta', lei
si mette sulle sue tracce, lo segue e lo ritrova, riuscendo a farsi ospitare
in un programma televisivo in cui sensibilizza l'opinione pubblica sui
problemi delle scuole rurali. Il secondo film narra invece di un giovane
che, per assistere ai funerali del padre, torna al villaggio natio, sperduto
in mezzo a una distesa di neve, e passa alcune ore con la vecchia madre,
ascoltandola rievocare con parole commosse, in un lungo flashback dai colori
caldi e solari, l'inizio della storia d'amore con l'uomo che sarebbe
diventato suo marito. Abbandonati i turgori melo del suo cinema degli
esordi, cosi' come la pretesa di adeguare il linguaggio a una modernita'
sfuggente e imprendibile, Zhang Yimou adotta in questi film uno sguardo
intimo e poetico per ribadire la centralita' della memoria e della cultura.
Quasi inseguendo una poetica della semplicita' che e' tanto piu' suggestiva
quanto piu' controcorrente rispetto ai gusti e alle tendenze del cinema
contemporaneo, qui Zhang sfiora a volte il calligrafismo (come in certi
controluce poetizzanti nei capelli della protagonista in La strada verso
casa, o in certi sguardi ai limiti dell'idillio sulla bellezza della
natura), ma poi ricuce le tentazioni nostalgico-elegiache entro uno sguardo
pudicamente "neorealista" che sa raccontare, con accenti di assoluta
sincerita', la bellezza dei sentimenti e la prosaica poesia del quotidiano
nella vita della gente comune. Lo spirito polemico non e' del tutto assopito
(si pensi anche solo alla denuncia dell'eccessiva importanza del denaro
nella Cina post-maoista in Non uno di meno, o alla critica della
globalizzazione in atto, evidente in certi dettagli di La strada verso
casa), ma e' come stemperata in un atteggiamento di umanistica condivisione
per la tormentata vicenda di un popolo che sta cercando, tra mille
difficolta', di trovare una nuova identita' dopo la temperie
storico-politica che nel corso del Novecento ha travolto una memoria e una
tradizione millenarie.
Gli ultimi due film realizzati finora da Zhang Yimou arricchiscono
ulteriormente il quadro fin qui delineato. La locanda della felicita' (2001)
torna sul tema, gia' rintracciabile nei due film precedenti, della crisi
della paternita' nella Cina contemporanea: per compiacere la futura moglie
che lo crede ricco, un cinquantenne disoccupato, ex operaio, finge di essere
proprietario di un albergo di lusso, e accetta di assumere alle sue
dipendenze la figliastra cieca della sua futura sposa. Il protagonista
allestisce cosi' una grande finzione: la ragazza deve credere di lavorare in
una sauna, di cui i suoi amici operai si prestano a fingersi clienti. La
ragazzina scopre pero' l'inganno e pur essendosi affezionata a quell'uomo
come al padre che non ha mai avuto, lo abbandona e si ritrova a girovagare,
sola e sperduta, per le strade di una citta' a lei ignota. Co-prodotto, tra
gli altri, dal regista americano Terrence Malick, il film imbastisce una
lucida metafora sul potere della finzione e registra con sobrio pessimismo
uno scenario sociale in cui non solo la famiglia ha cessato di esercitare
sull'individuo i condizionamenti dolorosi e coercitivi che Zhang aveva
denunciato nei suoi primi film, ma in cui, paradossalmente, tutti i
personaggi sono senza famiglia, e brancolano nel buio della solitudine e
dell'emarginazione alla ricerca di una pur illusoria possibilita' di
affetto, di contatto e di relazione.
*
Eroi cinesi del secondo tipo
Il piu' recente lavoro del regista (Hero, 2002) segna invece una svolta piu'
netta o, forse, marca al contempo un bilancio consuntivo e un rilancio
prospettico: con a disposizione un budget di 31 milioni di dollari (e' lo
sforzo produttivo piu' importante mai compiuto dal cinema cinese per
accreditarsi sul mercato internazionale con un prodotto altamente
competitivo), con un direttore della fotografia del prestigio di Christopher
Doyle (collaboratore abituale di Wong Kar-wai, nonche' autore della
splendida fotografia di Psycho di Gus Van Sant) e con un cast che comprende
alcune delle piu' grandi star del cinema dell'Estremo Oriente (Jet Li, Tony
Leung, Maggie Cheung), Zhang firma un kolossal ascrivibile al genere
tradizionale del wuxiapian (il "film marziale di cavalieri erranti")
ambientato nella Cina del III secolo a.C., durante il cosiddetto periodo
degli "Stati combattenti" che avrebbe portato il re di Qin a riunire sotto
un unico regno tutto il territorio cinese e ad autoproclamarsi imperatore.
L'operazione compiuta da Zhang richiama quella messa in atto dal regista
cinoamericano Ang Lee con La tigre e il dragone (2000) e, prima ancora,
quella realizzata da Chen Kaige con L'imperatore e l'assassino (1999),
incentrato non a caso sullo stesso personaggio storico del re di Qin, unico
fra gli imperatori cinesi apprezzato dal regime comunista per essere
riuscito, appunto, a unificare tutta la Cina "sotto un unico cielo". Ma e'
proprio su questa scelta che si appuntano le critiche rivolte al regista
soprattutto dalla stampa americana: Zhang Yimou viene infatti accusato di
essersi servito del patrimonio della cultura tradizionale cinese per far
passare un messaggio ideologico in linea col regime. In realta', da un certo
punto di vista e' vero che "l'eroe, questa volta, non e' chi agisce contro
il sistema in nome della propria liberta' individuale, bensi' colui che
annulla la propria vita in favore del destino collettivo" (Fabrizio
Colamartino e Marco Dalla Gassa, Il cinema di Zhang Yimou, op. cit., p.
208). E tuttavia e' anche vero che Zhang inserisce questa operazione in una
struttura narrativa fatta di flashback incapsulati l'uno nell'altro, con gli
stessi fatti che vengono narrati ogni volta da personaggi diversi e a
partire da punti di vista differenti, un po' secondo il modello di Rashomon
(1950) di Akira Kurosawa, in modo che quel che ne risulta, alla fine, e'
un'operazione tutta teorica condotta sul corpo vivo del Mito: a fronte di
una narrazione leggendaria continuamente soggetta a rielaborazioni, Zhang
lavora al recupero e alla riproposta in chiave spettacolare del patrimonio
mitologico della cultura tradizionale cinese. L'eroe, non a caso, si chiama
Nameless ("senza nome") ed e' colui che, grazie al suo sacrificio, rinuncia
alla propria identita' per consentire al popolo cinese di costruirsene una.
Con il suo messaggio dichiaratamente pacifista (l'obiettivo finale del
guerriero e' di abbandonare la spada e portare al mondo la pace), Hero segna
davvero il culmine della ricerca artistica ed espressiva di Zhang Yimou e le
conferisce un singolare andamento chiasmico: dalla messa a fuoco di
personaggi ribelli di fronte alle ingiurie della Storia e alle coercizioni
della societa', Zhang passa a celebrare personaggi che sacrificano se stessi
a favore della collettivita'. Anche se non sgradito al regime di Pechino, e'
un approdo squisitamente umanista che ben esprime quell'ansia di pace che
attraversa il mondo tormentato e confuso del nuovo millennio. Non solo al
cinema, non solo in Cina.
*
Cosa leggere per saperne di piu'
Questa la bibliografia essenziale su Zhang Yimou:
Rey Chow, Primitive Passions: Visuality, Sexuality, Ethnography and
Contemporary Chinese Cinema, Columbia University Press, New York 1995.
Fabrizio Colamartino e Marco Dalla Gassa, Il cinema di Zhang Yimou, Le Mani
Editore, Genova 2003.
Valentina Dell'Aversana, La Quinta Generazione, "Cinemasessanta", n. 3-4,
maggio-agosto 1992, pp. 38-45.
Bruno De Marchi (a cura di), Terra gialla. Materiali per l'intelligenza del
cinema delle tre Cine, Euresis Edizioni, Milano 1999.
Goffredo Fofi (a cura di), Zhang Yimou, Dino Audino Editore, Roma 1994.
*
Premiata filmografia Yimou
1987 Sorgo rosso (Orso d'oro al Festival di Berlino).
1989 Nome in codice: "Operazione Puma" (coregia di Yang Fengliang).
1990 Ju Dou (coregia di Yang Fengliang, candidato all'Oscar come miglior
film straniero).
1991 Lanterne rosse (Leone d'argento al Festival di Venezia).
1992 La storia di Qiu Ju (Leone d'oro a Venezia, Coppa Volpi a Gong Li per
la miglior interpretazione femminile).
1994 Vivere! (Premio speciale della giuria, Premio della giuria ecumenica e
Premio a Ge You come miglior attore a Cannes).
1995 La triade di Shanghai.
1997 Keep Cool.
1999 Non uno di meno (Leone d'oro al Festival di Venezia).
2000 La strada verso casa (Orso d'argento a Berlino).
2001 La locanda della felicita'.
2002 Hero.

==============================
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 299 del 9 febbraio 2009

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it