Voci e volti della nonviolenza. 297



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 297 del 3 febbraio 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "Lo schizofrenico della famiglia" di Pietro Barbetta

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LO SCHIZOFRENICO DELLA FAMIGLIA" DI PIETRO
BARBETTA
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Pietro Barbetta, Lo schizofrenico della famiglia, Meltemi, Roma 2008

Indice del volume
Introduzione. Parte prima. Figure di cronica normalita'. Capitolo primo:
Giacobbe Liberati; Capitolo secondo: La schizofrenia come inconscio
psichiatrico; Capitolo terzo: La schizofrenia e i suoi sintomi; Capitolo
quarto: Il caso clinico e la psichiatria: metodologie di osservazione; Parte
seconda. Filosofia della schizofrenia. Capitolo quinto: Bateson, Deleuze,
Foucault tra misteri, fantasmi e frammenti; Capitolo sesto; Il grande circo
della terapia: telepatia, transfert, empatia, ironia; Capitolo settimo:
L'enigma della famiglia; Bibliografia.
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Da pagina 7
Introduzione
"Il faut etre deux pour etre fou, on est toujours fou a' deux" (Gilles
Deleuze, Logique du sens)
Questo volume intende recuperare un pensiero antropologico sulla
schizofrenia nell'epoca della tecnica chimica (Heidegger 1953). Non si
tratta solo, ne' principalmente, di un libro sulla schizofrenia, bensi' di
un'analisi del discorso intorno alla schizofrenia a partire da tre autori
che hanno indagato il fenomeno dal punto di vista antropologico, storico e
filosofico: Gregory Bateson, Michel Foucault e Gilles Deleuze.
I tre hanno in comune il fatto di non essere psichiatri. Questo e' infatti
un libro che guarda la schizofrenia da un punto di vista non psichiatrico,
il che non significa antipsichiatrico. Al contrario, proprio perche'
interamente non psichiatrico, questo libro non intende affatto negare la
validita' di alcune assunzioni psichiatriche - come l'ipotesi di una
componente chimica, legata ai neurotrasmettitori, o addirittura di una
componente genetica - ma piuttosto recuperare le radici di un pensiero di
matrice diversa. E' paradigmatico, per esempio, che Gilles Deleuze, in
un'intervista a Claire Parnet (2005), dichiari piu' volte di non essere
contrario agli psicofarmaci, di non avere affatto l'idea, quanto mai banale,
che le questioni mentali debbano essere affrontate in termini di territori
da difendere, o di battaglie da combattere tra psichiatri, psicologi e
filosofi.
Questo volume e' dunque lontano dalla posizione della psicologa clinica Mary
Boyle (1990), che sostiene che il delirio consista principalmente nell'idea
che esista qualcosa come la schizofrenia. La ricerca di Boyle e' tuttavia
interessante poiche' mostra come, in diverse epoche storiche, differenti
sindromi neurologiche siano state definite come schizofrenia.
L'intento di Boyle e' quello di mostrare che "il re e' nudo". A me non
interessa. Vedo quotidianamente, come psicoterapeuta o come consulente di
altri terapeuti, famiglie con componenti - per lo piu' figli - con una
diagnosi di psicosi maniaco-depressiva, di depressione maggiore o di
schizofrenia. Ho imparato da loro che cosa significhi e, avendo avuto la
fortuna di esercitare questa professione dalla fine degli anni Ottanta, ho
avuto modo di osservare gli sviluppi e le differenze profonde nel sistema
dei significati della schizofrenia in questo ventennio. Sono stato testimone
di importanti cambiamenti legati all'introduzione della somministrazione dei
cosiddetti antipsicotici atipici, che ha mutato la conversazione della
famiglia a transazione schizofrenica, conversazione intorno al farmaco e
alle emozioni espresse dai familiari del paziente. La famiglia dello
schizofrenico e' una famiglia virtuale.
Mentre per l'isteria Freud aveva ipotizzato un trauma originario reale, un
stupro consumato, un abuso sessuale perpetrato, trasformato in un sintomo
dal corpo, vincolato psichicamente, convertito in una disfunzione organica
priva di cause funzionali, per la schizofrenia si puo' assumere il
contrario: un delirio che cerca un trauma originario virtuale, uno stupro
mentale, un abuso dell'assenza. Nell'isteria e' il corpo che delira,
imbroglia, segnala sintomi senza segni. Nella schizofrenia i segni non
presentano sintomi.
Isteria e schizofrenia sono entrambe immagini di frammentazione.
Nell'isteria c'e' un organo che funziona male senza ragione, un delirio del
corpo. In questo caso la disposizione a trasformare il delirio fisico in un
delirio psichico libera energie mentali che possono avere esiti
interessanti, purche' esse non trasformino l'isterico in uno schizofrenico;
in tal caso e' il clinico che deve valutare in che modo disporsi nella
conversazione. Nella schizofrenia il delirio e' gia' psichico, non necessita
di alcuna trasformazione.
Una possibile lettura della schizofrenia potrebbe essere diretta a
riconoscerne la forma logica, a collegarla all'ordine familiare, a
ricostruire intorno a cio' una biografia, a partire dai frammenti, a
trasformare il delirio in metafora, a dare un tenor al vehicle che si muove
liberamente in uno spazio senza rete. Questo sarebbe un modo per pensare la
psicoterapia nella direzione di una clinica per la cura della schizofrenia.
Tuttavia, vi e' anche un'altra interpretazione: perche' dare un tenor al
vehicle e trasformare il delirio in metafora? Perche' costruire una
biografia che connetta i frammenti? Che diritto etico ha il terapeuta di
curare lo schizofrenico? La mia collocazione si mostra, direbbe
Wittgenstein, dall'esercizio della mia professione. In questo modo
affrontiamo questioni di bioetica della psicoterapia.
Il titolo del libro, Lo schizofrenico della famiglia, intende evocare due
opere tra loro assai differenti: I giochi psicotici nella famiglia, di Mara
Selvini Palazzoli, e L'idiota della famiglia di Jean-Paul Sartre. Di Selvini
Palazzoli trattero' a lungo: rappresenta un punto di riferimento necessario
per la mia formazione, sebbene le mie posizioni siano oggi assai differenti
da quelle da lei espresse, in particolare in quel libro. Il titolo stesso di
quel testo usa la preposizione in - nella famiglia - indicando fin da subito
che la schizofrenia e' una costruzione interna ai giochi familiari.
L'interpellazione schizofrenica sta, per Selvini, interamente dentro le
dinamiche familiari. Dinamiche, secondo questo discorso, sia esterne
all'individuo che estranee al sistema sanitario e storico-culturale. Una
questione di famiglia.
La terapia della famiglia si trasforma cosi' in un dispositivo. Diverso
sarebbe stato se, almeno nel titolo, si fosse inserita la preposizione di -
della famiglia - perche' si sarebbe data un'indicazione che avrebbe potuto
concernere anche le relazioni tra la famiglia e i terapeuti, la famiglia e i
servizi psichiatrici. La famiglia sarebbe stata vista, in questo caso, come
una palestra per la schizofrenia, un luogo dove si puo' diventare
schizofrenici. Cio' avrebbe portato Selvini e collaboratori ad affrontare
una menzogna storico-sociale, quella dell'ordine familiare come ordine
naturale. La questione fu posta da Bateson, come vedremo piu' avanti.
Semplicemente Selvini e colleghi non si interessarono a quelle questioni,
del tutto intenti a dimostrare come funzionano i giochi nelle famiglie
schizofrenogeniche, come se questa fosse una peculiarita' di alcune famiglie
e non una caratteristica potenziale dell'ordine familiare.
Di Sartre nel libro quasi non si parla. Imparai a conoscerlo grazie a Franco
Fergnani, trent'anni fa. Avevo letto L'essere e il nulla, ma non l'avevo
capito. Preso dalla lettura di Heidegger e dalla convinzione della sua
superiorita' rispetto a Sartre, incontrai, nelle lezioni di Fergnani sulla
mauvaise foi, alcune preziose indicazioni che mi portarono ad apprezzarlo e
a rivolgere i miei interessi alla psicoterapia. L'idiota della famiglia,
opera interminabile, descrive un Flaubert che somiglia allo schizofrenico
della famiglia. Da bambino mostra, oltre ogni possibile speranza, i segni di
una semplicita' che fanno pensare all'idiozia, mostra di non portare a
termine il percorso che richiede l'operazione verbale, come se il segno
valesse per la sua materialita' sonora e "il senso, anziche' farsi schema
concettuale e pratico... rimanesse agglutinato al segno" (Sartre 1972, p.
22). Descrizione che evoca l'ontologia deleuziana della frammentazione,
soprattutto dove, come in Logica del senso, ci si richiama al tema della
regressione del linguaggio al rumore nella schizofrenia (Deleuze 1969, pp.
101-114). E' ovvio che non tutti gli schizofrenici, o gli autistici,
diventano Flaubert, ma non possiamo negare che lo studio di Sartre vada
nella direzione, indicata in questo libro, di un'anormalita' sovrabbondante,
di una degenerazione ridondante, piuttosto che di un deterioramento mentale.
Questo libro non ha un intento accademico, bensi' pratico e clinico. E' un
tentativo di ricostruire una clinica psicoterapeutica - familiare,
individuale o gruppale, sistemica o psicoanalitica - della schizofrenia. Non
credo che una definizione rigida del setting possa aiutare. Ritengo che cio'
che aiuta nella clinica con il paziente schizofrenico sia la disposizione,
che non e' ne' il dispositivo, ne' la disponibilita'.
Il dispositivo omologa le forme dell'interpellazione, le produce come
categorie diagnostiche da implementare nelle pratiche mediche in maniera
standardizzata. Si costituisce ogni volta che le disposizioni, anziche'
emergere dalla conversazione, si trasformano in discorso. La disposizione di
rimanere quarantacinque minuti a conversare con il paziente diventa
dispositivo quando, anziche' emergere dalla conversazione, viene prescritta
dall'istituzione; la disposizione a vedere tutti i membri di una famiglia
diventa dispositivo quando si prescrive che siano tutti presenti in seduta.
La disponibilita' non si puo' avere con tutti. Come osserva Zizek (2004),
fortunatamente ognuno di noi ama/odia un numero assai limitato di persone,
verso le quali ha disponibilita' - a educarle, a farci l'amore, a
coccolarle, ad ascoltarle per ore e ore, ad ammazzarle, a seconda dei casi e
delle circostanze - e prova una certa indifferenza per la stragrande
maggioranza della popolazione mondiale.
La/lo psicoterapeuta e' a disposizione di questa enorme fetta di
popolazione, che nella vita quotidiana le/gli e' indifferente, in cambio di
un compenso economico. Questa indifferenza e' costitutiva della
disposizione. Dice Deleuze (2002b, p. 313) a proposito di Winnicott: "di
condividere, di andare incontro al malato, bisogna darci dentro, bisogna
condividere il suo stato. Si tratta forse di una sorta di simpatia, o di
empatia, o di identificazione? Di sicuro, e' qualcosa di assai piu'
complicato". Lo vedremo, in linea teorica, nel sesto capitolo e, in linea
pratica, nei casi clinici trattati nella prima parte del volume, in
particolare nel caso di Giacobbe Liberati. La disposizione rende la terapia
un contesto disposizionale, un luogo dove ci si puo' prendere cura di se'.
Un cerino si puo' accendere, un ombrello aprire, una terapia frequentare.
Nel medesimo tempo, poiche' la terapia e' un contesto disposizionale, si
tratta di un luogo in cui si possono costruire, nella conversazione,
condizioni controfattuali. Che altro sono le narrazioni oniriche se non
situazioni controfattuali? E le domande ipotetiche in psicoterapia
sistemica? Controfattuale e' tutto cio' che non si mostra attraverso i
fatti, tutto cio' che non ha referenzialita' esterna al linguaggio. L'opera
letteraria consiste di un insieme di controfattuali. Eventi mai accaduti,
che ci permettono, come ha osservato Deleuze (1993, p. 11), di delirare. Di
uscire fuori dal campo.
Nello scrivere questo libro ho fatto uno sforzo per cercare idee fuori dal
campo clinico, nella letteratura, in filosofia, in antropologia, nel teatro,
nel cinema. Qual e' essenzialmente l'apporto di Bateson, Deleuze e Foucault?
Questi pensatori hanno contribuito, come nessun altro, a depotenziare la
metafora della schizofrenia, a ridimensionare il peso del significante
schizofrenia e a renderlo una variante dell'umana esistenza, connettendolo
alla nozione di creativita', di proliferazione e di molteplicita'. Hanno
contribuito a connettere la schizofrenia e il delirio alla possibilita' di
vedere il molteplice come irriducibile all'uno e l'uno come irriducibile al
molteplice.
Il testo si compone di due parti: una clinica, l'altra antropo-filosofica.
Nella parte clinica del libro, attraverso la presentazione di alcuni casi,
intendo dar conto delle metamorfosi dello schizofrenico della famiglia, che
mi hanno portato ad assistere al florido delirio paranoide - che si
manifestava dentro la famiglia e dentro le sedute di terapia familiare, fino
a sette, otto anni fa - e al piccolo delirio minimalista - che si manifesta
attualmente, e che viene scoperto durante la conversazione, attraverso buone
pratiche di conduzione di seduta - a seguito della diffusione del
trattamento neurolettico atipico.
La parte clinica esordisce dunque con il racconto di un delirio. Si tratta
del caso Giacobbe Liberati, al quale avevo dedicato un breve saggio nel 1998
e al quale devo gran parte delle mie conoscenze intorno al delirio come
pratica di conversazione. Il caso e' significativo in primo luogo perche',
durante la conversazione, Giacobbe racconta il suo primo episodio delirante
e descrive in modo preciso e dettagliato il suo modo di vivere la lettura
del pensiero. Inoltre Giacobbe mette in luce un fenomeno quasi del tutto
scomparso negli studi di psicoterapia: il delirio florido.
Il secondo capitolo rappresenta un tentativo, ancora poco sviluppato, di
ricostruire il discorso psichiatrico intorno alla schizofrenia a partire dal
suo inconscio, l'inconscio psichiatrico, s'intende, perche' forse il
problema della schizofrenia e' proprio quello di possedere qualcosa che
somigli all'inconscio, se almeno si intende con cio' l'inconscio classico,
cio' che nasconde/protegge il materiale rimosso. Si passano in rassegna le
teorie psichiatriche e le forme storiche di aggettivazione della
schizofrenia e si mette in evidenza come l'inconscio psichiatrico consista
proprio nella mancata analisi della relazione tra le teorie psichiatriche,
le istituzioni di diagnosi e cura e la costruzione sociale delle
caratteristiche della schizofrenia. Il caso clinico di Gianmaria, che viene
messo a confronto con quello di Giacobbe Liberati, mostra come lo
schizofrenico nell'epoca della tecnologia chimica presenti un delirio
minimalista, che puo' emergere dalla conversazione terapeutica.
Il capitolo successivo passa in rassegna il discorso psichiatrico
contemporaneo sulla schizofrenia: il rapporto tra sintomatologia positiva e
negativa, le varie forme in cui si manifestano le allucinazioni, il delirio,
le idee di riferimento. Perche' un capitolo di questo tipo quando ci sono
decine di manuali di psichiatria? Perche', in generale, nei manuali di
psichiatria, i sintomi vengono descritti senza alcuna riflessione
antropologica, come se non riguardassero affatto lo psichiatra che, al piu',
puo', a sua volta, diventare schizofrenico e andare dall'altra parte del
servizio. In particolare la riflessione si concentrera' sui misteriosi
sintomi negativi, quei sintomi che, per essere rilevati, devono mostrare
l'assenza di un comportamento: un mistero per la psichiatria, che non
possiede alcun mezzo chimico per curarli e che dunque li fa rimanere in
generale tali anche dopo il trattamento farmacologico, ma un mistero
affascinante per un terapeuta curioso, spinto a indagare insieme al suo
paziente. Fortunatamente la chimica ci lascia sempre qualcosa da
analizzare...
Il quarto capitolo, l'ultimo della prima parte del volume, costituisce un
contributo critico al metodo di presentazione dei casi di schizofrenia.
Storicamente questi casi sono stati presentati senza tenere conto del
contesto di sviluppo del disordine. Raramente, ad esempio, si e' pensato,
durante la presentazione di un caso di schizofrenia catatonica, che la
catatonia del paziente avesse a che fare con l'ambiente di ricovero o con il
trattamento sanitario. Ci sono state ricerche cliniche sulle reazioni
emotive dei familiari alla sintomatologia del paziente, quasi mai sulle
reazioni dell'ambiente comunitario e dei servizi di diagnosi e cura.
L'esempio di un caso presentato dalla psicoanalista tunisina Neja Zemni
costituisce, a oggi, una rara eccezione in letteratura.
Quattro casi clinici, ridenominati con i nomi degli evangelisti, concludono
il capitolo. Di questi segnalo il caso di Luca, perche' permette di fare una
breve digressione dal metodo del discorso psichiatrico a quello psicologico,
di analisi del funzionamento mentale. Un vero disastro culturale. Vedremo
che il supposto deterioramento mentale spesso viene confuso con un modo di
ragionare differente da quello che attribuisce alti punteggi ai test.
La seconda parte del volume tratta invece della filosofia della schizofrenia
a partire dal contributo di Bateson, Deleuze e Foucault. Come gia' detto,
questi tre pensatori non sono dei clinici, benche' si siano occupati del
fenomeno in modo assai piu' vario e stimolante di molti clinici di
professione. Si tratta di un antropologo - che pero' e' stato anche etologo,
filosofo, cibernetico e ha partecipato a numerosi congressi di
psicoanalisi -, di un filosofo - che pero' e' stato anche critico
letterario, cinematografico, d'arte figurativa e ha collaborato con
psichiatri e psicoanalisti - e di uno storico sui generis, che ha
riorientato il modo di pensare la storia. In particolare Foucault ci ha
insegnato a indagare la genealogia dei discorsi e la sua efficacia nel
costruire corpi docili.
Il quinto capitolo, primo della seconda parte del libro, e' un intreccio
dello sviluppo di alcuni concetti su schizofrenia e psichiatria con alcuni
momenti della biografia di ognuno dei tre. Mette a fuoco il tema del double
bind, caro a Bateson, e quello della frammentazione come questione
ontologica, caro a Deleuze.
Il capitolo sesto sottolinea invece le questioni della relazione terapeutica
con lo schizofrenico a partire dalla posizione classica in psicoanalisi che
assume l'impossibilita' di analizzarlo. Per converso, il percorso critico di
Foucault, in relazione a Freud e Husserl, pare giungere a una necessaria
rivalutazione dell'ironia come pratica clinica che diluisce l'empatia -
dominante nei setting psicoterapeutici - e come strumento fondamentale nella
conversazione schizofrenica.
L'ultimo capitolo infine, il piu' difficile e controverso, riguarda la
famiglia. Perche' la famiglia e perche' il titolo Lo schizofrenico della
famiglia? Perche' sono un discendente della scuola di psicoterapia della
famiglia di Milano (si puo' leggere sia accentuando psicoterapia della
famiglia, che famiglia di Milano) che, a partire dagli anni Settanta, si e'
cimentata con la terapia della schizofrenia; perche' e' nella famiglia che,
dalla chiusura dei manicomi, vive lo schizofrenico, e' li' che sviluppa il
suo delirio, e' li' che diventa paranoide, mentre in manicomio diventava
piu' facilmente ebefrenico, oppure catatonico. La famiglia, anche in questo
senso, e' per lo schizofrenico una grande possibilita' di liberta', un campo
etico aperto. Anche la famiglia piu' brutale e abusiva difficilmente
tocchera' i livelli delle antiche istituzioni manicomiali.
Negli ultimi anni, con la somministrazione generalizzata dei neurolettici
atipici, la schizofrenia e' ulteriormente cambiata e le famiglie dei
pazienti schizofrenici manifestano nuove angosce e nuove preoccupazioni. La
diminuzione o la scomparsa dei sintomi positivi, in conseguenza
dell'assunzione del farmaco, non tranquillizza la famiglia. In vent'anni di
psicoterapia familiare numerose famiglie si sono rivolte a me e ai miei
colleghi con la richiesta di normalizzare il paziente designato. Con i
pazienti psicotici, spesso la richiesta e' opposta: ci si domanda come mai,
dopo il primo periodo delirante, a seguito del trattamento psichiatrico, il
paziente designato sia cosi' normale.
Il libro insegue un'idea di famiglia che ha poco a che vedere con la
famiglia concreta del paziente. A questa viene sostituita l'idea di un
ordine familiare che si presenta come un insieme di funzioni variabili, ma
che poggia su un'origine enigmatica e inquietante. Lo schizofrenico della
famiglia e' colui che va cercando questa genealogia, colui che, nel suo
delirio florido e paranoide, sostituisce l'Altro all'ombra, presentandosi
come un libro aperto - uno di quei libri di cui Blanchot direbbe: "Se nelle
biblioteche esiste un inferno, e' destinato a questo libro" (Blanchot 1963,
p. 69) - mentre nel suo delirio catatonico o minimalista sostituisce l'ombra
all'Altro, ritirandosi in una nicchia di silenzio e isolamento,
assoggettandosi all'inconscio psichiatrico.
*
Da pagina 83
Capitolo quarto
Il caso clinico e la psichiatria: metodologie di osservazione
Lo schizofrenico in manicomio, e il manicomio dov'era?
Si racconta che gli psichiatri che aderivano alla fenomenologia soffrissero
di una certa dissociazione. Scrivevano opere filosofiche sulla schizofrenia
come visione del mondo, ispirandosi a Husserl e Heidegger, e poi, in
reparto, non riuscivano a levarsi di dosso il camice. Il gap tra le teorie e
le pratiche era enorme; quando e' esploso, ha dato vita a un movimento
politico, e' nata l'anti-psichiatria. Che cosa manca? Una metodologia
qualitativa di osservazione clinica.
Prima dell'analisi del discorso (Foucault 1969; 1971; Jorgensen, Phillips
2002), della quale siamo debitori a Foucault, mancava la possibilita' di
trasformare la filosofia in pratica clinica. Come vedremo nella seconda
parte del libro, Foucault dovra' prima fare i conti con la fenomenologia per
costruire il suo contributo critico.
Cio' che stupisce di gran parte delle presentazioni dei casi clinici di
schizofrenia e' la poca considerazione del contesto: il discorso
psichiatrico, con la sua produzione di istituzioni di ricovero, diagnosi e
cura, e' uno sfondo ignorato. Nei capitoli precedenti lo abbiamo definito
inconscio psichiatrico.
Cio' e' accaduto parzialmente anche nelle circostanze piu' nobili, come
quella che propone la prima e piu' nota descrizione del double bind:
"L'analisi di un incidente accaduto tra un paziente schizofrenico e sua
madre puo' illustrare la situazione di doppio vincolo. Un giovanotto che si
era abbastanza ben rimesso da un accesso di schizofrenia ricevette in
ospedale una visita di sua madre. Contento di vederla le mise d'impulso il
braccio sulle spalle, al che ella s'irrigidi'. Egli ritrasse il braccio, e
la madre gli domando': 'Non mi vuoi piu' bene?'. Il ragazzo arrossi', e la
madre disse ancora: 'Caro, non devi provare cosi' facilmente imbarazzo e
paura dei tuoi sentimenti'. Il paziente non pote' stare con la madre che per
pochi minuti ancora, e dopo la sua partenza aggredi' un inserviente e fu
messo nel bagno freddo" (Bateson 1972, p. 261).
L'ospedale, il bagno freddo e l'inserviente aggredito, che pure vengono
menzionati, rimangono nell'inconscio psichiatrico. Non entrano nell'analisi.
L'aggressione si', ovviamente, come reazione schizofrenica al comportamento
della madre.
*
Da pagina 86
Si assiste a una doppia rimozione che serve a mantenere viva la spiegazione
medica come unica spiegazione vera della malattia: la rimozione dell'analisi
delle relazioni familiari e la rimozione dell'analisi dell'universo
concentrazionario dell'istituzione psichiatrica. Le conversazioni di questi
pazienti, cosi' meticolosamente riportate, sembravano avvenire nel vuoto,
non con uno psichiatra in manicomio. E' stupefacente.
Questo torto ai nevrotici non e' mai stato fatto - Freud almeno prendeva in
considerazione le dinamiche familiari nella formazione della sintomatologia
nevrotica, oltre che il tema del controtransfert. Inoltre, ai nevrotici e'
stato evitato il manicomio. Il manicomio era un privilegio di due categorie:
gli schizofrenici (i reietti) e gli psichiatri (i dottori). Tra loro c'era
la pletora degli infermieri, che non avevano alcuna formazione umanistica e
una scarsissima formazione sanitaria, destinati al lavoro sporco. In molti
casi il personale religioso femminile si sforzava di stendere un velo di
pieta'. Non sto descrivendo una psichiatria disumana, ma quella di Eugene
Minkowski, della psichiatria esistenziale e umanistica. Ci vorranno molti
anni ancora e molto impegno da parte di autori come Bateson, Deleuze,
Foucault per riuscire a rendere interamente conto della costruzione sociale
della schizofrenia. Verso una teoria della schizofrenia (in Bateson 1972) e
Malattia mentale e personalita' (Foucault 1954), lo vedremo in seguito, sono
ancora, almeno in parte, intrisi di un metodo che pratica la rimozione della
psichiatria dalla schizofrenia, come se la schizofrenia non avesse a che
fare con l'organizzazione psichiatrica. In Bateson, pero', inizia a farsi
strada l'idea che la relazione e la comunicazione siano parte della
costituzione dei sintomi, e in Foucault, dopo l'abbandono del Sainte-Anne,
che la malattia mentale, o la follia, avesse piu' a che fare con la storia
della medicina in Occidente che con la mente dei singoli individui presi
isolatamente.
Deleuze, forse perche' non ha mai partecipato all'attivita' di un ospedale
psichiatrico, non aveva alcun dubbio. Semmai, in una certa fase del suo
pensiero, con Guattari, e' caduto nella tentazione opposta, tipica
dell'antipsichiatria: negare la specificita' del piano clinico, o
addirittura fare della schizofrenia una gioia di vivere trasgressiva. Se la
psichiatria aveva per anni praticato il riduzionismo medico, trasformando il
disordine in malattia, il riduzionismo sociologico dell'antipsichiatria si
presenta come un'abiura e mostra l'incapacita' degli antipsichiatri di
cogliere la complessita' della relazione.
Con la chiusura delle istituzioni manicomiali, come abbiamo gia' visto,
scompaiono dallo scenario diagnostico le schizofrenie catatoniche e le
schizofrenie ebefreniche. La permanenza dello schizofrenico nella famiglia
favorisce spesso un florido delirio paranoico che si lega alle dinamiche
familiari: il clima di tensione porta gli altri familiari a non riferire al
paziente designato episodi che potrebbero irritarlo; cio' crea un'intesa
nascosta tra gli altri componenti della famiglia. Non poi cosi' nascosta da
non essere notata dal paziente designato che scopre ognuno degli episodi
tenuti segreti, irritandosi sempre piu' e cominciando a coltivare l'idea di
un complotto, che facilmente si sposta dalla famiglia al mondo esterno e
all'intero cosmo. Allo schizofrenico la famiglia non basta, ma e' nella
famiglia che sviluppa il suo delirio piu' florido.
In manicomio non si davano le possibilita' di sviluppare un delirio
florido - e per certi aspetti cosi' lucido, sebbene nascosto dentro una
quantita' di sviamenti linguistici tesi a non farsi scoprire mai
interamente. L'universo concentrazionario e' repressivo, punitivo, violento,
chimico, coercitivo. Per difendersi lo schizofrenico sviluppa, in diverse
circostanze, meccanismi di chiusura al mondo, diventa un "muselmann", cosi'
come lo ha descritto Primo Levi.
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Da pagina 94
Casi clinici nel contesto
Un buono studio di casi clinici di schizofrenia deve tenere conto del
dispositivo psichiatrico e delle forme dell'interpellazione. Devono essere
indagati quattro elementi:
- l'organizzazione psichiatrica di riferimento, le forme storico-sociali
dell'organizzazione del servizio, compresa l'idea di responsabilita' che sta
dietro una tale organizzazione;
- la relazione tra la comunita' di riferimento e la famiglia del paziente
designato, le forme dell'integrazione e delle relazioni sociali della
famiglia con l'ambiente circostante, il senso di appartenenza a una
comunita' religiosa, culturale, politica, ecc.;
- le relazioni tra la persona - il paziente designato - e la sua famiglia;
- le traiettorie biografiche del paziente designato.
Una persona viene ricoverata/si fa ricoverare presso un servizio
psichiatrico di diagnosi e cura dopo avere agito in modo da scuotere
l'ordine familiare e comunitario in cui vive. L'interpellazione si manifesta
sempre come una relazione tra una persona e un dispositivo, attraverso una
mediazione familiare e comunitaria.
Il dispositivo ha una forma storica; si manifesta come una costruzione
sociale, e' il lato esterno della patologia, l'ordine del suo discorso. La
sintomatologia ha una forma strutturale, si presenta come un disordine
familiare e comunitario prodotto dal soggetto: e' la forma in cui il
soggetto entra in conversazione con l'Altro.
Decine di giovani al di sotto dei vent'anni che abbiamo incontrato al Centro
Isadora Duncan, negli ultimi quattro anni di lavoro con questa equipe
clinica, fino a trent'anni fa avrebbero trascorso il resto della loro vita
in un manicomio. Molti di loro avrebbero sviluppato una schizofrenia
ebefrenica. Oggi conversano con noi in psicoterapia individuale e familiare,
a seconda dei casi e delle circostanze, a proposito della loro vita, dei
rapporti con la famiglia e la comunita', dei rapporti con il servizio
psichiatrico territoriale, in parte anche grazie all'assunzione di un
farmaco, ma non necessariamente. Fanno terapia analizzando con noi il loro
caso clinico, diventano parte dell'equipe terapeutica di cura. Cio'
significa che mai, in psicoterapia, si puo' dimenticare che il paziente
designato e' una persona che esercita la propria responsabilita'. La terapia
consiste nel trasformare la designazione verso il paziente in designazione
da parte del paziente, trasformare il paziente designato in designante della
sua propria vita, in moral agent.
Come erede della scuola di psicoterapia di Milano, ritengo fosse corretto,
da parte di Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata (2003), interessarsi
del solo aspetto relazionale. Il lavoro psicoterapeutico non deve, secondo
me, essere svolto nel medesimo luogo in cui viene prescritto il trattamento
psicofarmacologico che, in quanto trattamento medico, considera il disordine
mentale nei termini di una malattia da curare chimicamente e, affinche' si
ottengano risultati dalla cura, deve essere seguito in modo regolare. Il
dispositivo psichiatrico e' costitutivamente ordinato secondo la sintassi
della clinica medica, cosi' come la descrive Foucault. Dunque il paziente e'
portatore di sintomi che diventano segni per una semeiotica tesa a
determinare una diagnosi che prevede un trattamento farmacologico specifico.
La psicoterapia si puo' anche giovare del trattamento medico, ma non va
confusa con questo. La clinica in psicologia e' tutt'altro. Necessita di un
anti-dispositivo, di disposizioni. La psicoterapia non riesce quando il
paziente prendendo il farmaco va a lavorare, e riesce quando il soggetto ha
scelto se prendere o no il farmaco, sapendo quali effetti questo puo' avere
sulla sua vita e sulle relazioni con l'Altro.
La psicoterapia con la schizofrenia oggi e' possibile perche' i manicomi non
ci sono piu', ma non e' l'unico trattamento possibile, ne' da sola e' sempre
sufficiente. Spesso necessita di un lavoro di counselling mirato
all'inserimento sociale, ma anche alla salvaguardia dei diritti personali e
della dignita' del paziente negli ambienti di cura e trattamento. Tuttavia,
e' altro rispetto al trattamento psichiatrico, risponde a un'epistemologia e
a un modello bioetico differenti. Per questo motivo la psicoterapia con i
pazienti schizofrenici deve trovare una propria nicchia ecologica distinta
dal trattamento psichiatrico, all'interno della quale si possa anche parlare
del farmaco, ma non per convincere il paziente a prenderlo o a non
prenderlo, bensi' per conversare con lui intorno al farmaco e ai suoi
effetti, intorno al dispositivo medico-psichiatrico e alle altre forme del
trattamento psicoriabilitativo, cercando di renderlo responsabile della
scelta.
Nello stesso tempo, e' quanto mai importante che il paziente in trattamento
presso il servizio psichiatrico abbia la possibilita' di ricevere un
supporto di counselling in relazione ai suoi diritti riguardo al
trattamento, per valutare se le informazioni ricevute sono adeguate e se le
richieste da lui avanzate vengono prese in considerazione e non, come spesso
avviene in questi casi, ritenute parte del delirio schizofrenico.
Ricordo una studentessa universitaria schizofrenica che mi chiese una
consulenza, raccontandomi di come, durante un ricovero volontario, medici e
infermieri avevano cercato di somministrarle un farmaco che lei non riteneva
di dover prendere. Nel tentativo di sottrarsi, si arrampico' su un armadio e
da lassu' disse: "questo non e' un delirio! Semplicemente una protesta
perche' state violando il mio diritto a un trattamento corretto!". Non tutti
i pazienti schizofrenici sono studenti universitari o laureati, alcuni
potrebbero avere necessita' di aiuto in questa direzione.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 297 del 3 febbraio 2009

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