La domenica della nonviolenza. 53



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 53 del 25 dicembre 2005

In questo numero:
1. Francesco Pistolato: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
2. Le parole della nonviolenza
3. Severino Vardacampi: Paolo Sylos Labini
4. Giobbe Santabarbara: Paolo Sylos Labini
5. Paolo Sylos Labini: Bisogna fare i conti con Marx
6. Franco Fortini: Marxismo

1. STRUMENTI DI LAVORO. FRANCESCO PISTOLATO: MI ABBONO AD "AZIONE
NONVIOLENTA" PERCHE'...
[Ringraziamo Francesco Pistolato (per contatti: fpistolato at yahoo.it) per
questo intervento. Francesco Pistolato, studioso, docente, lavora
all'Universita' di Udine; e' tra i promotori di un programma di cultura di
pace all'interno delle universita' e delle scuole della macroregione Alpe
Adria, comprendente il Friuli-Venezia Giulia, la Carinzia e la Slovenia; e'
altresi' impegnato nell'Associazione Biblioteca Austriaca di Udine, che ha
tra l'altro realizzato una mostra fotografica itinerante sulla Resistenza,
gia' esposta in vari luoghi, tra cui la Risiera di S. Sabba di Trieste, e
che e a fine 2005 andra' nella Gedenkstaette des Deutschen Widerstands di
Berlino, ed e' visitabile in rete nel sito:
www.abaudine.org/virtunascosta/virtu.htm]

Mi abbono ad "Azione nonviolenta" (e, insieme, a "Satyagraha"), perche' la
nonviolenza e' una strada difficile, che si percorre meglio in compagnia di
buone letture e sostenuti dallo spirito dei compagni di viaggio.

2. STRUMENTI DI LAVORO. LE PAROLE DELLA NONVIOLENZA
"Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento fondata
da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per tutte
le persone amiche della nonviolenza.
La sede della redazione e' in via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803,
fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org
L'abbonamento annuo e' di 29 euro da versare sul conto corrente postale n.
10250363, oppure tramite bonifico bancario o assegno al conto corrente
bancario n. 18745455 presso BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza
Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB 11700, intestato ad "Azione nonviolenta",
via Spagna 8, 37123 Verona, specificando nella causale: abbonamento ad
"Azione nonviolenta".

3. MEMORIA. SEVERINO VARDACAMPI: PAOLO SYLOS LABINI
Della cultura italiana, della vita civile italiana, Paolo Sylos Labini e'
stato uno dei pochi autentici campioni, nel senso che le cavalleresche
civilta' e vicende a questo termine hanno attribuito.
Una persona che sempre si e' battuta per l'umana dignita', quella dignita'
che solo scaturisce dal civile convivere e condursi, dall'impegno assiduo a
cercare e dire il vero, dalla cura per il pubblico bene prima ancora che per
i privati interessi quantunque legittimi, dalla sollecita solidarieta'
(poiche' una solidarieta' non sollecita' non e' solidarieta') con gli
umiliati e gli offesi, dal generoso e paziente darsi come esempio nel
perseverare nel buono e nel giusto.
Una persona amica della nonviolenza.
*
Il suo lascito scientifico e' grande, grande l'eredita' feconda di opere di
dottrina e di morale, immensa l'eredita' di persone cui seppe illuminare la
via nella selva del mondo col suo insegnare, il suo dire, il suo scrivere,
il suo testimoniare.
Un cittadino dell'umana citta'. Nella sobrieta' e nell'appassionamento,
nella lotta incessante contro la prevaricazione e la menzogna, nella
generosita' e nella pazienza di un magistero civile che inciviliva.
Nell'ironia e nella serieta' con cui seppe affrontare le prove ardue e le
scelte necessarie. Nella vivacita' e nel buon gusto, nell'intransigenza e
nel garbo, che sono anch'esse civili virtu', e fomento e fomite di
democrazia.
*
Si poteva non esser d'accordo con varie delle sue opinioni, e a noi talvolta
e' accaduto. Ma in cio' che scriveva leggevi costante la volonta' buona e
acuta l'intelligenza, il desiderio di capire e di farsi capire, l'impegno e
la coscienza di contribuire a un'impresa comune, l'umanizzazione
dell'umanita', del bene di tutti mettendosi al servizio.
Anche noi qui lo ringraziamo ancora.

4. MEMORIA. GIOBBE SANTABARBARA: PAOLO SYLOS LABINI
Sono trent'anni che non cesso d'interrogarmi sul problema di fondo del
Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini: ovvero di come la piccola
borghesia abbia invaso e colonizzato le rappresentanze del movimento degli
oppressi e vampirizzato le loro risorse e le loro lotte.
*
E' un problema che non posso non pormi, poiche' tra altre sorprese che la
vita mi ha riservato sono stato un funzionario di partito e un pubblico
amministratore, uno dei pochissimi che io conosca che non solo non abbiano
voluto arricchirsi depredando cio' che e' di tutti, ma che abbiano anche
saputo rifiutare la possibilita' di sistemarsi in una comoda burocrazia di
toga o di spada, dell'abito nero o del rosso giusta Sorel (Julien, non
Georges). De te fabula narratur.
Ed anche oggi vedo chiaramente che tanta parte delle rappresentanze non solo
delle istituzioni statali e parastatali ma anche - ahinoi - del cosiddetto
movimento altermondialista (che ci appare sovente replica in farsa
dell'utopia rivoluzionaria di cui evidentemente solo in pochi serbiamo
memoria ad un tempo grata e dolorosa, ed ancor meno una severa fedelta' - e
fedelta' nel segno della nonviolenza, poiche' senza la scelta della
nonviolenza quel cammino di profonde necessarie riforme ovvero rotture ed
aperture e' peggio che nulla, e' gorgo ed abisso) sono una vorace e rampante
piccola borghesia sempre all'assalto dei pubblici erari, sempre in cordata a
scalare gli scranni, sempre complice nell'opprimere gli oppressi, e sempre
ignara della miseria sua e del male che fa, che consente, che favoreggia. Il
popolo delle scimmie, scrisse Gramsci nel '21.
*
Dei testi di Sylos Labini quel saggio del '74 e' il libro che primo mi viene
alla mente quando penso al suo magistero, e quello da cui mi sento ancora
piu' toccato.
Ora che Sylos Labini e' scomparso, anch'io - che sovente non ho condiviso
certe sue analisi e proposte, o certi stilemi suoi propri che pure oggi
vieppiu' mi commuovono - mi avvedo che sempre verso la sua figura e
l'operare suo ho provato una stima e una gratitudine che nulla puo'
estinguere.

5. RIFLESSIONE. PAOLO SYLOS LABINI: BISOGNA FARE I CONTI CON MARX
[Dal sito che contiene molti materiali di e su Paolo Sylos Labini
(http://151.100.71.71/sylosPersonal/) riprendiamo il secondo capitolo del
suo libro La crisi italiana, Laterza, Roma-Bari 1995 (seconda edizione).
Il libro e' integralmente disponibile in versione elettronica nel web, per
gentile concessione della casa editrice Laterza, con il consenso
dell'autore, alle condizioni di seguito specificate: "1) L'autorizzazione
alla libera distribuzione riguarda solo e esclusivamente l'edizione
elettronica del testo. I diritti d'autore su ogni altra forma di
pubblicazione dello stesso, e in particolare quelli relativi alla versione a
stampa, restano di proprieta' della Gius. Laterza e figli S.p.A. nei termini
e alle condizioni previste nel contratto con l'Autore. 2) Resta dunque
vietata, senza esplicita autorizzazione della Gius. Laterza e figli S.p.A.,
ogni forma di riproduzione a stampa del testo. 3) Il testo in formato
elettronico potra' essere liberamente distribuito, anche per via telematica
e attraverso la rete Internet, purche' completo in ogni sua parte e sempre
accompagnato dall'indicazione dei dati bibliografici dell'edizione a stampa,
e dalle condizioni alle quali ne e' consentita la distribuzione. 4) Nessun
provento potra' essere ricavato, a nessun titolo, ne' da Liber Liber ne' da
altri, dalla distribuzione del testo in formato elettronico. 5) Non e'
autorizzata nessuna modifica al testo, con l'eccezione di quelle
eventualmente concordate per iscritto fra Liber Liber, l'Autore e la casa
editrice Gius. Laterza e figli S.p.A. (Dalla lettera di autorizzazione alla
libera distribuzione del testo elettronico, inviata a Liber Liber dalla
Gius. Laterza e figli S.p.A. in data 8 marzo 1995). Questo testo fa parte
della biblioteca del progetto Manuzio. Il 'Progetto Manuzio' e' una
iniziativa dell'associazione culturale 'Liber Liber'. Aperto a chiunque
voglia collaborare, si pone come scopo la costituzione di una biblioteca di
testi elettronici liberamente e gratuitamente distribuibili".
Paolo Sylos Labini, prestigioso economista, e' nato a Roma nel 1920,
professore emerito all'Universita' di Roma, ha insegnato nelle universita'
di Catania, Bologna, Roma, ed e' stato visiting professor nelle universita'
di Cambridge, Oxford, Harvard, MIT, Citta' del Messico, Jamaguchi, Rio de
Janeiro, Sidney, Roskilde, Nizza; membro di molte istituzioni accademiche e
comitati scientifici, insignito di numerose onorificenze. All'attivita' di
studioso ha sempre affiancato un intenso e persuaso impegno civile. E'
deceduto alcuni giorni fa. Opere in volume di Paolo Sylos Labini:
collaborazione al volume di  Alberto Breglia, L'economia dal punto di vista
monetario, Edizioni Dell'Ateneo, seconda edizione 1953; Oligopolio e
progresso tecnico, Giuffre', 1956, seconda edizione 1957, successive
edizioni Einaudi 1964, 1967, 1972, 1975, tradotto in inglese, in polacco, in
giapponese, in spagnolo, in cecoslovacco, in portoghese; Economie
capitalistiche ed economie pianificate, Laterza, 1960; collaborazione al
volume di Alberto Breglia, Reddito sociale, Edizioni dell'Ateneo, 1965;
Problemi dell'economia siciliana, Feltrinelli, 1966; Problemi dello sviluppo
economico, Laterza 1970, tradotto in giapponese; Sindacati, inflazione e
produttivita', Laterza, 1972, tradotto in inglese; Saggio sulle classi
sociali, Laterza, 1974, dieci edizioni, tradotto in giapponese, catalano,
spagnolo, portoghese; Lezioni di Economia. Volume I: Questioni preliminari,
La macroeconomia e la teoria keynesiana, Edizioni dell'Ateneo, 1979; Lezioni
di Economia. Volume II: Microeconomia, Edizioni dell'Ateneo, 1982; Le forze
dello sviluppo e del declino, Laterza, 1984, tradotto in inglese; Il
sottosviluppo e l'economia contemporanea, Laterza, 1983, tradotto in
spagnolo; Ensaios sobre desenvolvimento e precos, Forense Universidade, Rio
de Janeiro 1984; Le classi sociali negli anni '80, Laterza 1986, sei
edizioni, tradotto in tedesco ed in spagnolo; Nuove tecnologie e
disoccupazione, Laterza, 1989; Elementi di dinamica economica, Laterza 1992;
con A. Roncaglia, Il pensiero economico. Temi e protagonisti, Laterza, 1995;
Progresso tecnico e sviluppo ciclico, Laterza, 1995, tradotto in inglese;
Carlo Marx: e' tempo di un bilancio (a cura di), Laterza 1994; La crisi
italiana, Laterza 1995; Sottosviluppo: una strategia di riforme, Laterza,
2001, tradotto in inglese; Un paese a civilta' limitata, Laterza, 2002;
Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Laterza, 2003.
Va da se' che i giudizi formulati in questo testo possono non esser
condivisi, e ad esempio alcuni di essi non sono affatto condivisi proprio
dalla persona che lo ha scelto per pubblicarlo ora in questo numero del
nostro notiziario a rendere omaggio a Sylos Labini inteso; eppure, ed anzi a
maggior ragione, per questo ci e' parso opportuno proporre queste pagine a
chi ci legge: come apertura ed ascolto e confronto tra voci diverse e
solidali nell'impegno per un'umanita' di liberi ed eguali, e reciprocamente
responsabili; e insieme accompagnarle a mo' di controcanto con il testo di
Fortini che poi segue. La nonviolenza e' anche questo: dirsi la verita',
cercarla insieme, ad ogni violenza e menzogna opporsi sempre, prendersi cura
dell'umanita' (p. s.)]

Le responsabilita' di Marx
La crisi ideologico-politica cui ho fatto cenno e' sboccata nella crisi
delle istituzioni. La crisi ha colpito in primo luogo il marxismo e i
partiti che si richiamavano a quella dottrina. Paradossalmente, tuttavia, in
modo indiretto ha colpito anche i partiti antimarxisti e anticomunisti, che
hanno visto ridurre in modo non esiguo il consenso popolare e intellettuale
e venir meno il cemento che li univa e il sostegno internazionale; lo stesso
appoggio della Chiesa e' divenuto molto piu' critico e molto piu'
differenziato. Con Marx bisogna fare i conti non solo e non tanto per motivi
culturali, che possono interessare solo una minoranza di intellettuali. I
conti con Marx vanno fatti anche per comprendere l'assai infelice situazione
in cui oggi viviamo. Non possiamo non chiederci: come mai nella campagna
elettorale Silvio Berlusconi ha potuto usare il tema dell'anticomunismo con
un non trascurabile successo, come pare? Eppure dopo la caduta del muro di
Berlino il comunismo non dovrebbe far piu' paura ne' sul piano
internazionale ne' su quello interno; per di piu', dopo un lungo e
drammatico dibattito ed una dolorosa scissione, il Partito comunista
italiano ha cambiato nome, obiettivi e simbolo (al 90%).
Evidentemente, esistono ancora, soprattutto in certi strati della piccola
borghesia, alcuni riflessi condizionati. Il grande trauma nazionale, mai
pienamente superato, fu quello del 1921-'22, quando il pericolo del
comunismo, reso incombente dalla vittoria dei bolscevichi in Russia, semino'
panico e orrore in una cospicua fetta della societa' italiana e non soltanto
per via degli interessi economici minacciati. Se non si tiene conto di quel
panico e di quell'orrore non si puo' comprendere l'ascesa del fascismo al
potere.
In Europa dopo la prima guerra mondiale e nell'America latina dopo la
seconda guerra, la paura del comunismo ha contribuito alla nascita e
all'affermazione dei fascismi, alle condiscendenze dei conservatori inglesi
verso Hitler e a quelle dei nordamericani verso le dittature militari
latinoamericane (attenzione: ha contribuito non vuol dire che ha
determinato). In Europa, dopo la prima guerra mondiale e poi durante la
seconda, per combattere quel fascismo che avevano contribuito a far sorgere,
molti comunisti hanno affrontato pericoli, prigione, torture, sacrifici di
ogni genere.
Le atrocita' commesse dai comunisti per impadronirsi del potere e poi quelle
perpetrate nei paesi in cui erano riusciti ad instaurare la dittatura
possono rendere comprensibili le reazioni anticomuniste, ma non possono in
alcun modo giustificare i mezzi adoperati quando si tratti di mezzi barbari
o tali da imbarbarire la vita sociale. Se si pone mente al fine si puo'
sostenere che il senatore americano Joseph McCarthy aveva ragione; si deve
pero' subito aggiungere che erano radicalmente sbagliati i mezzi, cosicche'
la condanna morale e politica del maccartismo fu pienamente giustificata.
Quando, in Italia, dopo la prima guerra mondiale ebbe luogo quella reazione
antibolscevica che fu ampiamente utilizzata dal Partito fascista furono
pochi, ma non pochissimi, fra coloro che avevano una profonda avversione per
il bolscevismo, gli uomini, come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini ed
Ernesto Rossi, che non si fecero travolgere dalla paura neppure nei momenti
piu' difficili e tennero duro. Oggi, dopo la tragedia della seconda guerra
mondiale scatenata dal principale allievo e imitatore di Mussolini, appare
evidente che ebbero ragione coloro che tennero duro, anche se in quel
momento vennero battuti. In breve, non si puo' combattere una barbarie con
un'altra barbarie: i Gulag e Auschwitz si equivalgono.
Dobbiamo chiederci: qual e' la responsabilita' di Marx in queste tragedie?
Sono molti gli intellettuali che tendono a minimizzare le responsabilita' di
quegli altri intellettuali che non si limitano a sforzarsi di conoscere il
mondo, ma si propongono di cambiarlo. Ora, non c'e' dubbio che nel gran
crogiolo dell'evoluzione storica, gli intellettuali di un qualche rilievo
sono in qualche misura responsabili: poco o molto, secondo i casi. Con le
sue sdegnate denunce, che avevano affascinato molti, con le sue tesi sulla
socializzazione dei mezzi di produzione, sulla necessita' di un "piano
generale" una volta socializzati i mezzi di produzione, sulla dittatura del
proletariato (tesi che e' servita per giustificare tremende dittature, non
solo nell'Unione Sovietica), coi suoi incitamenti a usare il terrorismo, con
la sua morale rivoluzionaria, con le sue grandiose analisi storiche ed
economiche, poi sviluppate da diversi seguaci, segnatamente da Lenin, Marx
ha una responsabilita' innegabilmente rilevante nell'evoluzione
intellettuale e politica dell'Unione Sovietica e, via via, negli altri paesi
in cui il marxismo ha svolto un ruolo di rilievo. Le grandiose analisi
storiche ed economiche rappresentano uno straordinario merito intellettuale
di Marx - tornero' su questo punto -; al tempo stesso costituiscono (non e'
un paradosso) una circostanza che aggrava le sue responsabilita' sotto
l'aspetto etico-politico.
Dobbiamo dunque distinguere il Marx rivoluzionario dal Marx economista: il
primo si e' assunto responsabilita' tremende nei suoi sforzi volti a
"cambiare il mondo"; il secondo puo' aiutare a comprenderlo. In due parole:
il primo Marx va esecrato, il secondo va studiato; dal momento che non ci
troviamo di fronte al fondatore di una religione, ma a un pensatore, la
distinzione e la separazione sono del tutto legittime.
Cominciamo col Marx rivoluzionario.
Di violenza, di frode, di inganni al mondo ce ne sono sempre stati e, io
temo, ce ne saranno sempre. Gli intellettuali che teorizzano l'opportunita'
ed anzi la necessita' di ricorrere a violenza, a frode e a inganno si
assumono la responsabilita' di giustificare e quindi di aggravare ed
estendere queste atroci tendenze insite nell'uomo. Marx, e' stato detto, si
e' assunto senza esitazione quella responsabilita' per un fine nobile: per
il riscatto degli oppressi del nostro tempo - i lavoratori salariati -. Ma
il raggiungimento del fine e' estremamente incerto e problematico - la
realta' dei paesi dove la dottrina di Marx si e' affermata mostra che il
progetto e' miseramente e tragicamente fallito -. Applicando quei terribili
insegnamenti nel perseguire quel fine la somma delle violenze, delle frodi e
degli inganni cresce: questo e' matematico, questo e' accaduto. Il fine non
e' stato raggiunto: al contrario.
Mi e' stato obiettato: considera la Rivoluzione francese: anche in quella
serie di eventi tragici vi furono, in abbondanza, violenze, frodi e inganni;
ma non per questo la Rivoluzione francese e' da condannare. E vero. Ma sfido
chiunque a individuare un solo intellettuale in qualche modo paragonabile a
Marx che nel periodo preparatorio abbia teorizzato l'opportunita' di usare
anche i mezzi piu' barbari per perseguire quel fine. Dobbiamo tenere ben
presente che il marxismo fondava le sue basi teoriche sulla lotta di classe
e, connessamente, sull'odio di classe; non solo la violenza, compresa la
violenza terroristica, ma anche la frode e l'inganno erano del tutto leciti
ed anzi raccomandabili per far trionfare la causa del proletariato e
cambiare il corso della storia. Nelle opere indirizzate agli intellettuali
Marx ha parlato ripetutamente di lotta di classe, ha parlato di miseria
crescente e di crescente abiezione dei proletari in regime capitalistico.
Non ha esplicitamente parlato di odio di classe e dei mezzi da usare per il
trionfo del proletariato. Tuttavia, coloro che hanno studiato a tavolino le
principali opere di Marx e, a maggior ragione, coloro che non le hanno
studiate, ma sono stati attratti dalle sue violente denunce dei vizi della
societa' capitalistica, di rado si sono resi conto delle tremende
implicazioni delle sue idee. Coloro che sono passati dalla teoria alla
prassi sono stati indotti o costretti dalle circostanze a rendersi ben conto
di quelle implicazioni. Del resto, Marx le aveva rese esplicite in lettere e
in indirizzi rivolti al primo nucleo del Partito comunista tedesco. Per
togliere di mezzo ogni dubbio e' utile qualche citazione.
"Vae victis! Noi non abbiamo riguardi; noi non ne attendiamo da voi. Quando
sara' il nostro turno non abbelliremo il terrore".
Lo sdegno di Marx contro le nefandezze del capitalismo, che in passato aveva
esercitato un notevole fascino su tanti e tanti giovani, era strumentale,
giacche' egli non esitava a raccomandare ogni sorta di nefandezze per
combatterlo: "Agite gesuiticamente, buttate alle ortiche la germanica
probita', onesta', integrita'. In un partito si deve appoggiare tutto cio'
che aiuta ad avanzare, senza farsi noiosi scrupoli morali".
Marx scrive a Engels, riferendosi a una tesi esposta in un articolo
sull'India destinato all'"Herald Tribune", del quale per un breve periodo fu
collaboratore, una tesi di cui non era sicuro ma che, cio' nonostante,
voleva esporre, dato che (il commento e' mio) un profeta non poteva ignorare
una questione cosi' grave come l'"insurrezione indiana" - questo era il
titolo dell'articolo -. Scrive dunque a Engels: "E possibile che io ci
faccia una figuraccia. Tuttavia possiamo sempre cavarcela con un po' di
dialettica. Naturalmente ho tenute le mie considerazioni su un tono tale che
avro' ragione anche in caso contrario".
*
Marx: le tesi erronee e le tesi analiticamente feconde
Stando cosi' le cose, possiamo fidarci di Marx come analista della societa'
e, in particolare, come economista? Ritengo che, per sceverare le tesi
erronee da quelle valide e analiticamente feconde, si puo' adottare il
seguente criterio: quanto piu' direttamente le tesi di Marx riguardano il
suo programma rivoluzionario, tanto piu' bisogna diffidarne, mentre le tesi
piu' lontane da quel programma, ossia le tesi strettamente analitiche, vanno
considerate, pur sempre con occhio critico, ma con minore sospetto.
Le principali tesi erronee sul piano interpretativo sono due: la tesi della
tendenza alla proletarizzazione delle societa' capitalistiche e la tesi
dell'immiserimento della classe operaia. Queste tesi si articolano in cinque
proposizioni: 1) "Tutta la societa' si scinde sempre piu' in due vasti campi
nemici, in due classi ostili l'una all'altra"; 2) "L'operaio moderno, invece
di elevarsi col progresso dell'industria, cade sempre piu' in basso, al di
sotto delle stesse condizioni della propria classe. L'operaio si trasforma
in un povero e il pauperismo tende ad aumentare assai piu' rapidamente
dell'aumento della popolazione e della ricchezza"; 3) "L'antico ceto medio
rovina e cade nel proletariato"; 4) "Il moto proletario e' il moto autonomo
dell'immensa maggioranza della popolazione in favore dell'immensa
maggioranza"; 5) "Nei paesi dove la civilta' moderna si e' sviluppata si e'
formata una piccola borghesia nuova. Essa oscilla tra il proletariato e la
borghesia. Senonche' i suoi componenti vengono continuamente ricacciati nel
proletariato per effetto della concorrenza". (Sono tutte citazioni tratte
dal Manifesto del Partito comunista, che e' appunto concepito, non come
un'analisi, ma come una presentazione sintetica di tesi fondamentali).
Tutte le tesi ora richiamate appaiono come errori madornali, solo molto
limitatamente giustificabili facendo riferimento al tempo in cui furono
scritte.
Una tesi che si presenta come analitica e per certi aspetti lo e', ma che
deve esser vista come strumentale rispetto al programma rivoluzionario, e'
la tesi del valore-lavoro, che mirava a fornire una interpretazione
"scientifica" dello sfruttamento - in realta', un concetto etico -. Dopo
dibattiti durati oltre un secolo, e' stato dimostrato - paradossalmente da
un economista per nulla ostile a Marx - che la teoria del valore-lavoro non
e' sostenibile. Sulla tomba di questa teoria possono essere scritti, come
epitaffio, due righi che si trovano nell'indice analitico di Produzione di
merci a mezzo di merci di Piero Sraffa: "Il valore e' proporzionale al costo
in lavoro quando i profitti sono zero".
Altre tesi di Marx, che possono essere considerate indipendentemente dal suo
programma rivoluzionario, appaiono analiticamente feconde. Ricordo quattro
tesi di questo tipo.
Se la tesi della inevitabile proletarizzazione inerente alle moderne
societa' capitalistiche e' radicalmente sbagliata, non e' invece sbagliata,
ma anzi e' utile, l'analisi riguardante i movimenti delle molteplici classi
sociali che Marx svolge nelle sue opere storiche (la dicotomia - proletari e
capitalisti - va considerata in prospettiva, non come realta' gia' in atto).
E' feconda la tesi secondo la quale il movimento del sistema economico va
studiato considerando due settori (una dicotomia che anticipa quella
keynesiana fra consumi e investimenti) e distinguendo fra riproduzione
semplice e riproduzione su scala allargata - il movimento in cui si suppone
che il sovrappiu' sia almeno in parte investito.
E' particolarmente feconda la tesi secondo cui il processo di accumulazione
capitalistica e' spinto dalle innovazioni e ha carattere ciclico. Qui non
vanno lesinati i riconoscimenti all'intuizione fondamentale di Marx. Si deve
tuttavia osservare che egli si limita a enunciare la tesi, ma non si
addentra nell'analisi.
E' importante la tesi secondo cui la creazione di moneta bancaria ha un
ruolo essenziale nell'accumulazione ciclica.
Oltre le tesi di questo genere, che vanno approfondite e utilizzate, c'e'
un'idea fondamentale, che a rigore non e' originale, ma che Marx per primo
presenta in termini precisi e metodologicamente rilevanti: e' - come afferma
Joseph Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia (cap. III) -
"l'idea di una teoria del processo economico cosi' com'esso si svolge, per
impulso interno, nel tempo storico, un processo che in ogni momento produce
una situazione che da sola determina la successiva. In tal modo, l'autore di
tante concezioni errate e' stato anche il primo a visualizzare quella che
perfino oggi e' ancora la teoria economica del futuro, per la quale andiamo
lentamente e faticosamente accumulando mattoni e calce, dati statistici ed
equazioni funzionali". E' agevole rendersi conto che questa e' la stessa
idea che sottende il recente approccio dinamico definito "path dependence"
(dipendenza dal percorso precedente). In ultima analisi, l'approccio della
"path dependence" tende verso una sorta di "histoire raisonnee", che
costituisce il ponte fra la teoria economica e la storia.
Questo duplice giudizio - favorevole per il Marx economista, drasticamente
negativo per il Marx rivoluzionario - puo' apparire contraddittorio. Ho
cercato di chiarire perche' non lo e'. Sul progetto rivoluzionario di Marx,
tuttavia, permane un quesito fondamentale, che ho gia' proposto altrove e
che qui ripropongo.
*
Marx e i comunisti
Molti di coloro che durante e subito dopo la seconda guerra mondiale hanno
sentito la forte attrazione esercitata dal comunismo e dal Partito comunista
e spesso hanno operato in quel partito con gravi sacrifici, chiedono oggi
che vengano comprese le ragioni delle loro scelte considerando il momento
storico in cui venivano fatte. E' una richiesta giusta: anche chi scrive
senti' fortemente quell'attrazione e, se non ne fu travolto, lo dovette
all'influenza di diverse persone di grande statura morale, non comuniste ma
neppure violentemente anticomuniste - il violento anticomunismo avrebbe
potuto avere l'effetto opposto per quella tendenza anticonformistica
frequente fra i giovani.
Dobbiamo dunque liquidare tutto quanto e' stato compiuto nel nome di Marx -
ecco il quesito -; dobbiamo negare o rinnegare la passione, l'impegno e i
gravi sacrifici? Tutto da buttar via sul terreno dell'azione?
Io dico di no. In certi paesi, fra cui e' l'Italia, i comunisti hanno di
fatto accantonato da lungo tempo il progetto rivoluzionario e hanno dato
rilevanti contributi all'evoluzione democratica della societa' in cui hanno
operato. E anche vero, pero', che se molti di quei comunisti avessero
conosciuto il contenuto di quelle "confidenze" di Marx, di cui ho citato
solo alcuni esempi, avrebbero abbandonato il partito o avrebbero preteso un
cambiamento radicale del nome e della linea politica, come solo di recente
e' accaduto. Si puo' obiettare: non c'era alcun bisogno di conoscere quelle
"confidenze"; la condotta assolutamente cinica e priva di scrupoli dei
massimi dirigenti era apparsa in modo piu' che evidente durante gran parte
della tragica esperienza sovietica e durante la guerra civile spagnola - e'
ancora illuminante il libro scritto nel 1937 in uno stile terribilmente
sobrio da George Orwell (Omaggio alla Catalogna, Milano 1993) -.
All'obiezione si puo' rispondere ricordando che i comunisti - a parte i
capi - non credevano a quelle che venivano definite come calunnie borghesi.
D'altra parte, le stesse azioni riformistiche portate avanti dai comunisti
erano doppiamente viziate: sul piano della politica internazionale,
dall'ostilita' degli Stati Uniti - un'ostilita' durissima e in nessun modo
vantaggiosa per il paese considerato - e sul piano della politica economica
da residui della dottrina marxista di cui parlero' fra poco. Criticare il
marxismo in quanto dottrina rivoluzionaria e rimuovere quei residui
significa liberare energie che fino a un tempo recente risultavano
gravemente frenate e limitate. Un caro amico poco meno che mio coetaneo, che
in gioventu' e' stato comunista e che da molti anni non lo e' piu' mi dice,
appassionatamente, che egli non puo' condividere le conclusioni che emergono
dalla mia durissima critica, politica ed etica, al Marx rivoluzionario e che
conducono, indipendentemente dalle intenzioni, a criminalizzare milioni di
persone in perfetta buona fede, che spesso hanno rischiato la vita o l'hanno
persa per perseguire quegli ideali che hanno origine antichissima e che
erano stati fatti propri in tempi vicini a noi da Marx e dai rivoluzionari
da lui ispirati. Non solo nelle mie intenzioni ma neppure nelle conclusioni,
io credo, si possono trovare elementi per una criminalizzazione. Ho gia'
dichiarato che per poco non divenni comunista; se lo fossi diventato, non
per questo sarei entrato nella schiera dei criminali. Credo che i due
volumi, editi da Einaudi, che raccolgono le Lettere dei condannati a morte
della Resistenza - uno dei curatori dei quali era Giovanni Pirelli, fratello
del "capitalista" - costituiscano una fra le piu' nobili testimonianze a
favore dell'uomo; e molti fra quei condannati erano comunisti. Tutto cio'
non toglie assolutamente nulla a quegli uomini ed a quelle donne e alla loro
esperienza, ma non fa che aggravare le responsabilita' di Marx, mosso piu'
da un luciferino orgoglio intellettuale che da amore per i proletari; i
quali, a differenza del suo amico Engels, non conosceva neppure. Il punto e'
che, se ci convinciamo che la dottrina di Marx, in quanto dottrina
rivoluzionaria, e' radicalmente erronea ed ha provocato immani disastri,
dobbiamo proclamarlo a gran voce, anche se siamo stati comunisti, anche se
dobbiamo far valere la nostra buona fede, richiamando alla nostra stessa
memoria, per non veder scemare neppure di poco la stima di noi stessi, le
azioni positive e socialmente utili che possiamo aver compiute. In una tale
denuncia non ci deve far velo nessuna considerazione emotiva o affettiva.
Non c'e' dubbio: una critica che puo' colpire persone che stimiamo
profondamente e che in qualche caso sono anche nostri cari amici, come anche
un'autocritica, ci costa. Ma solo cosi', io credo, possiamo restare fedeli
al nostro mestiere di intellettuali.
*
La posizione della sinistra verso le piccole imprese
La scarsa considerazione per le piccole imprese da parte di molti esponenti
della sinistra politica e sindacale puo' essere in una certa misura
riconducibile alla tesi marxista della progressiva concentrazione delle
imprese. Questa tesi non e' erronea in se'. Per un lungo periodo, a partire
dalla fine del secolo scorso, si e' osservata una tale tendenza in diversi
rami dell'industria e della finanza, anche se negli ultimi due decenni essa,
a quanto pare, si e' arrestata o si e' addirittura capovolta. L'errore sta
nell'interpretazione di tale tendenza, che cioe' le grandi e grandissime
imprese sarebbero destinate a dominare un numero crescente di mercati e a
condizionare in misura crescente il potere politico, al livello interno e
nei rapporti internazionali; questa e' l'interpretazione che puo' essere
ricondotta a Marx e a Lenin. C'e' poi l'interpretazione di Schumpeter,
secondo il quale la capacita' d'innovare tende a essere sempre piu' una
prerogativa delle grandi imprese. Entrambe le interpretazioni vanno
respinte, non perche' - mi riferisco a Marx e a Lenin - le grandi imprese
non contino, ma perche' non e' vero che abbiano un peso crescente e non e'
vero che in paesi democratici gruppi sociali diversi, come quelli
rappresentati dai militari, dagli intellettuali e da organizzazioni
politiche, siano puramente subordinati ai gruppi economici - certe volte e'
vero il contrario -. Quanto all'interpretazione di Schumpeter, appare ormai
evidentemente infondata la tesi secondo cui le piccole imprese avrebbero
avuto un ruolo sempre piu' marginale nel campo essenziale delle innovazioni;
non di rado, il loro ruolo e' invece di primaria importanza. (Conviene
notare che la teoria della concentrazione costituisce una delle basi della
teoria leninista dell'imperialismo).
La tesi del processo di concentrazione poteva indurre, come ha indotto, i
marxisti a considerare con freddezza, ma non necessariamente con avversione,
le piccole imprese. Una certa avversione e' riconducibile al marxismo per
via dell'"antagonismo di classe", che nelle piccole imprese e' affievolito o
annullato. E' riscontrabile, specialmente nel passato, una notevole
freddezza non solo da parte dei marxisti ma anche della sinistra non
marxista; presumibilmente una delle ragioni sta nel fatto che la forza dei
sindacati di norma e' maggiore nelle grandi che nelle piccole imprese e, sia
pure in misure e con caratteristiche diverse secondo i paesi, i sindacati
hanno influenza sui partiti e sulla vita politica. Abbiamo tuttavia in
Italia una situazione che appare in contrasto con le osservazioni appena
espresse: in Emilia e in altre zone del Centro-Nord hanno prevalso a lungo i
partiti di sinistra di tipo marxista e, in particolare, i comunisti, eppure
le piccole imprese hanno avuto uno sviluppo molto notevole e, non di rado,
sono state create da ex operai specializzati che erano e sono poi rimasti
comunisti. Il paradosso si spiega tenendo conto che la "pace sociale", che
nelle piccole imprese quasi sempre s'instaura, per motivi strutturali, ha
decisamente favorito lo sviluppo di quelle imprese, con vantaggi sia dei
lavoratori che dei "capitalisti". D'altra parte, anche in questo caso e'
rimasta una notevole ambiguita': nei fatti - e soprattutto nei fatti
riguardanti le zone cui alludevo dianzi - l'atteggiamento del Partito
comunista verso le piccole imprese era sostanzialmente favorevole, ma in via
di principio, al livello della politica economica nazionale, restava la
freddezza, se non proprio l'ostilita'.
Con la costituzione del Partito democratico della sinistra le cose sono
alquanto cambiate; ma il cambiamento resta ancora in superficie.
*
Le formule partecipative
Fra i residui perniciosi del marxismo sul piano della politica economica
vanno annoverati i residui che si manifestano nell'avversione a tutte le
formule che, in senso lato, possiamo definire partecipative. Fra queste
possiamo considerare: le integrazioni retributive e i premi collegati con
gli aumenti di produttivita' o di profittabilita' delle imprese, la
partecipazione agli utili, varie forme di partecipazione alla gestione,
l'azionariato dei lavoratori e, piu' ampiamente, il cosiddetto azionariato
popolare. Il motivo dell'avversione sta nel fatto che tutte queste forme
partecipative comportano collaborazione fra lavoratori dipendenti e
capitalisti; ma non si puo' collaborare col "nemico di classe": e' un
peccato, se non un tradimento. Ora, che le forme appena ricordate possano
prestarsi ad abusi, non c'e' alcun dubbio; ma se dovessimo rifiutare ogni
forma o formula che comporta il pericolo di abusi, non potremmo fare
assolutamente nulla al mondo - e non solo nel mondo delle imprese -. D'altra
parte, il pericolo di abusi era relativamente elevato alcuni decenni or
sono, quando il livello d'istruzione dei lavoratori dipendenti era
relativamente basso e quando i sindacati non disponevano di uffici studi
bene attrezzati. Oggi le cose sono cambiate, ma quell'avversione persiste,
sia pure solo come residuo di una dottrina politicamente perniciosa.
*
Lotta di classe e odio di classe
Sia nel caso delle piccole imprese sia in quello delle forme partecipative
affiora quello che considero l'elemento peggiore del marxismo: la
predicazione dell'odio di classe che nell'originaria dottrina marxista
doveva servire ad accelerare lo scontro finale e ad alleviare i dolori del
parto, nella fideistica certezza che la rivoluzione era inevitabile e quindi
quanto piu' fosse violenta e rapida tanto meglio sarebbe stato. Ora, e' piu'
che evidente che fra capitalisti e lavoratori dipendenti non vi e'
necessariamente armonia d'interessi: gli scioperi non infrequenti neppure
nei paesi in cui la dottrina marxista ha avuto assai pochi seguaci e dove
nessuno parla di rivoluzione, bastano a dimostrare che i conflitti
d'interesse ci sono e a volte sono aspri. Ma gli interessi non sono sempre e
necessariamente in conflitto, come appare chiaro quando e' in gioco la
sopravvivenza stessa dell'impresa o quando si adotta l'una o l'altra delle
forme partecipative di cui si e' detto, con un successo che in molti casi e'
netto.
Nel progetto rivoluzionario di Marx "non pomi v'eran ma stecchi con tosco" -
per usare le parole del grande poeta -. Lo stecco piu' velenoso e' senza
dubbio quello dell'odio di classe considerato come la leva indispensabile
per attuare la nuova societa'.
Se si riconosce che le linee di politica economica richiamate sopra sono
nell'interesse dei lavoratori, dipendenti o indipendenti, allora si deve
attribuire al marxismo la responsabilita' di averle ostacolate, col
risultato che alcune di quelle linee sono state adottate, almeno
parzialmente, dalla destra, mentre era ed e' nell'interesse della sinistra
adottarle e svilupparle, ammesso che questa parte politica sia
particolarmente sollecita verso gli interessi dei lavoratori. Mi auguro che
coloro che hanno a cuore il rinnovamento della cultura di sinistra -
compresi coloro che accoglievano il messaggio marxista nel suo complesso -
approfondiscano la critica non solo al fine di utilizzare gli aspetti
analitici validi, ma anche per individuare altri residui passivi, che spesso
non sono evidenti e sono rintracciabili non solo a sinistra, ma anche a
destra.
*
Marx e Machiavelli
La raccomandazione che Marx rivolge al primo nucleo del Partito comunista
tedesco - "agite gesuiticamente" eccetera - merita qualche commento. Si
tratta di una raccomandazione tipicamente machiavellica, che nel nostro
paese, abituato da tempo immemorabile a rispettare ed ammirare i punti di
vista del grande segretario fiorentino, non fa scandalo. Dico che cio' e'
male. Dico che il machiavellismo rappresenta una tabe gravissima della
cultura politica del nostro paese, che - andando ben oltre, e' vero, le idee
originarie - e' servita a giustificare ogni sorta di delitti e di imbrogli e
quindi ha decisamente contribuito a renderli molto piu' diffusi di quanto
altrimenti sarebbero stati; una tabe che ha contagiato non pochi politici e
intellettuali sia fra i laici che fra i cattolici - in questo secondo caso
lo sconcerto e' anche maggiore, data la pretesa dei cattolici di essere
portatori di una moralita' piu' ampia e piu' elevata di quella dei laici.
Per evitare di dar esca a complicate e inconcludenti discussioni
filosofiche, mi limito ad affermare che il mio punto di vista coincide con
quello espresso, in termini quanto mai pacati e concreti, dal mio economista
e filosofo preferito, Adamo Smith, il quale, riferendosi al ben noto
massacro dei rivali perpetrato, a tradimento, da Cesare Borgia, nella Teoria
dei sentimenti morali (parte VI, sez. II) cosi' scrive:
"Machiavelli, uomo in effetti di moralita' non troppo scrupolosa anche per i
suoi tempi, faceva parte della corte di Cesare Borgia, quale rappresentante
della Repubblica di Firenze, quando il delitto fu perpetrato. Egli ne da'
una descrizione molto dettagliata in quella lingua pura, elegante e semplice
che contraddistingue tutti i suoi scritti. Ne parla con molta freddezza, si
compiace dell'abilita' con cui Cesare Borgia lo orchestro', mostra molto
disprezzo per l'ingenuita' e la debolezza delle vittime, ma nessuna
compassione per la loro triste e prematura morte, nessun genere di
indignazione per la crudelta' e la falsita' del loro assassino".
Se l'umanita' deve consistere di esseri civili e non di selvaggi e di
assassini, certi valori morali debbono essere rispettati: e' un'affermazione
che Salvemini esprime in un articolo pubblicato nella rivista "Il Ponte" del
1952; la condivido in pieno.
Posto che si voglia avanzare sulla via dell'incivilimento, allora nessun
fine, neppure l'unita' politica di un grande paese, neppure il riscatto del
proletariato, puo' giustificare l'abbandono di quei valori. Altrimenti
l'unita' nazionale, pur se la si ottiene, diviene unita' di una palude
melmosa e il riscatto del proletariato si trasforma nel suo opposto: i mezzi
deturpano il fine in modo molto difficilmente rimediabile.

6. RIFLESSIONE. FRANCO FORTINI: MARXISMO
[Riproponiamo ancora una volta (per le ragioni dette in chiusa della nota
introduttiva al testo precedente) il seguente testo, da Franco Fortini, Non
solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991 (una bella raccolta di testi brevi e
dispersi curata da Paolo Jachia, qui fine editore ma anche autore di egregi
studi - vedi ad esempio le sue belle monografie laterziane su Bachtin e De
Sanctis). Li' il testo che riportiamo e' alle pp. 145-149. Era primieramente
apparso sul "Corriere della sera" del 29 marzo 1983. Franco Lattes (Fortini
e' il cognome della madre) e' nato a Firenze nel 1917, antifascista,
partecipa all'esperienza della repubblica partigiana in Val d'Ossola. Nel
dopoguerra e' redattore del "Politecnico" di Vittorini; in seguito ha
collaborato a varie riviste, da "Comunita'" a "Ragionamenti", da "Officina"
ai "Quaderni rossi" ed ai "Quaderni piacentini", ad altre ancora. Ha
lavorato nell'industria, nell'editoria, come traduttore e come insegnante.
E' stato una delle persone piu' limpide e piu' lucide (e per questo piu'
isolate) della sinistra italiana, un uomo di un rigore morale ed
intellettuale pressoche' leggendario. E' scomparso nel 1994. Opere di Franco
Fortini: per l'opera in versi sono fondamentali almeno le raccolte
complessive Poesie scelte (1938-1973), Mondadori; Una volta per sempre.
Poesie 1938-1973, Einaudi; Versi scelti. 1939-1989, Einaudi; cui si
aggiungano l'ultima raccoltina Composita solvantur, Einaudi, e postuma la
serie di Poesie inedite, sempre presso Einaudi. Testi narrativi sono Agonia
di Natale (poi riedito col titolo Giovanni e le mani), Einaudi; e Sere in
Valdossola, Mondadori, poi Marsilio. Tra i volumi di saggi, fondamentali
sono: Asia Maggiore, Einaudi; Dieci inverni, Feltrinelli, poi De Donato; Tre
testi per film, Edizioni Avanti!; Verifica dei poteri, Il Saggiatore, poi
Garzanti, poi Einaudi; L'ospite ingrato, De Donato, poi una nuova edizione
assai ampliata col titolo L'ospite ingrato. Primo e secondo, presso
Marietti; I cani del Sinai, Einaudi; Ventiquattro voci per un dizionario di
lettere, Il Saggiatore; Questioni di frontiera, Einaudi; I poeti del
Novecento, Laterza; Insistenze, Garzanti; Saggi italiani. Nuovi saggi
italiani, Garzanti (che riprende nel primo volume i Saggi italiani apparsi
precedentemente presso De Donato); Extrema ratio, Garzanti; Attraverso
Pasolini, Einaudi. Si veda anche l'antologia fortiniana curata da Paolo
Jachia, Non solo oggi, Editori Riuniti; la recente bella raccolta di
interviste, Un dialogo ininterrotto, Bollati Boringhieri; e la raccolta di
Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003. Tra le opere su Franco Fortini
in volume cfr. AA. VV., Uomini usciti di pianto in ragione, Manifestolibri,
Roma 1996; Alfonso Berardinelli, Fortini, La Nuova Italia, Firenze 1974;
Romano Luperini, La lotta mentale, Editori Riuniti, Roma 1986; Remo
Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, Jesi 1988. Su Fortini hanno scritto molti
protagonisti della cultura e dell'impegno civile; fondamentali sono i saggi
fortiniani di Pier Vincenzo Mengaldo; la bibliogafia generale degli scritti
di Franco Fortini e' in corso di stampa presso le edizioni Quodlibet a cura
del Centro studi Franco Fortini; una bibliografia essenziale della critica
e' nel succitato "Meridiano" mondadoriano pubblicato nel 2003]

Quelli che hanno la mia eta' Marx l'hanno letto alla luce delle nostre
guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le potenze delle armi,
del profitto o del potere avevano voluto ridurre al silenzio. "E tu come li
chiami i popoli oppressi o uccisi in nome di Marx?", mi si chiedera' ora;
forse supponendo che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo.
Rispondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che dal
Diciassette, quando sono nato, sono nemici dei miei nemici, a Madrid come a
Shanghai, a Leningrado come a Roma, a Hanoi, a Santiago, a Beirut... I
cacciatori di "bestie marxiste" (cosi' si esprimono) devono sempre aver
avuto difficolta' ad apprezzare le differenze teoriche fra marxiano,
marxista, socialista, comunista, bolscevico e cosi' via.
Mi spieghero' meglio, per loro beneficio. C'e' una foto russa, del tempo
della guerra civile: un plotone di morti di fame, in panni ridicoli,
cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slabbrate; e a spall'arm i fucili
dello zar. Questo e' marxismo. C'e' un'altra foto, Varsavia 1956, un giovane
magro, impermeabile addosso, sta dicendo nel microfono, a una sterminata
folla operaia che il giorno dopo l'Armata rossa, come a Budapest, puo'
volerli morti o deportati. Anche questo e' marxismo. Con chi queste cose
dice di non capirle, di marxismo e' meglio non parlare neanche.
Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo dalla faccia
della terra, combattendo borghesi e fascisti. Grazie a loro se le forze
dell'ordine volessero perquisirmi, potrei mostrare che sul miei scaffali
invecchiano le opere di Marx, di Lenin e di Mao, senza temere, ancora, di
venire trascinato alla tortura e alla fossa com'e' accaduto e ogni giorno
accade a poche ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco e'
mancato che la civica arena o il catino di San Siro non accogliessero, come
lo stadio di Santiago del Cile, le "bestie marxiste". So chi mi avrebbe
aiutato, in quel caso: non sarebbero stati davvero quelli che mi conoscono
perche' hanno letto i miei libri. E ora approfitto di queste righe per
salutare Alaide Foppa, mia collega di letteratura italiana a Citta' di
Messico. La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l'ha ammazzata,
in Guatemala. Anche questo e' marxismo.
Cominciai nel 1940 col Manifesto, per consiglio di Giacomo Noventa e
Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii poi qualcosa da Trockij e
Sorel. Durante la guerra vissi in fanteria un buon corso di marxismo
pratico. A Zurigo, nell'inverno 1943-44, non so quanti libri lessi,
riassunsi e annotai, che parlavano di socialismo e di materialismo storico.
Si faceva fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricordo, mi
fu molto utile; l'aveva scritto un tale che firmava con lo pseudonimo, seppi
poi, di Saragat. L'apprendistato comprendeva testi anche troppo disparati:
Malraux e Rosselli, Victor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard...
A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere storiche (Le lotte
di classe in Francia, Il diciotto brumaio, La guerra civile in Francia),
parte della Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza
sintetica, della Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del
Capitale, e a partire dal 1949 quei Manoscitti economico-filosofici del 1844
oggi tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro capacita'
di guidarci da Hegel fino ai giorni che ancora ci aspettano; e di dirci
parole di incredibile attualita'. E altro ancora.
Dopo vent'anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il secondo Marx;
dopo Lukacs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel, Adorno e Althusser, Mao e gli
amici torinesi di "Quaderni rossi", a quelle pagine non ho piu' sentito il
bisogno di tornare se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia
intitolata, appunto, "Il pensiero nelle opere dei classici":

Non si cura
che tu gia' lo conosca; gli basta
che tu l'abbia dimenticato...
senza l'insegnamento
di chi ieri ancora non sapeva
perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.

Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se fondamentale, quel
pensiero non e' se non un passaggio dell'ininterrotto processo che porta da
luce a oscurita' poi ad altra luce, e dal credere di sapere al sapere di
credere. Se ne compone (come quella di chiunque) la nostra esistenza. O per
la gioia dei piu' sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra di aver
detto sempre e cioe' di non aver creduto mai che il pensiero di Marx potesse
fungere da chiave interpretativa del mondo piu' o meglio di quanto lo
faccia, ad esempio, la poesia dell'Alighieri?  Una educazione alla storia ci
faceva almeno intravvedere quel che era stato detto e fatto ben prima e
sarebbe stato detto e patito molto dopo di noi.
Quando, per l'Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce, ci viene
ogni qualche anno ripetuto che quella di Marx e' filosofia superata, non ho
difficolta' ad ammetterlo; sebbene subito dopo domandi che cosa significa
superare la filosofia di Platone o di Kant. Quando ci viene spiegato che la
teoria marxiana del valore o quella sulla caduta tendenziale del saggio di
profitto sono manifestamente errate, non ho difficolta' ad ammetterlo; anche
perche' mai l'ho impiegata per capire come vadano le cose di questo mondo.
Quando mi si dimostra che l'idea, certo marxiana, di un passaggio dalla
preistoria umana alla storia mediante la fine della proprieta' privata,
dello Stato e del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia fallace e
senz'altro smentita dai "socialismi reali", apertamente lo riconosco; anche
perche' ho sempre attribuita la figura d'un progresso illimitato all'errore
che afferma la indefinita perfettibilita' dell'uomo, un errore
illuministico-borghese che Marx ebbe a ereditare.
Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie e' falsa, che la lotta
delle classi e' una favola e che il socialismo e' una utopia senza neanche
l'utilita' pragmatica delle utopie, chiedo allora un supplemento di
istruttoria. Primo, perche' il pensiero epistemologico contemporaneo, dalla
critica psicanalitica del soggetto fino alla semiologia, conferma la fine
d'ogni immediata coerenza fra parola, coscienza e realta', come fra mondo e
concezioni del mondo; secondo, perche' a tutt'oggi e' difficile negare - e
lo si sapeva ben prima di Marx - l'esistenza di ininterrotti conflitti di
interessi fra gruppi umani per il possesso dei mezzi di produzione e la
ripartizione del prodotto sociale; conflitti determinati dai modi del
produrre e determinanti l'assetto, o lo sconvolgimento, dell'intera
societa'. Per quanto e' del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri che
esso rinvia ad una persuasione indimostrabile.
La volonta' di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo grazie
alla mediazione dell'etica e della religione. Marx non ne ha data nessuna
ragione migliore. Indipendentemente da ogni mito perfezionista, credo si
debba continuare a volere (un volere che implica lotta) una sempre piu'
sapiente gestione delle conoscenze e delle esistenze. Il "sogno di una cosa"
e' la realizzata capacita' dei singoli e delle collettivita' di operare sul
rapporto fra necessita' e liberta', fra destino e scelta, fra tempo e
attimo.
Il movimento socialista e comunista si e' fondato per cent'anni su quel che
si chiamava l'insegnamento di Marx. Ne era parte maggiore l'idea che il
passaggio al comunismo dovesse essere conseguenza dello sviluppo delle forze
produttive, della industrializzazione e della crescita della classe operaia;
e compiersi con una pianificazione centralizzata. In questi nodi di verita'
e di errore si e' legato il "socialismo reale". Oggi gli esiti del passato
ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti tragici non solo per cadute
politiche, economiche o culturali ne' solo per costi umani; ma perche',
anche al di fuori dei paesi comunisti, il "marxismo reale" ha accettato il
quadro mentale del suo antagonista: primato della tecnologia, etica della
efficienza, sfruttamento dei piu' deboli. Sembrano falliti tutti i tentativi
per uscire da questa logica: massimo quello cinese. Eppure, Bloch dice, non
e' stata data nessuna prova che quella uscita sia impossibile. L'eredita'
marxiana e' divisa: una meta' e' ancora nostra, l'altra e' dei nemici del
socialismo e comunismo, sotto ogni bandiera, anche rossa.
Quanto alla mente geniale morta cent'anni fa, e' anche grazie ad essa che e'
stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalita' e dei loro sepolcri.
Pero' ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati, a Nanchino
la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati; mi fosse
possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una medesima
parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici. Marx ci
ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera implacabile
gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le societa' che
preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino, quali
fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver voluto
qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a volere.
Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta, interpretata,
"salvata". E o lo sara' o non ci sara' piu' - sappiamo che e' possibile -
nessuna storia. O ti interpreti, ti oltrepassi, ti "salvi" o non sarai
esistito mai.
L'amico di Federico Engels non e' stato davvero il primo a dircelo. L'ultimo
si'. E meglio ancora ogni giorno lo dice, oscuro a se stesso, "il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente" (Ideologia tedesca, 1845-46,
I, a). Anche questo e' marxismo.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 53 del 25 dicembre 2005

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