Galimberti: Smettiamo di crescere 2.9.05



da Associazione Partenia
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 «LZumanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche
se stessa come unZumanità da buttar via».Gunther Anders*


Umberto Galimberti: smettiamo di crescere

Tratto da "la Repubblica", 2 settembre 2005

Che cosa prova la gente a diventare collettivamente più povera? Non parlo
dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200
milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media
che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito
per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le
rivendicazioni di categoria.
Si può sempre dire che un poZ di povertà non fa male, raddrizza i costumi
che abbiamo spinto un poZallZeccesso, spopola i ristoranti dove la troppa
gente non riesce più a scambiar parola, riduce il traffico che ha
trasformato le vie della nostra città in un unico grande parcheggio,
allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di
viaggio, le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar
animo.
Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno
ridotte le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che
purtroppo aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo
dei farmaci, o più semplicemente alla qualità degli alimenti a cui è da
addebitare quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti
chiamare allungamento della vita.
Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine
pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a
modificare lZandamento dellZeconomia la quale, per effetto della
globalizzazione e forse della supremazia dellZaspetto finanziario (e
virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di
trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno
davvero conosce.
Tutto ciò comporterà, come dicono gli economisti, un rallentamento della
crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella
parola subdola: «crescita», che gli economisti applicano sia ai paesi
diseredati che raccolgono tra lZaltro i quattro quinti dellZumanità, sia ai
paesi già sviluppati che nonostante ciò «devono crescere». Fin dove? E a
spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui lZeconomia tace perché il
problema non è di sua competenza, e con lZeconomia tacciono anche le voci
degli uomini che alle leggi dellZeconomia si devono piegare.
Quando dico «economia» non dico solo agricoltura, commercio, industria e
finanza, ma dico soprattutto mentalità diffusa, modo di sentire, categoria
dello spirito del nostro tempo, perché questo è diventato, nel modo di
pensare e di sentire di tutti, lZimperativo categorico della crescita.
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei
nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo
che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è così
diventata una forma mentis, uno stato dZanimo, un rimedio allZangoscia, una
garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui,
se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una
finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce accade una
paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, unZansia per il
futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto
dZaria e tutti composti ostentiamo quella tranquillità smentita dai brividi
del nostro ventre che però avvertiamo solo noi.
E così ciascuno per sé sente il brivido della crescita zero a cui non sa
con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita
zero sarà sempre più il nostro futuro, non solo perché non possiamo
continuare a pensare che i quattro quinti dellZumanità continuino a
sacrificarsi per la nostra crescita, ma perché quando la crescita non ha
altro scopo che continuare a crescere, è lZuomo stesso del mondo
privilegiato a divenire semplice «funzionario» di questa idea fissa che, se
diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il
«senso» della vita, il suo sapore, il suo significato per noi.
Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero ci
desse lZopportunità concreta di incominciare a riflettere sullZassurdo
ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla qualità della nostra
comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un poZ ambigua del nostro
amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto
sul modello di una crescita allZinfinito ha parentela con lZassurdo, allora
anche la crescita zero, che finora tocca solo i nostri soldi e non la
nostra pelle o la dignità dellZuomo come ancora accade in troppe parti del
mondo, può essere accettata come una buona occasione per raddrizzare non
solo il nostro costume, ma anche la qualità del nostro sguardo sulla vita e
sul mondo.
Ciò può avvenire incominciando magari a rinunciare allZindividualismo
sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il «noi»
rispetto allZ«io». Il noi del volontariato, della reciproca assistenza,
della familiarità del borgo rispetto allZanonimato della metropoli, il noi
della convivialità, dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione
stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio, agli
stili di vita.
Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi è consapevole
di non poter controllare o modificare lZandamento dellZeconomia, ma dal
rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che
visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con lZaggravante
che in una società che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e
di crescita, il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per
le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno,
ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la
produzione non tollera interruzioni, le merci «hanno bisogno» di essere
consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente
il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia «prodotto».
In una società opulenta come la nostra, dove lZidentità di ciascuno è
sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono
sostituibili, ma «devono» essere sostituiti, può darsi che si cominci ad
avvertire, sotto quel mare di pubblicità che ogni giorno ci viene
rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di
nichilismo dovuto al fatto, come scrive Gunther Anders, che: «LZumanità che
tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come
unZumanità da buttar via».
Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa
sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri
comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi, infatti,
come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro, sotto
lZimperativo della crescita il lavoro è visualizzato nel solo ambito
dellZeconomia, e ciò vuol dire che solo lZeconomia è in grado di dare
espressione allZuomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro
orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo.
A sua volta il lavoro, non avendo altra finalità se non quella di
concorrere allZincremento infinito della produzione non sarebbe più il
luogo in cui lZuomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacità, le
sue ideazioni, lZattuazione della sua progettualità, ma solo il luogo in
cui lZuomo tocca con mano la sua «strumentalità», il suo essere semplice
appendice delle macchine, che nel loro insieme compongono lZapparato
tecnico-economico, interessato solo al proprio potenziamento e non alle
sorti dellZuomo.
Perché allora non passare gradatamente dal «lavoro come produzione» (che ha
in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza perché) al
«lavoro come servizio» dove la produzione non ha in vista solo beni e merci
(di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i
bisogni e i desideri indotti, cioè a loro volta prodotti), ma anche
erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione
del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio lZesigenza, se
dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al
volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo
una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento
economico, se lZeconomia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse
diversificare i suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci e
sempre più merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e
per la relazione tra le persone.
Nel mondo dellZopulenza compriamo, in modo maniacale merci e sempre più
merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di
relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del
lavoro. Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perché la felicità,
nonostante la pubblicità vi alluda, non ci viene dallZultima generazione di
telefonini o di computer, e più in generale di «prodotti», ma da uno
straccio di «relazione» in più che il lavoro come servizio (e non solo come
produzione) potrebbe incominciare a garantire


*
Gunther Anders (pseudonimo di Günther Stern) nacque a Breslavia nel 1902.
Laureato in filosofia nel 1925, dopo studi condotti alla scuola di Husserl,
emigrò per ragioni razziali nel 1933, trasferendosi prima a Parigi e poi
negli Stati Uniti (New York e Los Angeles). Dopo essere stato il primo
marito di Hannah Arendt, sposò nel 1945 la scrittrice Elisabeth Freundlich.
Nel 1950 tornò in Europa, stabilendosi a Vienna dove morì nel 1992. È
autore di un'opera ancora in parte inedita in cui l'interesse per la
filosofia si alterna con quello per la letteratura. Sono famose le sue
prese di posizione sulla bomba atomica (cfr. Essere o non essere e La
coscienza al bando, entrambi Einaudi, 1961 e 1962), sulla guerra del
Vietnam e su Cernobyl.





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